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L'importanza della creatività nell'esistenza e il ruolo dell'esperienza psicoanalitica.

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M. Chagall, La Vie (1964)

Essere creativi significa considerare tutto il processo vitale come un processo della nascita e non interpretare ogni fase della vita come una fase finale. Molti muoiono senza essere nati completamente. Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire. […] Educare alla creatività equivale educare alla vita. (E. Fromm, 1966, p. 33-34)


Introduzione


Erich Fromm (per approfondimenti...) è stato tra gli autori che ha enfatizzato maggiormente l'importanza della creatività come la più intima forma di realizzazione e di espressione dell'essere umano, ricordando come l'uomo relativamente sano (uscito più o meno dalla palude dei propri conflitti nevrotici, gli ostacoli per antonomasia alla creatività), sia perennemente attivo e produttivo. E non nel senso odierno del termine, ovverosia come "homo faber" costretto come un ingranaggio in attività cristallizzate, stereotipate, meccaniche, ripetitive, totalmente scisso dal proprio mondo interiore, o come "homo consumens/economicus" che sperimenta la propria esistenza solo in funzione di ciò che ha e che consuma, e non in base a ciò che è, in ogni sfumatura della sua dimensione umana, sempre foriera di un proprio stampo unico e originale (Fromm, 1976).

Per Fromm (in Simeone, 1972) tuttavia sono necessarie alcune condizioni per la creatività: la capacità di essere perplessi al fine di afferrare il significato delle cose con la sorpresa tipica dei bambini; la capacità di enorme concentrazione durante l’attività in svolgimento in un dato momento; un’autentica esperienza dell’Io, ossia il fatto che l'individuo sperimenti se stesso come autentico generatore dei propri atti e pensieri; la capacità di tollerare il conflitto (e il paradosso) anziché evitarlo, non solo quello di natura personale o accidentale, ma anche quello radicato profondamente nella stessa natura umana. Fromm (1966) inoltre ricordava come la ricerca di tale autenticità esistenziale richieda necessariamente fatica, tempo e sacrifici: chi intraprende la strada verso la ricerca di sé, navigando nell’ignoto, nell’incertezza e nel dubbio, inevitabilmente incontra rischi, pericoli, prezzi da pagare, possibilità di fallimento, crisi. D'altronde lo stesso viaggio nell'inconscio intrapreso durante l'esperienza psicoanalitica offre sì inestimabili tesori, ma, come tutti i sentieri che alla fine regalano i paesaggi migliori, esso procede in salita.

Dunque l’adulto ben inserito nella civiltà che ha saputo completamente adattarsi alla dura realtà, spesso si è sentito di dover sopprimere la propria vitalità e unicità, anteponendo al gioco e all’immaginazione le cose pragmatiche e concrete della vita quotidiana. Ma se è vero che nel momento in cui la percezione della realtà oggettiva diventa unicamente a base soggettiva, l’individuo si avvicina alla follia, è altrettanto vero che un orientamento alla realtà che privi l’individuo della sua impronta soggettiva, ne svuota la vita da ogni significato, provocando quella sensazione che E. Fromm, da esponente della Scuola di Francoforte, ha definito come alienazione esistenziale.


In ogni attività creativa, colui che crea si fonde con la propria materia, che rappresenta il mondo che lo circonda. Sia che il contadino coltivi il grano o il pittore dipinga un quadro, in ogni tipo di lavoro creativo l’artefice e il suo oggetto diventano un’unica cosa: l’uomo si unisce col mondo nel processo di creazione. (E. Fromm, in Simeone, 2020)



