Versione PDF stampabile:
“Il bambino è padre dell'uomo adulto; | io per me vorrei i giorni miei | l'uno all'altro legati da affetti naturali.” W. Wordsworth
Fig. 1) Piccolo e adulto di Scimpanzè (Gould, 1977, p. 318)
Indice
Da quello che si sa, le prime forme ominidi (le specie protoumane) si sono staccate dall'albero genealogico dello scimpanzé comune circa 6 milioni di anni fa: per il 98,4% ne condividiamo il DNA (Diamond, 1991), molto più di quanto lo scimpanzé condivida DNA con le altre scimmie antropomorfe (gorilla, gibbone, orango). Da allora l'uomo ha continuato ad evolversi, aumentando il volume e l'arrotondamento del proprio cranio e abbandonando sempre più le sue spoglie "scimmiesche", fino a comparire circa 300 mila anni fa nelle sue sembianze attuali, l'homo sapiens (fig. 2).
Ma cosa fece sì che "improvvisamente" diventammo umani? La risposta sull’origine dell’uomo rappresenta tutt'oggi un rompicapo per paleontologi, biologi, antropologi, filosofi, i quali sembrano concordi nel ritrovare nella “triade umana” (Portmann, 1969) le particolarità della specie umana: la postura eretta che ha incentivato lo sviluppo intenso dell'innervazione della mano, consentendo una complessità e una precisione unica nel mondo animale; il linguaggio, fornito da specifiche strutture cerebrali (l’area di Broca e Wernicke) parallelamente a quelle laringee per la fonazione; il pensiero logico-astratto che ha consentito l’accesso al mondo simbolico e immaginativo. L’ominazione è avvenuta attraverso l’azione congiunta di molte “forze” diverse che, influenzandosi l’un l’altra in quell’intreccio complesso che ha avviato l’evoluzione umana, sono state brillantemente riassunte da Morin (1979): “l’ominazione non si potrebbe concepire soltanto come un’evoluzione biologica, né soltanto come un’evoluzione socioculturale, ma come una morfogenesi complessa e a molte dimensioni risultante da interferenze genetiche, ecologiche, cerebrali, sociali e culturali”. (p. 61) (fig.3)
Eppure, se si osservano i vari passaggi dell'evoluzione della specie homo, si può constatare come gradualmente si siano persi quei tratti morfologici propri dei pongidi: mandibola protrusa, arcate sopraccigliari sporgenti, grande dentizione (fig. 4). Inoltre, si può osservare come l’adulto della nostra specie assomigli molto più al cucciolo del pongide piuttosto che alla forma adulta dello scimpanzè (fig. 1). Tale caratteristica fa parte di quel processo biologico che cade sotto il nome di neotenia, ossia il mantenimento nel discendente adulto di aspetti giovanili tipici dei progenitori ancestrali (in una prospettiva filogenetica). Detto in altri termini (in una prospettiva ontogenetica), con neotenia ci si riferisce alla conservazione in età adulta di certe caratteristiche proprie dell’infanzia (pedomorfosi) o appartenenti alla vita fetale (fetalizzazione).
Aspetti neotenici nell’uomo
Bolk (1926) fu il biologo che maggiormente enfatizzò i caratteri pedomorfici e certi aspetti molto ritardati nello sviluppo della specie homo ("teoria della fetalizzazione umana”): l’ortognatismo facciale (la relativa piattezza del volto), l'assenza della migrazione orbitale, l’assenza di tubercoli coccigei, la riduzione o l’assenza dei peli corporei, la forma esterna delle orecchie, la plica epicantica, la posizione centrale del foro occipitale del cranio (il foramen magnum), la persistenza delle suture craniche e nasali, il pollice più lungo, la dentizione, la forma della pelvi, la presenza dell'imene e delle grandi labbra nella donna…
Le scimmie, ad esempio, con la crescita si allontanano sempre di più dai loro tratti infantili, in quel processo opposto alla pedomorfosi che prende il nome di gerontomorfosi (diventare simili agli individui più anziani). Quello che si osserva durante lo sviluppo dei pongidi è infatti una forte allometria negativa del cranio rispetto a quella positiva delle fauci (prominenza dell'osso mascellare e dimensioni maggiore della dentizione). Ossia, nel caso della scimmia si può notare un importante sviluppo in avanti della faccia e delle mandibole, parallelamente ad una crescita minima della scatola cranica (fig. 5/6). Bolk quindi, constatando come negli umani si conservino proprio quelle caratteristiche che nello sviluppo dei primati sono transitorie, ne traeva la conclusione che la caratteristica essenziale che aveva portato all’evoluzione umana non fosse stata l’acquisizione di tratti nuovi, bensì la conservazione di tratti infantili ed embrionali.
