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Breve storia della terapia suggestiva fino alla nascita della psicoanalisi. (Ellenberger, 1970)

Ricerche storiche e antropologiche dimostrano come presso popoli antichi e primitivi fossero esistiti numerosi metodi che, sebbene in forma diversa, sono impiegati nella moderna psicoterapia. Spesso l’antropologia riporta che in molte civiltà primitive (i pigmei delle Filippine, i negritos della penisola maltese, gli indiani quechua, gli aborigeni australiani…), la persona poteva ammalarsi smarrendo la propria “anima”, infrangendo un qualche tabù, o divenendo vittima di qualche spirito o stregoneria. Ecco allora che spettava allo sciamano (vale a dire un uomo incaricato dalla società che a seguito di una lunga iniziazione poteva fungere da mediatore col mondo degli spiriti), “curare” tali malati. A questo punto numerosi sono i rituali, le cerimonie e le pozioni/talismani impiegati nel processo di guarigione, anche se la forma più comunemente impiegata era l’esorcismo (praticata ancora oggi), ossia l’espulsione dello spirito maligno tramite mezzi meccanici (provocando nel paziente una perdita di sangue, colpendolo o tramite rumori/odori), incantesimi o altre tecniche psichiche. In ogni caso, la possessione nelle sue varie forme viene descritta soggettivamente come una specie di parassitismo psichico, in cui l’individuo sente di aver perduto la propria identità e di vivere profonde alterazioni somatiche, caratteriali, psicologiche e anche sensoriali; compito primario dell’esorcista consiste nel rendere manifesta e attiva la possessione e nel provocare “l’intruso” (alcuni direbbero gli aspetti egodistonici) a parlare, descriversi e fronteggiare apertamente il guaritore (vedete come le somiglianze con la nevrosi di transfert della psicoanalisi siano incredibilmente lampanti). L’esorcismo diventa allora una lotta difficoltosa, estenuante e disperata tra esorcista e lo spirito maligno, che puo’ durare giorni, settimane, mesi e addirittura anni, in cui non sono rare le volte in cui l’esorcista, spesso sottoposto a lunghe preparazioni di preghiere e digiuni, perennemente in pericolo di essere posseduto egli stesso dal medesimo spirito che tormenta il paziente (il controtransfert non analizzato?), ne esce provato o addirittura sconfitto. In tale prospettiva molto spesso le cerimonie e i riti adottati non costituiscono il contesto (ciò che oggi si definirebbe “setting”), l’elemento secondario in cui si effettua il procedimento di guarigione, bensì il principale agente di terapia, oltre ovviamente alla personalità specifica del guaritore. Altre volte invece si cerca di ripetere nella maniera più fedele possibile ciò che si suppone essere il trauma originario patogeno del paziente al fine di distruggere il modello angosciante che si è costruito mentalmente (come nella tecnica dello psicodramma).


Il fatto estremamente interessante è che in molti casi citati (Ellenberger, 1970) in cui la medicina occidentale è potuta venire a contatto con tali malati, essa è risultata quasi completamente inefficace rispetto invece al guaritore locale che il più delle volte è stato in grado di ottenere la guarigione completa e rapida in pazienti anche già sul punto di morte (a quanto pare solo lo sciamano locale incarnava per il paziente “l’Archetipo del Salvatore” dal punto di vista culturale). Scrive infatti Ellenberger (p. 144): “Probabilmente la suggestione è l’agente più importante che opera nelle pratiche di magia. Una procedura magica puo’ effettivamente raggiungere il suo scopo perché l’individuo che vi si sottopone crede fermamente nella sua efficacia, perché il mago crede nei propri poteri, e perché l’intera comunità crede nell’esistenza e nell’efficacia dell’arte magica in quanto sente che tale arte è necessaria per mantenere la coesione sociale.”


All’epoca del Rinascimento medici e filosofi usavano infatti il termine “imaginatio” per riferirsi al potere della mente di provocare fenomeni organici osservabili concretamente, disturbi mentali, fisici e affettivi, attraverso processi oggi chiamati suggestione e autosuggestione. Ad un certo punto della storia, con il progredire della scienza e della tecnica, il ruolo socioculturale del guaritore e del trattamento degli aspetti patogeni del malato finì per assumere sempre più caratteristiche secolari e laiche, fino ad approdare nei principi del magnetismo animale di Mesmer (1734–1815), un medico figlio di un’epoca illuminista che non dava più credito ad esorcismi, possessioni e spiriti demoniaci. Egli sosteneva l’esistenza di un fluido che attraversa l’universo e connette tutti gli essere umani, il quale, grazie all’utilizzo particolare di magneti, poteva tornare a scorrere nel malato, liberando i blocchi che avevano causato i mali del paziente (ciò che in realtà faceva era suscitare crisi nei pazienti, ossia abreazioni delle nevrosi di moda a quei tempi: i “vapori”). Sono innumerevoli i racconti e le leggende attorno a Mesmer e alla sua figura magica dotata di veri e propri poteri (si dice che fosse in grado di suscitare e guarire sintomi morbosi nelle persone accanto a lui semplicemente puntando le dita contro le loro immagine riflesse in uno specchio [Seyfert, 1775] o di aver avuto successo dove tutti gli altri avevano fallito nel guarire la cecità dell’imperatrice Maria Teresa).


