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L'indispensabile follia: breve storia, normopatia e patologizzazione dell'esistenza.

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Sulla Follia
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G. Dorè (1877), Astolfo, con l'Ippogrifo, raggiunge la luna
Non mi fido molto delle statistiche, perché un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media. (C. Bukowski)
Che cos’è la normalità?

Se si provasse a rispondere alla domanda, sicuramente si finirebbe col giungere ad un’aporia: “normalità” deriva infatti da “norma”, la squadra dell’architetto latino per misurare e controllare la correttezza delle cose, ossia uno strumento con funzione normativa. Infatti, si può fare riferimento alla normalità solo in confronto a qualcosa, ossia nella fattispecie alla misura (quantitativa) dettata dalla statistica, dato che l’essenza (qualitativa) della normalità non ha mai trovato una definizione unanime soddisfacente, se non attraverso la risposta tautologica: “normale è ciò che non si discosta dalla norma”. Infatti, come è stato sottolineato da Canguilhem (1966), sono proprio le varie sfaccettature dell’anormalità a destare l’interesse su cosa sia la normalità: “la norma è riconosciuta solo attraverso l’infrazione. La funzione viene rilevata dalla sua sospensione. La vita giunge alla consapevolezza e alla conoscenza di sè solo attraverso il disadattamento, il fallimento e il dolore” (p. 32). Eppure, la curva gaussiana rispetto alla distribuzione statistica della normalità non può definire, se non arbitrariamente, il punto esatto in cui finisce la normalità e comincia l’anormalità.


Da un punto di vista psicoanalitico, “parlare di normalità, é come parlare della faccia oscura della Luna” (McDougall, 1990, p. 245), in quanto la clinica insegna che la normalità può rimanere soltanto un ideale che ben poco si può conciliare con l’umano in senso lato. Se infatti, secondo un costrutto meramente teorico, la persona normale è quella che è riuscita ad integrare in modo elastico le varie sfaccettature del proprio sè e che ha saputo trovare una sorta di equilibrio rispetto ai propri conflitti interiori (Bergeret, 1996), in realtà, come scriveva già Freud (1937): “ogni persona normale è appunto solo mediamente normale, il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per un tratto o per l’altro” (p. 518). Insomma, fin dalle sue origini, tutta la psicoanalisi é permeata dal messaggio che la presunta normalità abbia confini assai permeabili con la follia, e che per quanto possano esistere varie differenze quantitative, alla fine rimane invariata l'essenza intrinsecamente conflittuale della natura umana. Infatti, l’abbandono prematuro della vita intrauterina (Portmann, 1969) per permettere al bambino di entrare in quell’utero artificiale (la famiglia) che gli permetterà di accedere gradualmente al mondo della cultura, ha fatto sì che la specie homo giungesse al vertice della piramide evolutiva rispetto a tutte le altre specie, ma a caro prezzo. Da un punto di vista psichico l’uomo non smetterà più di provare un’intensa nostalgia per l’antico stato elazionale della vita uterina (Grunberger, 1971) di cui l’inconscio serberà sempre memoria come una sorta di paradiso perduto, portando ad una sorta di resistenza perenne al processo di crescita. D’altronde, Freud (1923) intendeva l’Es proprio come il nucleo più arcaico della psiche, figlio della matrice indifferenziata con la madre, il luogo della mente in cui abitano il caos e la forza vitale e distruttrice delle pulsioni. L’Io, invece, che sorgerà molto più lentamente da questo substrato, sarà orientato e plasmato principalmente per far fronte alle richieste del mondo esterno nei suoi tentativi di adattarvisi e di funzionare adeguatamente. Inutile dire che l’ardente desiderio di risaldare la frattura originaria con la simbiosi materna (il ritorno in patria natia), unito al tempo stesso con la necessità da parte dell’Io di individuarsi, emanciparsi e rovesciare tale impotenza, fa parte del bagaglio di contraddizioni, conflitti, irrequietezze che inevitabilmente caratterizzano la condizione umana. Non a caso Kierkegaard (1849) aveva argutamente rilevato una misteriosa malattia mortale che affligge l’anima dell’uomo, rendendola costantemente tormentata e inquieta, e poco più tardi Nietzsche (1878) definirà l’uomo come quell’animale, così facilmente soggetto alla malattia, che ancora non è riuscito a stabilizzarsi sulla terra. (Per approfondimenti sul tema...)