Fig. 5) A) Crescita del cranio dello scimpanzè. B) Crescita del cranio umano. (Gould, 1977, p. 347)
Fig. 6) Confronto tra crani di primati e di Homo (Montagu, 1981, appendice)
Tra gli aspetti neotenici dell'uomo, quello del cranio e del cervello sono i più curiosi: infatti, rispetto all'adulto, il cervello dell'infante alla nascita pesa il 23% (e il 35% dopo il primo anno di vita), mentre nelle antropomorfe il cervello alla nascita pesa già circa il 50% e si completa entro i primi anni di vita (Dobzhansky, 1965); inoltre, alla nascita, il tasso di crescita del cervello dell’infante conserva il veloce ritmo fetale di sviluppo fino al terzo anno di vita e la crescita completa termina solo nella seconda decade di vita (fig. 7/8). Oltre alla sua struttura unica stratificata fatta a circonvoluzioni, il cervello umano è tre volte più voluminoso rispetto ad un primate di pari peso corporeo (occupando il 2-3% del peso corporeo totale) e pertanto richiede un apporto energetico costante (quasi il 25% dell’energia apportata), contrariamente alla media dell'8% del resto delle scimmie. Tale conquista cerebrale è stata resa possibile anche dall'utilizzo del fuoco, cambiando certamente la biologia dell'essere umano: infatti, la cottura quotidiana dei cibi ha permesso all'intestino di accorciarsi e quindi di ridurre il suo elevato apporto energetico, dedicandolo così allo sviluppo del cervello (Gibbons, 2007). Inoltre, la cottura dei cibi attraverso il fuoco ha favorito la riduzione della mascella e della dentizione, liberando in parte il viso dai suoi compiti meccanici e lasciando quindi la possibilità di maggiore spazio alla scatola cranica per l’accrescimento del volume del cervello (Chiarelli, 1978). Infine il fuoco ha creato la dimensione spaziale e mentale del “focolare”, ossia un luogo di protezione unico e sconosciuto al resto del mondo animale, presso cui l’uomo poteva trovare quel sonno profondo tanto necessario per poter riposare e soprattutto per poter sognare in tranquillità.
La domanda di maggiore complessità non può espletarsi che sul piano filogenetico, favorendo ogni mutazione che accresca le potenzialità del cervello: questo accrescimento non riguarda soltanto il numero di neuroni della corteccia superiore, ma anche lo stabilirsi di connessioni tra regioni cerebrali fino allora indipendenti, l’emergenza di nuovi centri di associazione e di organizzazione: si tratta di una riorganizzazione globale del sistema a un livello di maggiore complessità, cui ha contribuito proprio l’aumento del numero dei neuroni. (Morin, 1917, p. 85)
Fig. 7/8) Confronto tra indici di sviluppo cerebrale dell'uomo con le scimmie antropomorfe (Portman, 1969, p. 9,125)
Il fatto che l'evoluzione stesse premiando i crani più grossi dei bambini doveva cozzare però con il problema dei fianchi delle donne dove, in conseguenza allo sviluppo dell'andatura eretta, è avvenuta una “strozzatura” del pavimento pelvico (il piano formato dallo spazio tra le due spine ischiatiche e la sinfisi pubica), dovuto all’aumento dell’angolo lombosacrale (diversamente dalle altre scimmie antropomorfe). Infatti, l’ingente tasso di crescita del cervello umano durante l’ultimo periodo della vita fetale (superiore a qualsiasi altro organo), produce un aumento del volume cranico tale che, se la nascita fosse ritardata ulteriormente, la testa del neonato non potrebbe più passare dal canale vaginale. Per cui “la selezione favorì le nascite anticipate” (Harari, 2017, p. 19), ossia l'espulsione prematura del bambino dal ventre materno quando cervello e cranio sono ancora relativamente piccoli e morbidi (le ossa del cranio non sono ancora saldate), affinché il parto non diventasse troppo pericoloso per la vita della donna, la quale poteva quindi avere la possibilità di dare alla luce più figli nel corso della sua vita (benchè l’obiettivo della specie homo non sia mai stato quello di massimizzare il numero dei nati, ma di assicurare la sopravvivenza alla prole già esistente). Non a caso, è stato suggerito che il coinvolgimento durante il parto di altre donne (le levatrici), riscontrate in tutte le società umane, coincida con la comparsa del bipedismo (Tettersal, 1998), dato che solo per questi mammiferi su due zampe il parto è divenuto cosa tanto critica e complessa.