Inconscio e simbolizzazione

Che l'inconscio rappresenti la fonte inesauribile da cui può attingere la creatività è noto alla psicoanalisi fin dallo studio da parte di Freud di quel misterioso, affascinante e bizzarro fenomeno che è il sogno, di cui ogni notte si fa esperienza (per approfondimenti...). Una delle proprietà dell'inconscio è infatti quella di possedere un linguaggio diverso da quello verbale (digitale) o logico-astratto di cui solitamente fa uso il pensiero cosciente (processo secondario), disponendo di una grammatica fatta prevalentemente d'immagini (come il film di una pellicola) e regolata da leggi proprie (processi primari). Al pari della ricchezza del linguaggio poetico (“poeta” deriva da poieìn che significa per l’appunto fare, creare), l’inconscio è in grado di rappresentare una moltitudine di significati (anche opposti tra loro) in una modalità che utilizza prevalentemente simboli per esprimere tutte quelle sfumature che il linguaggio logico-astratto ha dovuto perdere a favore di una comunicazione necessariamente più precisa (come nel linguaggio scientifico). Tale processo della mente, che prende il nome di simbolizzazione (o capacità simbolopoietica), rappresenta una delle “invenzioni” più creative dell’inconscio per sviluppare in modo economico e significativo rappresentazioni della realtà interna ed esterna. Freud (1910) ad esempio aveva osservato come il lessico delle lingue antiche avesse una certa somiglianza con il processo primario, cioè come uno stessa lemma potesse avere un significato e il suo contrario (in latino ad esempio “altus” può significare sia alto che profondo, “sacer” sacro o maledetto…) e che solo il gesto d’accompagnamento o il senso generale della frase potesse determinare a quale dei due significati si riferisse l’interlocutore.


Anche prospettive scientifiche annesse hanno confermato tale aspetto della mente: W. Bucci (1997) ad esempio ha brillantemente esposto la teoria del "codice multiplo", descrivendo come la mente disponga di tre modalità di funzionamento strettamente in connessione: il codice verbale (V) basato sul linguaggio/pensiero parlato, il codice non verbale simbolico (NV/S) rappresentato da immagini o rappresentazioni costituito prevalentemente da simboli (l'inconscio dinamico), e il codice non verbale non simbolico (NV/NS) corrispondente agli automatismi procedurali e relazionali delle attività mentali che possono funzionare in parallelo (l'inconscio cognitivo). Il lavoro per mezzo della parola nella terapia psicoanalitica serve proprio per ristabilire il legame tra i vari sistemi e la ricchezza del linguaggio dell'inconscio, ossia, operando secondo la celebre espressione freudiana “Dov’era l’Es, deve subentrare l’Io” (Freud, 1923).



Fantasia e immaginazione


Rappresentazione del genio di Newton che, intento a risolvere un problema chinato a terra sulla carta, non si accorge di dare di fatto le spalle a quello che è il mondo reale.
W. Blake (1795), Divino geometra (Newton assorto in un problema, non si accorge di dare le spalle al mondo esterno).

Oltre al sogno, la variopinta creatività dei processi primari è visibile in quel fenomeno universale che è la fantasia:

Una fantasia o un sogno a occhi aperti – termini che io considero interscambiabili – è una storia immaginaria o un dialogo interno che generalmente adempie alla funzione, più o mento trasparente, di gratificare desideri sessuali, aggressivi, autocelebrativi o di altro genere, o che riflette le nostre speranze. (Person, 1998, p.11)


Chi opera con la fantasia (a meno che non stia sognando o non stia vivendo un'esperienza psicotica), è consapevole di stare creando qualcosa di distinto dalla realtà, al pari del bambino quando giocava a “fare finta”. Tuttavia anche le fantasie possono venire mascherate, ossia possono esprimere la rappresentazione di un desiderio e allo stesso tempo anche la difese contro quel desiderio. Infatti, anche se la fantasia viene creata per fornire piacere o sicurezza, al pari del contenuto latente del sogno, può essere liquidata dalla coscienza come cosa frivola e di poco conto, oppure può venire repressa per il suo contenuto pericoloso e tabù. In altre parole, quando una fantasia cosciente diventa inaccettabile, allora può venire rimossa e relegata nell’inconscio.

Dunque l’individuo che attinge alla fantasia, in base alla forza dell’Io, può utilizzarla in diversi modi: comprenderla a livello conscio (per un migliore adattamento); relegarla nel rimosso (diventando inconscia); farne una diretta messa in atto (come accade nelle perversioni, vedi qua). Oppure essa può acquisire un carattere compensatorio rispetto a desideri frustrati nella vita quotidiana, fino a diventare fonte di ritiro e gratificazione masturbatoria come accade nel mondo interno del nevrotico (ossia come via di fuga per evitare il dolore con la realtà). Tuttavia le fantasie, se comprese, elaborate e integrate dall’Io, possono aiutare l’individuo a rendere possibile il “domani” agognato, avvicinandolo e “preparandolo” alla sua realizzazione futura, o, al pari della funzione del gioco, possono aiutarlo ad affrontare conflitti e traumi del passato.