“Gli uomini sono così necessariamente pazzi che il non essere pazzo equivarrebbe a esser soggetto a un altro genere di pazzia” (B. Pascal)

Che ne è dunque di chi, da un punto di vista statistico, appartiene alla mole più consistente nella famigerata curva a campana della normalità?

Di tutti quelli che, perlomeno all’apparenza, sembrano “funzionare” apparentemente bene nella quotidianità della routine, senza essere mai incappati nello studio di un analista? In questa grande maggioranza esiste infatti una parte di “cosiddetti sani” (Fromm, 1953), ossia individui perfettamente allineati alla vita pragmatica del contesto socioculturale d’appartenenza, ma completamente stranieri al proprio mondo interiore, come privati di quell’influenza onnipresente che è propria della vita fantasmatica. Così tenacemente ancorati alla concretezza della vita da perderne i significati simbolici, costoro sembrano avere sviluppato una corazza dai flussi dell’inconscio, tanto che anche l’inquietante, o meglio il perturbante (Freud, 1919), sembra avere perduto il potere di scuotere e turbare la loro coscienza. Bollas (2018), ricordando molto da vicino le posizioni profetiche di Fromm (1976), sostiene che queste personalità tendono ad identificarsi principalmente con la realtà materiale in cui vivono, finendo per assomigliare anche loro ad “oggetti in un mondo di oggetti” (p. 98), come automi, “replicanti”. L’originale psicoanalista McDougall (1990) ha coniato il termine "normopatia" per descrivere la forma di malessere di quest’uomo “comune” afflitto da “troppa normalità”, che rifugge tutto ciò che viene coperto dall’ombra della psicologia. 


Se non ci fossero stati gli sciocchi, dovremmo esserlo noi. (W. Blake)

P. Bruegel, Margherita la pazza (1563) / H. Bosch (1490), La nave del folli / Illustrazione dal Vascello dei matti, di S. Brant (1494)


Ma cosa ci dice invece la storia a proposito della follia?

Nell’antica Grecia la follia sembra essere già al centro delle problematiche esistenziali. Il fatto stesso che i filosofi greci elevarono la ragione alla più nobile delle facoltà umane, con l’intenzione di assoggettare la natura alla coscienza, all’ordine e alla disciplina, stava a testimoniare quanto fosse già riconosciuto il potere delle forze primordiali e irrazionali in grado di obnubilare la lucidità della mente (Dodds, 1951). Infatti, la follia era parte ineluttabile degli eroi greci, perennemente in balia del potere degli dèi, del fato, delle furie e delle Moire che si divertivano a giocare col loro destino. Perciò, quasi tutta l’arte greca aveva la funzione di familiarizzare con la follia e portare allo scoperto i conflitti propri della condizione umana. Prima che la follia diventerà competenza della medicina naturalistica ippocratica, era infatti il teatro a fungere da terapia: anche Jaspers (1932) evidenzierà l’importanza terapeutica delle “situazioni limite” (Grenz-situazionen), ovvero quelle circostanze fortuite della vita intimamente connesse al senso del tragico (quali la vicinanza diretta con la morte o la sofferenza), che sono in grado di scuotere l’individuo nel profondo, permettendogli una nuova consapevolezza di sè.


Nel Medioevo la follia poteva assumere i connotati di santità (il “segnato da Dio”) o di possessione diabolica, sconfinando cioè nel regno dell’aldilà e del soprannaturale sullo sfondo di un’eterna psicomachia (la perenne lotta tra il bene e il male, Dio e Satana). Per tanti secoli la psicologia medica rimase nelle mani del clero (soprattutto presso i monasteri), e la medicina si trasformò in una demonologia alla ricerca delle stigmata diaboli, ossia i segni e le manifestazioni del passaggio del diabolico che richiedevano di essere accuratamente esorcizzati o purificati (come fu con la caccia alle streghe).