Il ritardo dello sviluppo
Vedo un animale meno forte di alcuni, meno agile di altri, ma in complesso, organizzato in modo superiore a tutti. J-J. Rousseau
Un altro aspetto a dir poco unico della specie homo consiste nel ritardo dello sviluppo associato alla durata del periodo d’immaturità (funzionale e sessuale), di fatto sconosciuti dal resto del mondo animale. Infatti, contrariamente agli altri mammiferi, il neonato vive uno stato di impotenza assoluta, restando dipendente dalle sue figure di accudimento per lunghissimo tempo prima di diventare autonomo e maturo sessualmente per la riproduzione. La mielinizzazione (la ricopertura delle fibre nervose) non si completa fino al 15° mese postanale, il sistema muscolare, immunologico, enzimatico, immunologico e termoregolatore alla nascita non sono che appena ai primordi del loro funzionamento.
Queste caratteristiche del bambino richiedono un ambiente adeguato in grado di assicurargli protezione, cura ed educazione durante il suo lungo e complesso sviluppo: proprio da queste necessità infantili è assai probabile che sia nata la famiglia, sostenuta a monte da un saldo legame monogamico (Eibl-Eibesfeldt, 1984). Dunque la neotenia nell'uomo rappresenta “il prerequisito filogenetico della matrice famigliare” (Menarini, Neroni, 2009, p. 65), che a sua volta ha preservato e incentivato l'aspetto neotenico della specie, assicurando contemporaneamente fitness biologica e cultura. Lo stesso legame (di tipo amoroso, amicale, sociale) tra i membri di una comunità è reso possibile dalla trasposizione della prima relazione del bambino con la madre e con la sua famiglia sugli altri membri della società, nel momento in cui il giovane adulto si sviluppa e rivolge all’esterno i propri investimenti socio-affettivi. In altri termini, è per mezzo del primo amore neotenico sorto all’interno del nucleo famigliare che sarà possibile ogni tipo di relazione affettiva che abita e tiene unita la società.
Eppure, dato che nel corso dell’evoluzione dei primati si riscontra la tendenza ad allungare sia il periodo di gestazione che il periodo di sviluppo, ci si dovrebbe aspettare nel caso dell'uomo, dato il suo ingente ritardo di sviluppo, una gestazione molto più lunga; fatto che non si verifica, dato che essa è solo leggermente superiore rispetto a quella delle scimmie antropomorfe (ad esempio, tre mesi in più rispetto al gorilla). Infatti, secondo Portmann (1969) “la durata reale della gravidanza umana è molto più breve di quanto dovrebbe essere per uno sviluppo tipico dei mammiferi al nostro livello di organizzazione” (p. 76), a tal punto che la durata della gestazione, in proporzione allo sviluppo, dovrebbe essere di ben 21 mesi! E in un certo senso è proprio così, se si considera che il primo anno di vita del bambino rispecchia una condizione molto attigua alla condizione intrauterina: egli, quando non è portato in braccio, trascorre la maggior parte del tempo a dormire e solo dopo circa il nono mese postnatale può iniziare a camminare a “quattro zampe”. E’ possibile che nella donna neanderthaliana il canale del parto fosse più ampio, permettendo al figlio di crescere nell'utero più a lungo dei 9 mesi canonici (anche se queste rimangono solo congetture): infatti, l'uomo di Neandertal aveva una capacità cranica maggiore del 10% rispetto al sapiens, eppure la sua forma era ancora abbastanza "bestiale" (fronte bassa, arcate sopraccigliari prominenti, occhi infossati, mandibola con poco mento…). Secondo Gould (1977), la morfologia pedomorfica è proprio conseguenza del ritardo dello sviluppo umano, anche se nell'uomo entrambi gli aspetti sono associati al processo neotenico basato sull’espansione e sul ritardo della vita fetale: “il ritardo dello sviluppo ha prodotto un grande cervello mediante il prolungamento dei tassi di crescita fetali e ha fornito un insieme di proporzioni craniali adatte alla postura eretta; la postura eretta ha liberato la mano per l’utilizzo di utensili, stabilendo le pressioni selettive per l’espansione del cervello”. (ibid., pag. 353)