Nella risoluzione dei problemi quotidiani, la fantasia si situa nel grande spazio dell’immaginazione e si puo’ sintetizzare come “l’abilità di creare e manipolare simboli” o come “la capacità mentale di pensare a possibilità che vanno oltre l’evidenza delle percezioni sensoriali immediate” (ibid., p. 52). Prospettare rappresentazioni alternative, valutare la fattibilità di una certa azione, pianificare o effettuare previsioni su progetti futuri: tutti questi aspetti rappresentano importanti strumenti per l’adattamento dell’uomo al proprio ambiente. Se quindi l’immaginazione può servire come funzione dell’Io al proprio adattamento per un’ampia gamma di scopi, la fantasia si può ascrivere come un atto immaginativo legato più a scopi emotivi e inconsci che ad obiettivi pragmatici, ossia come regolatore emotivo dell’Io (ad esempio per mitigare la paura) o come gratificazione di un desiderio.



L'artista come modello esistenziale di creatività


Il nevrotico vuole, per così dire, digerire ciò che è penoso, mentre l’artista lo erutta come un vulcano, e il sognatore lo trasuda. (p.78) […] il sogno dei normali è soltanto un’eco della dura lotta psichica, i cui protagonisti infuriano nel nevrotico implacabilmente, mentre nell’artista stipulano armistizi sine die. (O. Rank, 1907, p. 84)

U. Verdirosi, Davanti al fuoco eterno dell'arte

Come ricordano vari autori (Freud, 1927; M.Klein, 1929; H. Segal, 1955; M. Milner, 1957; Chasseguet-Smirgel, 1971; Bollas, 1989), l’arte ha inizio sempre laddove il soggetto trova frustrazioni nella realtà: seppure il risultato finale, l’opera, sia il frutto di processi più variegati e intrecciati, il bisogno di creare proviene inizialmente dal tentativo di superare (o trasformare) la propria sofferenza psichica. Nella prospettiva psicoanalitica l’arte affonda sempre nel dolore e nella mancanza, in quanto l’artista proietta il proprio conflitto sull’opera cercando di liberarsene, col desiderio di esprimerlo, comunicarlo all’altro come una confessione che cerchi un’assoluzione attraverso la comprensione e l’effetto artistico sul pubblico (e la critica).


Le forze motrici dell’arte sono gli stessi conflitti che spingono altri individui alla nevrosi, e che hanno indotto la società a fondare le sue istituzioni. (...) L’artista cerca innanzitutto un’autoliberazione e, comunicando la sua opera, la trasmette ad altri che soffrono degli stessi desideri trattenuti. (Freud, 1913, p178)


Tuttavia già Freud aveva intuito come nell'artista sia presente una certa "flessibilità di rimozione” che gli consente di accedere al materiale inconscio più agevolmente di altri, e di immergersi senza rimanerne sommerso, ossia senza ammalarsi (come succede ai nevrotici). Questa capacità è stata ripresa da autori successivi, enfatizzandone il suo carattere straordinario, come Kris (1952) quando ha coniato la celebre espressione “regressione al servizio dell’Io” per descrivere l’attività di rilassamento provvisorio delle funzioni dell’Io (controllo, pianificazione e giudizio critico) da parte dell’artista, per poter pescare dal proprio inconscio il materiale destinato all’opera d’arte. Per Kris infatti la componente essenziale per la creatività è costituita da tale capacità di regressione che comporta la sospensione temporanea dei processi secondari per attingere alla ricchezza dei processi primari: non a caso in tutte le culture è possibile riscontrare come l’artista sia spesso avvezzo lavorare sotto effetto di alcol o droghe per facilitare tale scopo.

L’artista si trova cioè continuamente ad oscillare tra l’abbandono ai processi primari (considerando ben poco l’ambiente esterno) e l’elaborazione di essi sotto il controllo dell’Io che successivamente li esamina e li organizza nel confronto costante con la realtà (come quando l'artista ogni tanto si stacca dalla propria attività per osservare "da fuori" il proprio lavoro).