Durante il Rinascimento la follia sembra acquisire tutto il suo potere ambiguo e duplice, sviluppandosi su un terreno inaccessibile, inquietante, occulto. In quest’epoca infatti fa ingresso nella realtà e nell’immaginario la famosa stultifera navis, il vascello carico di pazzi (Das Narrenschiff) spinto alla deriva lungo i fiumi del Nord Europa. Folli molto simili a quelli che dipingeranno P. Bruegel e H. Bosch attraverso le rappresentazioni di un umano in preda al totale caos bestiale e babelico delle passioni. Eppure, osserverà Erasmo da Rotterdam (1511), la Pazzia, allevata da Ignoranza e Ubriachezza, rappresenta qualcosa di più di una semplice satira moralistica, essendo essa un’energia vitale sorprendentemente multiforme in grado di rivelare, minacciare, liberare, e sicuramente presente nel riflesso di ogni uomo che si guarda allo specchio. Nella concezione della follia di Erasmo, tutto acquisisce un aspetto doppio in una serie di rovesciamenti tra realtà e apparenza, illusione e verità, dove ragione e follia si scambiano burlescamente i ruoli sullo sfondo di una costante dialettica. Non a caso, presso le corti europee i buffoni possedevano il privilegio di poter proferire verità proibite al resto dei cortigiani del re, e sfidare quindi il potere costituito con l’alibi della risata, ossia dimostrando la possibilità di accedere alla libertà esclusiva del folle.


L. Viani (1916). Don Chisciotte

Ma è solo nel Seicento che la follia inizia a prendere davvero le distanze dalla ragione, forse proprio perché, a livello più o meno conscio, la fiducia nel potere della ragione comincia a vacillare e l’uomo, svincolato dall’ordine divino, diventa una misera preda di forze oscure e soverchianti. La metafora del disordine del mondo, in cui il reale si mescola confusamente con la totale fuga delirante dalla realtà, viene incarnata dalla figura del Don Chisciotte di Cervantes. (forse l’emblema di tutta l’età barocca in cui l’artificio renderà difficile distinguere il falso dal vero). Mentre il dominio incontrastato delle passioni a scapito della ragione sarà il tema di tutto di teatro di Shakespeare: in esso la mente dell’uomo viene pervasa da strane fantasie, fastidiosi fantasmi, immagini inquietanti che spesso lasciano intravedere il preludio di una follia in grado di trasformare interamente la persona donando sì, attraverso la cecità della ragione, una più acuta percezione della realtà, ma sfociando inevitabilmente nella tragedia. Non è un caso se gli storici vedono in questo secolo di instabilità pervasiva e di smarrimento angosciante, la nascita della Rivoluzione Scientifica moderna

Inoltre, come evidenziato approfonditamente da Foucault (1972), il Seicento, con l’istituzione dei primi ospedali generali (il Bethlem Royal Hospital di Londra sopranominato Bedlam e la Salpetriére di Parigi), fu il secolo in cui i cosiddetti pazzi iniziarono ad essere rinchiusi. Fino ad allora la società era intervenuta di rado e i folli solevano convivere in buona parte col resto della popolazione, permanendo all’interno della comunità o perlomeno vagabondando nelle periferie o nelle compagne, ossia continuando comunque ad essere considerati come facenti parte della razza umana e non come alien-ati da estraniare. E’ infatti la reclusione adottata a partire dal Seicento (e durante tutto il Settecento) a rappresentare il vero spartiacque nell’atteggiamento verso la follia che nei secoli a venire porterà ad istituzionalizzare sempre più la follia. 