Secondo Portmann (1969), più che ai primati, il neonato umano sembra molto più vicino ai marsupiali, in quanto al momento della nascita, in confronto agli altri animali, egli completa il periodo temporale di gestazione fuori dal ventre materno (da animale di tipo “nidifugo” come ungulati, balene, foche e scimmie, l’uomo torna “nidicolo” in seconda battuta). Cosicché la cultura (rappresentata dalla famiglia), accogliendo il bambino alla nascita, diventa dunque una seconda natura, un “utero sociale” (ibid.), ossia un milieu “artificiale” all’interno del quale il bambino è in grado non solo di far maturare la propria biologia, ma di divenire uomo in quanto tale: nella sua essenza, “l’uomo è un essere culturale per natura perché è un essere naturale per cultura” (Morin, 1979, p. 93). Cultura che a sua volta, se vuole sopravvivere, “deve essere trasmessa, insegnata, appresa, cioè riprodotta in ogni nuovo individuo nel suo periodo di apprendistato per essere in grado di auto-perpetuarsi e perpetuare l’alta complessità sociale” (Morin, 1979, p. 81). L’uomo nasce dunque anzi tempo, sprovvisto di quel bagaglio istintuale che gli permette già da subito di muoversi nel proprio ambiente: è chiaro dunque che questo lungo periodo d’immaturità nel bambino corrisponde ad un "prolungamento neotenico della condizione fetale” (Montagu, 1981, p. 121), dove la dipendenza del neonato rappresenta una continuazione della condizione originaria del feto.
Credo che gli esseri umani siano “essenzialmente” neotenici non perchè io posso enumerare una lista di importanti caratteri pedomorfici, ma perché un ritardo nello sviluppo ha chiaramente caratterizzato l’evoluzione umana. Questo ritardo costituisce una matrice entro cui ogni tendenza nell’evoluzione umana deve essere inquadrata. (Gould, 1977, p. 308)
I vantaggi evolutivi della neotenia
La caratteristica umana e unica di restare sempre in uno stato di sviluppo é certo un dono che dobbiamo al carattere neotenico del genere umano. (K. Lorenz, 1965, p. 325)
Ovviamente, la neotenia da sola non è in grado di spiegare in toto le cause dell’ominazione, in quanto, come ha sottolineato Dobzhansky (1962), certi tratti importanti esclusivamente umani non sono neotenici, come lo sviluppo degli arti in posizione bipede, lo sviluppo delle aree corticali e l’abbassamento della laringe per la produzione del linguaggio (che avviene solo intorno ai due anni d’età, in quanto prima il lattante ha necessità di deglutire e respirare contemporaneamente). In particolar modo, “il bipedismo apre la possibilità dell’evoluzione che porta a sapiens: la posizione eretta libera la mano, la mano libera la mascella, la verticalizzazione e la liberazione della mascella liberano la scatola cranica dalle costrizioni meccaniche che pesavano precedentemente su di essa, e questa diventa atta ad allargarsi a favore di un 'locatario' più ampio” (Morin, 1979, p. 60).
Tuttavia, è da sottolineare come sia proprio la condizione infantile a rendere l’uomo quell’organismo capace di apprendere continuamente con una certa plasticità e flessibilità, oltre che permettergli di conservare per tutta la durata della vita quel tratto distintivo del bambino, la curiosità, così fondamentale per un adattamento attivo e creativo con l’ambiente (Lorenz, 1965). Infatti, il rallentamento dello sviluppo cerebrale ha fatto sì che gli stessi neuroni, conservando caratteristiche neoteniche, potessero moltiplicarsi e intrecciarsi in mappe neuronali in competizione darwiniana: ossia a parità di costo energetico e dimensioni, la selezione ha premiato i cervelli che potessero svolgere meglio il maggior numero di funzioni (Edelman, 1987). Tale sviluppo cerebrale, nonostante lo scarto genetico esiguo con gli scimpanzè, ha creato un certo divario tra l’homo sapiens e i suoi parenti più prossimi; in altri termini, dal momento della comparsa dell’homo sapiens, si è presentato sulla scena un “essere del tutto nuovo” (Tattersal, 1998, p.31).