Il "Baquet" di Mesmer: una tinozza con dell'acqua e altri intrugli che serviva da strumento per formare catene magnetiche (e utilizzare il magnetismo per gruppi di persone)


Lo stesso Mesmer si accorse come l’effetto benefico di tale pratica non era attribuibile solo all’utilizzo dei magneti, ma che altrettanto fondamentali erano il fluido magnetico della persona specifica del magnetista e del contesto in cui veniva applicata. La messinscena dei procedimenti terapeutici godevano infatti di una certa stravaganza: non erano infrequenti l’uso di numerosi specchi che dovevano riflettere il fluido a sua volta convogliato da suoni musicali prodotti dall’armonica a coppe di cristallo che lo stesso Mesmer suonava. Egli, a seguito della dimostrazioni di guarigioni straordinari, finì per convincersi di possedere un potere misterioso, magico, che definì come una grande quantità di magnetismo personale (o in altri termini, una forte commistione di carisma e autorità). Più tardi infatti, Puysègur, (allievo di Mesmer che scoprì il “sonno magnetico”, cioè una sorta di sonnambulismo spontaneo indotto e fermato però dalla volontà del clinico), comprese l’infondatezza degli insegnamenti del maestro relativi al fluido fisico, capendo che il vero agente della cura era la persona specifica del magnetizzatore che stabilisce un rapporto col paziente attraverso forze psicologiche ancora sconosciute.


Un fatto interessante infatti è che i critici e i detrattori di Mesmer già all’epoca denunciavano i pericoli derivanti dalle attrazioni erotiche che potevano instaurarsi tra magnetista e paziente (tanto che il Ministro dell’Interno francese a seguito di indagini svolte da una commissione d’indagine, decise di proibire la pratica del magnetismo animale), dato che molto spesso i pazienti erano giovani donne piacenti e suggestionabili. Janet (1859-1947) più tardi definì “passione sonnambolica” quella fase in cui sì, i sintomi recedevano, ma in cui la paziente iniziava anche a manifestare l’impellente necessità di vedere il suo ipnotista e farsi magnetizzare: Janet avanzò già l’ipotesi che nel paziente comparissero sempre sentimenti legati ad una qualche forma d’amore (erotico, filiale o paterno), i quali a loro volta potevano essere usati dall’ipnotista come efficace strumento terapeutico.


Più tardi, nella seconda metà dell’ottocento, James Braid, un medico di Manchester, colpito dalle dimostrazioni sul mesmerismo di Lafontaine, iniziò a proporre una teoria basata sulla fisiologia del cervello (rifiutando la teoria del fluido magnetico), e iniziò a fare fissare ai pazienti un oggetto luminoso: a tale pratica dette il nome di “ipnotismo” (al fine di renderla più accettabile all’interno di certi ambienti della medicina). Anche se in realtà tale tecnica (definita anche come “affascinazione”) era conosciuta già dagli antichi egizi: il paziente doveva fissare intensamente un punto mobile o fisso, oppure semplicemente doveva fissare negli occhi l’ipnotizzatore.


E fu proprio attorno alla tecnica dell’ipnotismo che nacque la celebre controversia tra i suoi maggiori utilizzatori: Bernheim (1840-1919), capo esponente della scuola di Nancy e Charcot (1825-1893) e le sue proverbiali dimostrazioni cattedratiche alla Salpetrière. Tra le scoperte più importanti di Charcot (considerato il più grande neurologo dell’epoca, famoso in tutto il mondo come il celebre taumaturgo che aveva esplorato gli abissi della mente umana) si annoverano le ricerche sulle paralisi traumatiche: egli ne dimostrò la stretta correlazione con quelle di tipo isterico e quelle che era in grado di riprodurre (e eliminare) tramite suggestione ipnotica.


In contrasto con Charcot, Bernheim affermava che l’ipnosi non era una condizione riservata solo agli isterici, ma che il suo effetto attingeva principalmente dalla “suggestione”: egli definiva l’ipnosi come un’accentuazione della suggestionabilità indotta da suggestione (notò infatti come era più facile indurre l’ipnosi in persone abituate all’obbedienza passiva, come vecchi soldati o operai di fabbrica). Dapprincipio Bernheim si serviva dell’ipnotismo per trattare molti disturbi organici (del sistema nervoso, gastrointestinali e mestruali, oltre a reumatismi e altre forme psicosomatiche), ma col passare del tempo egli si servì sempre meno di tale pratica, sostenendo che i suoi effetti potevano essere ottenibile anche per mezzo di suggestione durante lo stato vigile, un procedimento che definì “psicoterapia”.


Charcot nella storica lezione clinica alla Salpetrière nel 1887.