I primi manicomi infatti, che bastava nominare solo per incutere terrore, consistevano in contenitori in cui internare non solo i cosiddetti pazzi, ma anche ladri, prostitute, criminali, mendicanti, vagabondi, indigenti, libertini, dissoluti, dissacratori, profanatori, omosessuali, individui che si erano occupati di magia e stregoneria, o semplicemente dissidenti politici scomodi. Il fattore comune è che questi “lunatici” perdevano totalmente la propria individualità per cadere tutti sotto l’enorme ombra della “sragione”: la follia, accostandosi all’immoralità, diventò l’emblema dello scandalo e del disordine, e quindi un problema di sensibilità sociale da regolare in modo poliziesco, proprio come il lebbroso da allontanare durante il Medioevo. Il folle andava incontro ad una degenerazione totale, considerato ormai come un’entità regredita alla sua forma bestiale: la follia diventava cioè la manifestazione più rappresentativa di quell’animalità tanto temuta in grado di liberare la furia dei suoi istinti più bassi. Non a caso, Blake rappresenterà il dispotico Nabucodonosor diventato ormai folle, come un essere nudo e villoso, con gli artigli, che si muove a quattro zampe come una bestia. 


Le loro parole, prese alla lettera, erano pericolose, abominevoli, e divenne quindi comune definire ciò che dicevano i pazzi, le loro imprecazioni, oscenità e insulti, con termini quali “balbettare”, “borbottare”, “sproloquiare”,  come ad intendere che il linguaggio dei pazzi era subumano, incapace di comunicare maggior significato di quello delle belve, alle quali erano comunemente associati. La licantropia, per esempio, era quella forma di follia che faceva ululare gli uomini come lupi. (Porter, 1987, p. 44)


Nabucodonosor (1795), di W. Blake

Se nel Seicento fu principalmente la Controriforma, potenziando il senso dell’autorità morale, ad incrementare oltremodo il senso di colpa per ogni tipo di trasgressione e bizzarria, producendo esclusione e intensificando il conflitto, non si può dire lo stesso con l’avvento dell'Illuminismo. Il Settecento infatti esasperò la fede greca nella ragione, condannando e bandendo tutto ciò che poteva considerarsi irrazionale, bizzarro, primitivo, puerile, in quanto nocivo e perturbatore di una società che doveva essere razionale, progressista e ordinata (sotto il fiorire delle scienze, della tecnologia, del diritto, della burocrazia, dell’istruzione, dell’economia di mercato). Il XVIII e XIX secolo videro una proliferazione di carceri, manicomi, case di correzioni, riformatori che demarcarono ulteriormente la linea divisoria tra i normali e tutti i diversi che potevano turbare la società civile. L’istituzionalizzazione della follia si proponeva di rettificare il comportamento degli insani e di restituire loro la pienezza delle facoltà mentali attraverso le nuove tecniche terapeutiche ideate (per quanto stravaganti e disumane). E se verso la fine del secolo Turke e Pinel diedero forma al moderno manicomio iniziando a liberare i malati di mente dalle catene, bisognerà attendere fino al Novecento, quando il movimento dell’antipsichiatria rappresentato da R. Laing, D. Cooper, E. Goffman, T. Szasz e F. Basaglia, trasformerà il manicomio come carcere in cui rinchiudere i matti, in comunità terapeutiche, e il malato come caso clinico da aggiustare, in essere umano da ascoltare.


Con l'Ottocento, la follia diventò il tema focale di tutta l'epoca: essa, così intima al genio, coinvolse l'eccesso, l'inquietante, il sensuale, rivelando sempre la natura più profonda e autentica dell'individuo. Non é un caso se ne I fratelli Karamazov di F. Dostoevskij, la follia, sotto le spoglie del Diavolo, bussa alla porta proprio di Ivan, il personaggio che incarna la pura razionalità e l'ateismo dell'epoca. Questo infatti sarà il secolo del Positivismo, con i suoi tentativi disparati di aggrapparsi all’illusione confortante della scienza, ben ancorata alla materia, ai numeri, ai fatti. Eppure l’ottimismo del secolo precedente che cercava di restituire il pazzo alla ragione, cedette il passo ad un pessimismo generale da parte della psichiatria, accortasi ben presto dell’inefficacia degli strumenti “terapeutici” impiegati, cosicché i manicomi finirono per diventare dei veri e propri depositi di malati considerati incurabili e irrecuperabili.  