Anche S. Arieti (1976) ha sottolineato come l’artista sia particolarmente capace di accedere al processo primario, e quindi privilegiando il mondo delle immagini, delle metafore e le sue varie coloriture espressive. Arieti ha infatti coniato l’espressione “processo terziario” per descrivere la capacità acquisita da parte dell’Io di accedere e di gestire allo stesso tempo i contenuti dell’inconscio:


Il processo terziario, con forme e meccanismi specifici, amalgama i due mondi della mente e della materia, e, in molti casi, il razionale con l’irrazionale. Invece di rifiutare ciò che è primitivo...la mente creativa lo integra con i processi logici normali in ciò che sembra una sintesi magica dalla quale emerge il nuovo, l’inaspettato e l’auspicabile. (p. 67)


Secondo Arieti il processo terziario sarebbe qualcosa di più complesso, e in un certo senso di più evoluto, rispetto a quello primario e secondario: esso infatti richiederebbe all’individuo sia una speciale capacità ricettiva ai contenuti dell’inconscio, sia l’abilità di riuscire a gestire in modo ottimale tali materiali. Non a caso alcuni autori (Segal 1955; Chasseguet-Smirgel, 1986) hanno paragonato l'esperienza creativa ad un atto bisessuale, in cui la medesima persona è allo stesso tempo la femmina generatrice (la ricettività fertile nell'inconscio) e il maschio fecondatore (l'attività vigile, controllata e deliberata della coscienza).


Ciò che importa sottolineare inoltre è come nell'essere umano il processo creativo, seppur nato in origine come forza riparatrice per i propri conflitti interni, diventi, a man mano che i conflitti si appianano (nel momento in cui la persona cresce), una forza a sè stante spendibile in ogni ambito della vita; ossia, come ha scritto H. Hartmann (1955), l'attività creativa diventa sempre più una "funzione autonoma dell'Io" di cui l'individuo può servirsi per un migliore adattamento nel suo ambiente socioculturale.

Ad esempio, in uno studio sui bambini della scuola materna intenti a dipingere a cavalletto, Kris (1952) ha osservato come man mano che la maturazione procedeva, il bambino diventasse sempre più capace di controllare l’impulso di imbrattare se stesso e la tela, cioè acquistando gradualmente padronanza dei processi primari al servizio di quelli secondari dell’Io. In altri termini, il bambino col passare dei mesi imparava sempre più a resistere alla tentazione di dar sfogo ai suoi impulsi subitanei per cercare maggiore espressione nella forma e nell’ordine.


E così l’immaginazione creativa puo’ condurre a risultati concreti; alcuni nell’arte, altri dedicati principalmente e unicamente alla risoluzione di problemi, all’inventività nel campo della scienza, o semplicemente all’arricchimento dell’esistenza dell’individuo. (Kris, 1952, p.405)



Creatività e gioco nell'adulto


Ogni bambino è un’artista. Il problema è poi come rimanere un’artista quando si cresce. P. Picasso

Bruegel il Vecchio, Giochi di bambini (1560)

Secondo Freud (1907) l’artista (e la persona creativa) ha saputo conservare la capacità del bambino di giocare, e nella creazione del proprio mondo egli è capace di dedicarsi con la stessa assoluta serietà con cui si dedicava il bambino durante il gioco. L’artista ha imparato a non negare la realtà esterna ma nemmeno a rinunciare alla forza del suo mondo interiore: se il nevrotico tratta inconsapevolmente la realtà esterna sotto la costante influenza del proprio mondo inconscio, l’artista riconosce invece la realtà, ma decide di plasmarla attraverso il “come se” del gioco. Anche la Milner (1955) ha descritto come l’artista, al pari del bambino durante il gioco, viva un assorbimento totale in ciò che sta facendo attraverso un’attività che gli permette di fondere mondo interno e mondo esterno senza tuttavia mai confonderli.