L’esperienza collettiva passata di diverse generazioni di magnetizzatori e ipnotisti portarono lentamente ad un nuovo modello della psiche umana basato su processi consci e inconsci, considerando sempre più la psicopatologia come causata dall’attività autonomi di frammenti scissi della personalità e dalla funzione simbolica dell’inconscio. Sotto ipnosi infatti si era scoperto che il paziente poteva ricordare ad antichi episodi della fanciullezza dati per dimenticati (criptomnesia) e accedere ad alcuni processi psicologici in grado di alterare le funzioni organiche (sordità, cecità, spasmi, paralisi, insensibilità al dolore…). Il trattamento ipnotico (quando non operava per pura suggestione o tramite la somministrazione di compiti e comandi (durante il sonno ipnotico), serviva principalmente per portare alla luce la radice inconscia del sintomo (ciò che in seguito venne chiamato metodo catartico).


Ciò che venne capito tardivamente dell’ipnotismo furono le piene implicazioni del rapporto che si instaurava tra ipnotista e paziente: dai resoconti raccolti si nota infatti come i pazienti restituissero all’ipnotista proprio ciò che, comunicato e suggerito involontariamente, si aspettava da loro (in tal modo i fenomeni che si presentavano erano prodotti da un processo di mutua suggestione, tanto che la situazione ipnotica venne paragonata spesso successivamente ad una sorta di follie à deux). Succedeva infatti che certi pazienti fingevano di essere guariti per non contraddire le aspettative dell’autorità dell’ipnotista, o che addirittura fingessero uno stato ipnotico per poter confessare (con la piena libertà giustificata dalla situazione), segreti imbarazzanti e fonte di vergogna. Non a caso in seguito il trattamento ipnotico venne definito come un tipo di relazione di forte dipendenza di un individuo da un altro individuo: l’arrendersi ad un’altra volontà infatti ha maggior possibilità di verificarsi quanto più è marcata una disuguaglianza sociale e relazionale (in cui da una parte c’è la figura prestigiosa, autoritaria del medico e dall’altra quella remissiva e bisognosa del paziente).


Fu quindi dal frutto del lungo lavoro passato di sciamani, esorcisti, guaritori, taumaturghi, ciarlatani, mesmeristi, ipnotisti… che iniziò sempre più a svilupparsi l’idea – e non solo sll’interno degli ambienti accademici - di un mondo “sotterraneo”, oscuro, molteplice nell’essere umano (in modo analogo Jung lo definì con il termine di “Ombra”) da integrare con la realtà conscia, manifesta della percezione dell’individuo. Tutto il periodo del Romanticismo inoltre non fece che rappresentare un fertile terreno per tutte le manifestazioni possibili dell’inconscio (i sogni, i miti e la simbologia, la vita immaginifica, la psicologia animale, la parapsicologia, l’interesse per le menti geniali e la malattia mentale, il mistero dietro la natura…), che andavano a sottolineare quanto l’uomo fosse in realtà guidato da forze interne sconosciute, di cui egli a malapena ne avverte l’esistenza.


Un giovane S.Freud ai tempi del lavoro col mentore J.Breuer sulle giovani donne isteriche


Fu merito di Sigmund Freud (1856 - 1939) la sistematizzazione delle conoscenze pregresse sull’inconscio per crearne un nuovo modo per occuparsene, la psicoanalisi. Anche se molto di ciò che in seguito venne attribuito a Freud sull’inconscio, i sogni e la patologia sessuale era già patrimonio culturale proveniente da figure come Janet (che aveva denominato il suo sistema “analisi psicologica”) e Nietzsche in primis, Breuer, Meynert, Krafft-Ebing, Fechner e Von Hartmann, per citarne alcuni. Ma a lui è sicuramente da attribuire l’originalità della situazione analitica con la regola fondamentale (la libera associazione in sostituzione alla tecnica ipnotica), l’analisi delle resistenze e del transfert (la traslazione), l’intuizione che non è il trauma in sé ad essere patogeno ma la sua rappresentazione (la fantasia), e un nuovo tipo di esplorazione sul significato dei sogni. Per quanto concerne invece prettamente la tecnica freudiana si puo’ riassumere così: inizialmente adottò il metodo catartico di J.Breuer, in cui si cercavano i ricordi in stato d’ipnosi e provocarne l’abreazione; poi sostituì all’ipnosi il metodo delle associazioni libere per scoprire ciò che il paziente non riusciva a ricordare a seguito di sintomi e situazioni traumatiche; in seguito adottò la linea interpretativa per superare le resistenze ed esplorare tutti gli elementi che si presentavano alla psiche per renderli accessibili alla coscienza; infine Freud comprese che il tentativo di ottenere ricordi, da solo, non bastava perché il proprio passato viene ripetuto continuamente attraverso agiti nel presente anziché essere riprodotto attraverso rappresentazione mentale. Capì cioè ben presto che questa ripetizione, il transfert, era la chiave di volta su cui operare il processo di guarigione (o cambiamento) nella maniera più efficace e a livello più profondo della personalità.


Riferimenti:


Ellenberger H.F., (1970) La scoperta dell’inconscio, 2 volumi, Torino, Boringhieri, 1976.

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