Infine l’Ottocento rappresentò anche il grande palcoscenico del folle come fenomeno da baraccone, come freak (Fiedler, 1978), come mostro: tutte le domeniche l’ospedale di Bethlehem mostrava i pazzi per un solo penny (e le visite diventarono quasi incalcolabili). Il “normale” uomo vittoriano era così incuriosito ed impaurito nel guardare le bizzarrie del folle, che doveva uscire dai sanatori emettendo un risolino beffardo per riuscire a tenere a distanza una follia così vicina e familiare.


John Holcroft's illustration

Se il Novecento ha finito con l’affidare interamente la follia al mondo relativamente giovane della psichiatria, ciò è stato dovuto principalmente all’intenso sviluppo della scienza, attraverso la combinazione vincente dell’avvento degli psicofarmaci (gran parte di essi scoperti per caso durante altri utilizzi medici), con la nascita del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il DSM, la bibbia della comunità psichiatria che tuttora sancisce in modo netto i confini tra sanità e follia. Eppure, la mastodontica classificazione del DSM, che ricorda la brutta copia dell’impresa illuministica di Linneo nel catalogare tutti gli organismi viventi, non è che il moderno tentativo di tenere di nuovo a debita distanza la follia, relegandola solo al giardino patologico della specie umana. Ciò che si evince dal modo in cui la psichiatria si confronta con la follia (perlomeno secondo una certa branca, diversamente da quella fenomenologica), è che il tentativo di fissarla in rigide classificazioni al fine di creare un’illusoria sensazione di controllo è risultata alquanto fallimentare, in quanto il DSM non ha fatto che ridurre la follia ad un’accozzaglia di disturbi sconnessi, contribuendo a renderla ancor più scissa dalla persona nel suo continuum psicopatologico.  

Il fatto curioso infatti è che, come ha raccontato recentemente lo stesso psichiatra che ha diretto le edizioni precedenti (Frances, 2013), lungi da avere ottenuto standard sufficienti di validità e coerenza interna dei costrutti (descritti attraverso i rigidi criteri che definiscono cosa sia patologico o meno), l'uscita dell’ultima versione del DSM é avvenuta in maniera assai anticipata, bypassando le varie fasi del controllo qualità, per poter rimediare ai conti in rosso dell’organizzazione committente, l’APA. A causa di tale confusione, il nuovo DSM ha finito col portare ad un’inflazione diagnostica che vede patologia dappertutto, medicalizzando interamente l’umana esperienza del disagio esistenziale costitutivo della vita stessa (basti pensare alle recenti epidemie di autismo, ADHD, DSA e bipolarismo, solo per citarne alcune).


Perché dunque nel nostro odierno contesto socioculturale ha preso piede così tenacemente questo modo di considerare la follia, quando il DSM non possiede nemmeno la sufficienza degli standard che la stessa brillante scienza da cui è stato partorito, impone? Beh, ovviamente perché oggi la follia non è più un aspetto proprio dell’essere, ma una branca succosa dell’economia. La follia rappresenta infatti la fonte redditizia più alta per le case farmaceutiche, tanto che “la commercializzazione della malattia è [diventata] l’arte raffinata di vendere malanni psichiatrici” (Frances, 2016, p. 49). 


I colossi farmaceutici sono davvero colossali e di successo. Le vendite in tutto il mondo superano i 700 miliardi all'anno, dei quali metà negli Stati Uniti e un quarto in Europa (Williams, Martin e Gabe 2011). E il margine di profitto, uno strabiliante 17 per cento, è tra i più alti di qualsiasi industria. Perché così colossali e perché tutto questo successo? Le aziende giustificano i prezzi alti e gli enormi profitti esaltando gli investimenti in ricerca per far progredire la medicina e migliorare la cura dei pazienti. Si tratta per lo più di una sciocchezza. I colossi farmaceutici spendono in pubblicità il doppio (60 miliardi di dollari) di quanto investano in ricerca e spesso finanziano il tipo sbagliato di ricerca clinica, fatta nel modo sbagliato, per motivi sbagliati: evitano sistematicamente le linee di ricerca in grado di fornire dati importanti, favorendo esperimenti commerciali che vanno a colpo sicuro e sono concepiti per promuovere il marketing, non la scoperta scientifica (Gagnon e Lexchin 2008). [...] Non c'è mai un calcolo ragionevole di rischi/benefici/costi - i benefici sono esagerati, i rischi minimizzati, i costi ignorati. Il prezzo dei farmaci non ha nessun rapporto con il loro costo reale o con il loro valore e riflette al contrario il monopolio dei colossi farmaceutici sul mercato e il suo strapotere sui politici. Nella sua versione peggiore, la ricerca promossa dai colossi farmaceutici è uno specchietto per le allodole, volto a sedurre e sviare, e non certo a illuminare medici e grande pubblico. Dire che i farmaci sono così cari perché richiedono tanta ricerca significa solo gettare fumo negli occhi. (ibid., p. 113-114)