L’adulto è cerebralmente incompiuto nel senso che il cervello può continuare a imparare, produrre nuove forme di adattamento, acquisire nuove strategie, nuove abilità, dopo il periodo dell’infanzia e della giovinezza. La giovanilizzazione della specie è una giovanilizzazione cerebrale, cioè, la potenzialità di un’intelligenza e di una sensibilità giovane nell’adulto e persino nel vecchio. (Morin, 1979, p. 89)
In tale prospettiva, la neotenia può avere rappresentato per l'essere umano il “segreto” che gli ha consentito di elevarlo al vertice della scala evolutiva, ossia la conservazione dell'essere del bambino nell'adulto (in termini fisici, psicologici e comportamentali), all’interno di quel circolo virtuoso composto da giovanilizzazione, cerebralizzazione e culturizzazione: “è lo sviluppo della complessità socioculturale che spinge nel senso dello sviluppo della giovanilizzazione e della cerebralizzazione, le quali reciprocamente spingono nel senso dello sviluppo della complessità socioculturale” (Morin, 1979, p. 95) .
La neotenia è stata un (probabilmente il) fondamentale elemento determinante dell’evoluzione umana. [...] Lo sviluppo umano ha subito un rallentamento. All’interno di questa ‘matrice di ritardo’, i caratteri adattivi di progenitori giovanili vengono subito riqualificati. Il ritardo come strategia di vita per un periodo più lungo di apprendimento e di socializzazione può essere molto più importante nell’evoluzione umana che qualsiasi altra delle sue conseguenze morfologiche. (Gould, 1977, p. 21)
Perciò “siamo stati programmati per restare in molti sensi bambini” (Montagu, 1989, p.12), affinché la specie Homo sapiens potesse adattarsi continuamente alle variazioni ambientali con quell'atteggiamento duttile, elastico e aperto che é tipico del bambino. Le condizioni genetiche che hanno consentito una maggiore plasticità all’organismo sono divenute vantaggiose per la sopravvivenza, e quindi sono state favorite dalla selezione naturale. D'altronde Gehlen (1940) scriveva che l'uomo é proprio quell'animale che ha saputo specializzarsi più di tutti gli altri nella capacità di non specializzarsi, affinché egli potesse rimanere libero di cambiare con massima versatilità non appena un nuovo cambiamento fosse stato richiesto da un determinato ambiente.
E’ il bisogno di amare e di essere amato, la curiosità, il desiderio d’indagare, la sete di conoscere; il bisogno d’imparare, l’immaginazione, la creatività, la mente aperta e l’attitudine sperimentale, il senso dello humor, la voglia di giocare, la gioia, l’ottimismo, la sincerità, l’elasticità e l’apertura verso gli altri, tutte qualità che costituiscono lo spirito del bambino. (...) Probabilmente la conservazione di questo spirito neotenico durante i cinque milioni di anni o giù di lì dell’evoluzione umana è stato il fattore che ha contribuito più decisamente alla sopravvivenza della nostra specie. (Montagu, 1981, p. 152)
Infine, é assai probabile che dalla vita fetale l'uomo adulto abbia preservato anche la capacità di sognare: infatti, già nel feto si é osservata un’attivitá cerebrale molto simile a quella del sonno Rem (Nathanielsz, 1994), che é la fase associata ad una florida attività onirica (inoltre, anche il neonato continua a sognare per la maggior parte del suo sonno). Anche in questo caso, la neotenia ha fornito grandi vantaggi, se si considera l'importanza fondamentale che ha avuto il sogno nell'evoluzione dell'homo sapiens, attraverso le funzioni cerebro-genetiche organizzazionali e creative (e quindi innovatrici) che gli sono proprie (per approfondimenti…).