Di fatto, questo orientamento della psichiatria considera la follia come dovuta principalmente alla mera irregolarità causata da disfunzioni anatomiche e/o neurochimiche del cervello da correggere farmacologicamente: se si scorge un attimo la storia della psichiatria, è facile riscontrare l’antico pregiudizio cronico di psicologi e psichiatri “aggrappati alla convinzione che i vari mutamenti corporali, casuali o no, siano gli unici responsabili della nostra vita emotiva, normale e anormale” (Zilboorg, 1941, p. 47).

E dunque lo psicofarmaco, chiamato a tranciare “l’anormalità” dalla persona, non rappresenta più solo la cura necessaria per le psicopatologie più gravi come le psicosi, ma è diventato la risposta immediata alle problematiche di vita quotidiana, alle difficoltà evolutive, a tutta la gamma di esperienze emotive umane quali il lutto, l’ansia, la tristezza, la preoccupazione, la stanchezza, la noia, l’introversione. I fenomeni esistenziali vengono trasformati in disturbi dovuti ad anomalie chimiche da trattare ingoiando pasticche: nel Nordamerica si stima che l'abuso di farmaci sia diventato un problema di salute pubblica più grave delle droghe illegali. (Per approfondimenti sul tema...)


Quello che può essere stato storicamente un delitto è stata la solerzia con cui alcuni psichiatri e, in un certo senso, la  professione psichiatrica nel suo insieme - sostenuta dal mandato della società - hanno assunto su di sè il compito di identificare i pazzi in base al presupposto di possedere le risposte. I veri illusi non sono stati forse quegli psichiatri che hanno sostenuto di possedere le chiavi della follia? In verità, queste teorie e terapie si sono dimostrate troppo spesso soltanto un cavallo di battaglia per cavalcare a briglia sciolta sopra le resistenze e le proteste. Le pontificazioni della psichiatria hanno troppo spesso esiliato il pazzo dal consorzio umano, anche quando le sue grida e i suoi lamenti erano umani, troppo umani. (Porter, 1987, p. 267)


In ogni attività umana, la Follia conduce il gioco (Erasmo da Rotterdam)

Da questa breve disamina, si osserva come nel corso della storia l’atteggiamento verso della follia sia stato quello di un crescente e altalenante distanziamento da essa. I folli mettono alla prova i limiti, i canoni e le verità della società razionale e “normale”, ed a volte, come nel caso di A. Artaud, identificando la stessa follia con l’insurrezione, con il rovesciamento del potere costituito, con lo strumento sovversivo in grado di mettere a nudo le ipocrisie e gli artifizi della società. D’altronde, come ha mostrato bene la psicoanalisi, la follia rappresenta sempre l’ignoto perturbante, l’Altro che è sempre anche in noi, l’irrazionale elusivo che si vuole allontanare per non incappare nelle sue oscurità terrorifiche: “essa è dunque imparentata con le pietre, con le gemme, come tutti quei tesori ambigui che portano nel loro splendore una ricchezza e una maledizione: i loro colori vivi delimitano un frammento di notte” (Foucault, 1972,  p. 445). 