La neotenia diventa mente nell'evoluzione. La caratteristica del sonno REM é quella di mantenere, a livello ontogenetico, una dimensione fetale. Il sonno é un ritorno alla madre. [...] Il sonno paradosso riguarda la dimensione neotenica del processo evolutivo, é un sonno fetale nel senso che rappresenta una continuazione della vita fetale. (Menarini, 2009, p. 136)
Neotenia e psicoanalisi
Come un marinaio gettato sulla riva / dalla furia delle onde, l’infante umano giace / nudo sulla terra, senza parole, bisognoso / di tutto per vivere, da quando all’improvviso / la natura con le doglie del parto lo spinge fuori / dal ventre materno nei confini della luce, / a riempire la stanza di pietosi lamenti, / perchè capisca che il suo fato nella vita sarà / passare attraverso tanto dolore. (Lucrezio, De rerum natura, Libro V)
Come è risaputo, di fatto tutta la psicoanalisi non è altro che la descrizione di questo fatto biologico (la neotenia umana) in termini psicologici nelle sue varie e minuziose sfumature. Infatti, da sempre la psicoanalisi non ha fatto che evidenziare come il bambino sia costantemente presente nella mente dell'uomo e di come quest’ultimo, in un certo senso, non faccia che rivivere la propria infanzia (spesso a livello inconscio) durante tutto l’arco della propria vita cosiddetta adulta. Inoltre, sarà proprio questa malleabilità all’educazione, che è propria del bambino, a far sì che la psicoterapia possa compiersi per mezzo del transfert (l’esperienza primaria di amore, fiducia e suggestionabilità nei confronti dell’autorità) sulla figura del terapeuta (per approfondimenti…).
Nel neonato il bisogno di amore è assoluto, e deve essere soddisfatto se si vuole che l’infante cresca e si sviluppi come un essere umano sano. Questo bisogno di amore, vale a dire non solo il bisogno di essere amato, ma anche quello di amare, a dispetto di tutti i processi biologici socialmente deformanti, rimane il bisogno più potente degli esseri umani per tutta la loro vita, ed è un evidente tratto neotenico. (...) Per gli esseri umani il principio neotenico, anzi l’imperativo categorico dell’evoluzione, è vivere come se vivere e amare fossero una cosa sola (Montagu, 1981, p. 122)
Eppure, nonostante possa essere stato il processo neotenico a fornire le migliori capacità adattive per l’homo sapiens, è ironico constatare come in realtà questo “scimmione nudo” (Morris, 1967) non stia bene da nessuna parte, sempre in preda ad una mancanza, quasi come tormentato da una costante inquietudine di sottofondo. Perchè di fatto, con la comparsa dell’homo sapiens (e forse anche prima, considerando le prime tombe rinvenute già ai tempi dell'uomo di Neanderthal), fa irruzione fin da subito l’intensa natura contraddittoria e paradossale di questa strana creatura così facilmente soggetta all’instabilità, alla violenza, agli eccessi, ad una proliferazione sconfinata di fantasie, passioni e manie che sembrano gettarlo fuori dalle leggi della natura basate sull’ordine, la regolazione, l’omeostasi.
Di conseguenza si palesa la faccia dell’uomo nascosta dal concetto rassicurante e distensivo di sapiens. E’ un essere dotato di un’affettività intensa e instabile che sorride, ride, piange, un essere ansioso e angosciato, un epicureo ante litteram, ebbro, estatico, violento, furioso, incline ad amare, un essere che conosce la morte e che non può crederci, un essere che secerne il mito e la magia, un essere posseduto dagli spiriti e dagli dei, che si nutre di illusioni e di chimere, un essere soggettivo i cui rapporti con il mondo oggettivo sono sempre incerti, un essere esposto all’errore, all’avventura, un essere impregnato di hybris che produce disordine. E nello stesso momento in cui chiamiamo follia il congiungersi dell’illusione, della mancanza di misura, dell’instabilità, dell’incertezza tra reale e immaginario, della confusione tra soggettivo e oggettivo, dell’errore, del disordine, siamo costretti a vedere l’homo sapiens come homo demens. (Morin, 1979, p. 116)
Questo bambinone giunto a maturazione sessuale, come lo definiva Bolk (1926), se da una parte ha raggiunto vette culturali e tecnologiche mai viste prima nella storia dell’evoluzione, arrivando a dominare e plasmare la natura a proprio piacimento, dall’altra non ha mai smesso di provare una certa insofferenza alla realtà, continuando cioè a provare una perenne nostalgia di quell’ambiente acquatico da cui proviene, l’ambiente uterino. Là, immerso nel liquido amniotico che si rigenera continuamente e cullato dalla regolarità dei battiti del cuore della madre, non conosceva fatica né sofferenza, vivendo uno stato di completo nirvana (anche in senso fisico, dato che, per la seconda legge della termodinamica, ad un corpo immerso in uno spazio in cui temperatura e pressione sono costanti, non avviene né si richiede alcun lavoro). In tale prospettiva, l’impronta neotenica spingerà l'uomo a vivere l’intera esistenza come “una reazione alle sofferenze e alla solitudine del periodo extrauterino, un tentativo di fare del mondo un sostituto del grembo materno” (Montagu, 1981, p. 126), dando vita così a tutto ciò che di più alto e di più basso vi é nella dimensione umana (per approfondimenti…).
D'altronde, se il feto vive immerso in un lungo sogno, se l'infanzia non é che il mantenimento di questo modo di funzionare della psiche (il processo primario) e se, come scriveva Kant, il folle non é altro che un sognatore in stato di veglia, allora se ne deduce che i caratteri psichici della neotenia (alla quale, in altri termini, vi si connetteva anche Freud riferendosi al bagaglio pulsionale primordiale dell’Es), rappresentano forze tanto nutrienti e vitali quanto disgreganti e sconvolgenti per questo fragile e labile homo sapiens-demens (per approfondimenti…). In altre parole, la presenza pervasiva del bambino nell'uomo ha portato nel logos dell'adattamento l'irrazionale della follia come fonte di progressione e integrazione della complessità (la generazione dal caos), o come spinta regressiva ad uno stato più arcaico di minore complessità. Comunque sempre sullo sfondo di una nevrosi fondamentale che fa dell'uomo un animale costantemente intento a trasformare la realtà in qualcos'altro per poterla vivere. Per illusione, follia o semplicemente per gioco.
È mai esistita una chimera pari all'uomo? Che novità, che mostro, che confusione, che intrico di contraddizioni, che prodigio! Giudice supremo di ogni cosa, lombrico idiota; depositario del vero, cloaca di dubbio e di errore; gloria e rifiuto dell'universo. Chi scioglierà questo guazzabuglio? (Pascal, Pensieri)
Riferimenti bibliografici:
Bolk L. (1926). Il problema dell'ominazione. DeriveApprodi, Roma, 2006.
Chiarelli B. (1978). L’origine dell’uomo. Laterza, Bari.
Diamond J. (1991), Il terzo scimpanzè. Bollati Boringhieri, Torino, 1994.
Dobzhanzky T. (1962). L’evoluzione della specie umana. Einaudi, Torino, 1965.
Edelman G. (1987): Darvinismo neurale. Raffaello Cortina, Milano, 2018.
Eibl-Eibesfeldt E. (1984). Etologia umana. Bollati Boringhieri, Torino, 1993.
Gehlen A. (1940). L'uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo. Mimesis, Milano, 2010.
Gibbons A. (2007). Food fo Thoughts: did the first coocked meals help fuel the dramatic evolutionary espansion of the human brain?, "Science", 316, 5831, 2007, p. 1558-60.
Gould S. J. (1977). Ontogenesi e Filogenesi. Mimesis, Milano, 2013.
Harari, Y. N. (2011). Sapiens. Da animali a déi. Bompiani, Milano, 2017.
Lorenz K. (1965). Evoluzione e modificazione del comportamento. Bollati Boringhieri, Torino, 1984.
Menarini R, Neroni G. (2009). Neotenia: dalla psicoanalisi all'antropologia. Borla, Roma.
Montagu A. (1981). Saremo bambini. Red Ed. Como, 1992.
Morin E. (1979). Il paradigma perduto. Che cos'è la natura umana?. Mimesis, Milano, 2020.
Morris D. (1967). La scimmia nuda. Bompiani, Milano, 2000.
Nathanielsz P. (1994). Un tempo per nascere: le nuove conoscenze sulla vita prenatale. Boringhieri, Torino 1995.
Portmann A. (1969). Frammenti biologici per una teoria dell'uomo. Mimesis, Milano, 2022.
Tattersal, I. (1998). Il cammino dell’uomo. Garzanti, Milano, 1998.