Infatti, come ricorda anche V. Woolf ne La Signora Dalloway, se da una parte la follia dona una percezione più intima e “poetica” delle cose, dall'altra essa é anche la sede della disgregazione dell’Io, attraverso tutte le dolorose forme della psicopatologia che l'autrice conosceva bene (ella stessa morì suicida come Septimus,  il personaggio del romanzo). Di fatto, per quanto spesso sia ardua la possibilità di comprendere e di decifrare la malattia, essa rappresenta forse l’ultima modalità che l’inconscio ha per comunicare, nella speranza di ottenere quel che la persona non è riuscita ad avere per altre vie: "sicché il linguaggio della malattia costituisce l’ultimo e forse il più solido bastione, sugli spalti del quale gli insoddisfatti e i ‘regrediti’ possono tentare un’estrema difesa e pretendere la loro porzione di ‘amore’ umano” (Szasz, 1961, p. 402).


Eppure, se non vuole precipitare nell’alienazione, l’essere umano non può non attingere alla follia per tentare di colmare ciò che lo distanzia dalla fusione originaria, che sia attraverso una creatività produttiva o le innumerevoli vie del sintomo. Lo dimostrano i sogni che ogni notte agitano il sonno attraverso un mondo creato senza la minima considerazione delle leggi della fisica, in cui viene allestita quell’originale e personalissima drammatizzazione teatrale che costituisce la scena onirica (Resnik, 1982). Lo dimostra il bambino, il quale, prima ancora di venire normalizzato dalla famiglia per timore di perdere l’amore dei genitori, gioca con la realtà creando continuamente. Lo dimostra l’artista, che ha saputo conservare più degli altri la capacità del bambino di creare (Freud, 1907) e quindi la possibilità di immergersi (temporaneamente) nella generatività della follia senza tuttavia rimanerne sommerso (ammalandosi). E infine, lo dimostra la manifestazione più lampante, l’innamoramento, durante il quale la ragione perde completamente il proprio dominio e la follia irrompe per cercare la fusione totale con l’altro.  (Per approfondimenti sul tema...)


Si dovrà solo a Freud, con l’avvento della psicoanalisi, il tentativo concreto e sistematico di colmare la distanza creatasi dalla follia, attraverso la costruzione di una mappa per poter viaggiare nel suo regno, l’inconscio, dimostrando come in fondo, siamo tutti sulla medesima barca.  Perché l’arte sta proprio nel coniugare ragione e follia, conscio e inconscio, razionale e irrazionale in un sorta di “sintesi magica” (Arieti, 1976) in grado di fornire alla persona un equilibrio, che tuttavia rimane perennemente precario come quello del funambolo mentre si destreggia abilmente sulla fune per non sfracellarsi al suolo. 

D’altronde, è proprio ciò che intendeva comunicare Ariosto nel suo Orlando furioso quando Astolfo, giunto sulla luna in groppa all’Ippogrifo per ricercare il senno di Orlando, si accorge della montagna immensa di ragione che abita la luna e di quanta follia invece sia rimasta sulla Terra. In tal modo, il rapporto ragione-follia si inverte (Terra e luna diventano speculari) e la follia non solo diventa una componente inestricabile e ineliminabile della condizione umana, ma anche un’esperienza che produce un arricchimento esistenziale. Infatti lo stesso Astolfo che riacquisisce completa ragione aspirando dall’ampolla una parte del suo senno svanito sulla luna, non riesce a conservarlo a causa di un “errore” che “un’altra volta ancora gli levò il cervello”, a dimostrazione di una follia necessaria, inevitabile o forse dovuta alla semplice, connaturata, imbranataggine umana.


La coscienza del folle si pone di fronte a quella del sano formando insieme una sorta di sala degli specchi. Quando mettiamo a confronto lo spirito della follia e quello della ragione, della società e della cultura, vediamo due aspetti, due espressioni, due facce, ciascuna delle quali pone domanda all’altra. Se la normalità condanna la follia in quanto irrazionale, subumana, perversa, la follia, da parte sua risponde a tono, ha un proprio tu quoque. Un po' come i bambini che giocano a fare gli adulti, i folli mettono in luce le ipocrisie, i doppi valori e la cinica indifferenza della società “normale”. (Porter, 1987, p. 11).



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