Secondo Winnicott (1971) il ruolo del gioco è fondamentale all’interno dell’esistenza: secondo l’autore solo nel momento in cui gioca la persona è in grado di esprimere tutto il potenziale del proprio Sé e di dare espressione alla propria creatività affinchè possa vivere l’esperienza che “la vita valga la pena di essere vissuta”. L’attitudine al gioco, quando è consapevolezza del suo ruolo di finzione (ossia nel momento in cui ne viene riconosciuto il carattere d’illusione, contrariamente a ciò che accade nel sogno o nella psicosi), e quando non diventa negazione inconscia degli aspetti spiacevoli della realtà (come accade nel processo maniacale), permette cioè di arricchire e significare maggiormente l’esperienza.


Il grande Leonardo, a ben vedere, rimase tutta la vita per più versi infantile; si dice che tutti i grandi uomini conservino qualcosa di infantile. Continuò a giocare ancora in età adulta e anche per questo apparve talora inquietante e incomprensibile agli occhi dei suoi contemporanei. (Freud, 1910, p.137)


Inoltre secondo Freud (1905) qualsiasi forma di comico deve recare con sé l’atteggiamento del gioco tipico del mondo infantile: attraverso il comico infatti si torna al piacere dell’infanzia sospendendo le imposizioni del processo secondario che esige logica, ordine, coerenza. D’altronde il motto di spirito utilizza gli stessi processi del processo primario: condensazione e spostamento, la presenza di contrari e opposti, giochi di doppi senso e assurdi, capovolgimenti di sensi, allusioni (figurazione indiretta), ragionamenti erronei, controsensi, rappresentazione mediante il contrario, il ricorso all’assurdo… come il bambino che nel gioco trattava le parole come cose, godendo nel “sottrarsi alla pressione esercitata dalla ragione critica” (p.150), ossia dalla ricerca obbligata di un senso logico.


I bambini amano e chiedono storie e sono in grado di capire argomenti complessi se presentati sotto forma di storie, quando le loro capacità di comprendere concetti generali e paradigmi sono ancora quasi inesistenti. E' questo potere narrativo o simbolico che dà un senso del mondo. (O. Sacks, 1986, p.128)



Creatività e terapia psicoanalitica

Quei modi di essere che il paziente sentiva, e inconsciamente continua a sentire, necessari per il suo equilibrio/sopravvivenza sono anche quelli che limitano profondamente le modalità di gestione della sua vita. Spesso il paziente in maniera inconscia e ambivalente consulta l’analista per farsi aiutare a risolvere questo dilemma – l’incompatibilità di sicurezza e generatività. (Ogden, 2005, p. 27)


Si è scritto tanto sui diversi mutamenti che è in grado di produrre l’esperienza psicoanalitica, tuttavia forse la sua più importante caratteristica rimane la possibilità concessa alla persona di potere liberare proprio quelle forze creative a sua disposizione (dapprima celate o inibite) in grado di donare maggiore ricchezza alla globalità della sua esistenza. Da sempre infatti la psicoanalisi si propone come obiettivi una migliore integrazione degli aspetti più disparati e contraddittori di sè, maggiori elasticità e apertura alle più svariate esperienze, e migliori libertà d'espressione e spontaneità d'azione grazie al recupero tutti quegli aspetti "pericolosi" che sono stati sacrificati nel corso dello sviluppo (tramite rimozione, scissioni, dissociazioni) di un mondo interiore amputato e impoverito. D'altronde si può intendere lo stesso sintomo, fonte di disagio e sofferenza, come la soluzione creativa di compromesso che gioca l'inconscio, nel momento in cui la persona non diventa capace di trovare altre soluzioni ai conflitti e ai problemi che la affligge.

Attraverso le sue rimozioni, il nevrotico ha attinto a molte fonti di energia psichica, il cui contributo sarebbe stato preziosissimo per la formazione del suo carattere e la sua attività; (...) Una rimozione che si sia verificata precocemente esclude la sublimazione della pulsione rimossa; una volta eliminata la rimozione, la via alla sublimazione è di nuovo libera. (Freud, 1909)


Già Ferenczi (1931) parlava di “giocoanalisi”: accostando certe caratteristiche dell’analisi infantile all’analisi con gli adulti, secondo Ferenczi il terapeuta doveva essere sempre in grado di riuscire a parlare – e saper condividere, attingendo anche alle zone più remote di sé – il linguaggio del paziente, per quanto regredito o infantile possa mostrarsi, affinchè egli potesse disporre sempre della massima libertà d’espressione. Ne L’influsso di Freud sulla medicina (1933) scriveva:


Ovviamente non pretendiamo che il futuro medico si prenda tute le malattie contagiose possibili e immaginabili al fine di poter meglio comprendere e curare ogni sorta di malati, eppure la psicoanalisi esige proprio qualcosa del genere quando si attende dal medico la capacità di immedesimarsi psichicamente nelle anomalie del paziente. La differenza tra le due situazioni consiste nel fatto che, secondo la psicoanalisi, ciascuno di noi puo’ attingere nel proprio inconscio gli elementi necessari a sviluppare questa particolare capacità. (2002, p.89)


T. Ogden (2004) è tra gli autori contemporanei che considera la psicoterapia come una “conversazione al confine del sogno” dove paziente e analista oscillano costantemente tra l’espressione creativa e simbolica dell’inconscio e il bisogno di comprendere e organizzare del conscio, in modo da generare congiuntamente (anche se asimmetricamente) quella “costruzione intersoggettiva inconscia” (p.30) che l’autore ha definito come “terzo analitico” (una nuova esperienza).


Le stesse associazioni libere consentono di esplorare aree della mente ignote, rimosse, non integrate nell’Io, consentendo nuove connessioni e quindi un ampliamento delle possibilità conoscitive e generative della persona. Le associazioni libere permettono il contatto con l’inconscio affinchè l’Io, al pari dell’artista, possa attingere meglio dalla tavolozza variopinta del proprio Es: scopo della psicoanalisi è infatti quello di rendere disponibile all’Io la forza vitale dell’inconscio affinchè esso possa espandersi, arricchirsi e meglio dirigere le proprie forze.

E per giungere a tale scopo è necessario che l’analista faccia conoscere all'analizzando l’importanza e la necessità del silenzio come “vuoto fertile” (Bollas,1989), attraverso la creazione di uno spazio (il setting analitico) che fornisca alla persona un’esperienza al limite tra realtà e fantasia in cui ella possa imparare a pensare simbolicamente, cioè a fare uso della propria capacità immaginativa.


La vita creativa, in genere, implica un ritiro del Sé, forse perché tutte le risorse interne del Sé sono impegnate nell’atto creativo. Anche Freud aveva riconosciuto questo bisogno nella psicoanalisi, quando paziente e analista si ritirano dagli stimoli del mondo. (p.222)

La coppia analitica inoltre, al pari dell’artista dinanzi alla propria opera, si muove continuamente tra materiale conscio e inconscio, tra sogno e realtà, tra fantasie e logica, oscillando tra sintesi e sospensione temporanea dei processi secondari. Attraverso l’insight, l’analizzando può godere del piacere di accedere a materiale e collegamenti dapprima sconosciuti, al pari dello spettatore che trova godimento con la fruizione dell’opera d’arte attraverso la scoperta del mondo interno dell’artista (per identificazione). Lo stesso paziente, infatti, da un lato vive l’esperienza regressiva confrontandosi con quella parte di sé infantile e arcaica rimasta inconscia, dall’altro conserva la parte adulta (“l’Io osservante”) in grado di analizzare ed esaminare l’esperienza in atto che sta vivendo (Sterba, 1934).


[…] l’analista, simile in questo all’artista, è in grado di cogliere nei rapporti inconsci, di mettere in luce formazioni psichiche finora ignorate. In altre parole egli evidenzia, con la sua immersione nelle oscure profondità dell’inconscio, dei contenuti a lui solo visibili, e da quel momento visibili a tutti, ma che gli occhi degli altri esploratori non potevano vedere. Agisce insomma come l’artista che con la propria opera diffonde una nuova luce sulla vita psichica, i cui elementi presenti – e agenti da sempre nelle profondità dell’essere – sono immediatamente rivelati. (Chasseguet-Smirgel, 1971, p. 47)


Per Winnicott (1971) l’essenza dell’esperienza analitica è la creazione: l’analista diviene per il paziente un compagno di giochi con cui può affrontare le proprie angosce e conflitti e co-costruire assieme migliori soluzioni. L’analista dunque offre se stesso come “oggetto transizionale”, e viene usato come personaggio per permettere al paziente di portare in scena inconsapevolmente il proprio dramma personale attraverso il transfert, all’interno di uno spazio “intermedio” di piena sicurezza. L’esperienza della traslazione, al pari della finzione estetica, è quell’”illusione” che permette di giungere alla verità e alla guarigione del paziente, diventando quindi conditio sine qua non per generare una nuova modalità relazionale e rompere con gli schemi rigidi e ripetitivi del passato (la coazione a ripetere).


La psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta. La psicoterapia ha a che fare con due persone che giocano insieme. Il corollario di ciò è che quando il gioco non è possibile, allora il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace. (p. 79)


L'esperienza psicoanalitica si pone quindi vari obiettivi nei confronti della persona: come nell’arte della maieutica socratica, essa è in grado di facilitare la consapevolezza dei propri conflitti e delle proprie difficoltà che costituiscono un blocco interiore alle energie creative, ricoperte da autoinganni e inibizioni; può liberare quelle potenzialità a cui non si riesce ad accedere a causa della propria psicopatologia, affinchè esse possano venire canalizzate in una scelta di vita consapevole; è in grado di stimolare un cambio di prospettiva, ossia la capacità di vedere la realtà, sentire e affrontare la vita in un modo nuovo.



Conclusioni

Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai poeta da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà né luoghi poveri e indifferenti. (R. M. Rilke)


Fu solo grazie all’annullamento di confini netti tra follia e sanità, ricordandoci che tutti possediamo gli stessi meccanismi psichici, conflitti e angosce, che Freud permise alla creatività di diventare un fenomeno comune tanto del genio quanto dell’uomo comune, descrivendola come una capacità intrinseca dell’essere umano di cui chiunque può disporre. L’esperienza creativa si può infatti rintracciare non solo nell’attività generativa dell’artista che è in grado di originare qualcosa di nuovo, ma si può esprimere anche solo nella capacità di risolvere un problema o nella possibilità di acquisire una nuova percezione della realtà data. D’altronde il geniale scienziato che fa la grande scoperta o l’artista che inventa qualcosa di straordinario non fanno altro che guardare in modo diverso una realtà che altri prima di loro hanno sempre avuto sotto gli occhi.


Immaginare non è trovare una soluzione a un problema emotivo; è cambiare i termini del problema. (Ogden, 2005, p. 34)


La cosa interessante che ci dice Freud (1929) è che se l'uomo si sentisse appagato e completamente “libero” di soddisfare impunemente i suoi impulsi come l’uomo primitivo, egli non avrebbe creato nulla: ciò che sottende a tale considerazione è che sia il conflitto di per sé, attraverso i tentativi per trovarne soluzione, a mobilitare le energie della creatività umana. D'altronde è noto da tempo come siano il divieto e l'impossibilità di soddisfacimento a spronare le "basse" pulsioni somatiche a trasformarsi in attività "alte" consentite all'interno dell'ambiente socioculturale (attraverso il meccanismo della sublimazione).


Ci è noto infatti un processo di sviluppo di gran lunga più adeguato allo scopo, la cosiddetta sublimazione, nel quale l’energia degli impulsi di desiderio infantile non viene bloccata, ma rimane a disposizione, perché ai singoli impulsi viene imposta, anziché quella inservibile, una meta più alta, eventualmente non più sessuale. Le componenti della pulsione sessuale si distinguono precisamente per tale capacità di sublimazione, di permuta della loro età sessuale con una meta più lontana e di maggiore valore sociale. Dobbiamo probabilmente ai contributi di energia resi così disponibili per le nostre prestazioni psichiche, le acquisizioni più elevate della civiltà. (Freud, 1909, p.24)


Cosicchè, se è pur vero che la psicoanalisi ha inferto un’ulteriore ferita narcisistica all’idealizzazione dell’immagine dell’artista come “divinità creatrice” (Kris, 1952), è grazie ad essa che è possibile ritrovare l’artista che è in noi, affinchè il contatto con l’inconscio possa sfociare nell’espressione della creatività invece che nella “malattia mentale”. E’ sempre stato un mistero immensamente affascinante come l’uomo riesca a trarre, da quel caos gigantesco dell’inconscio, le più grandi opere nella storia dell’umanità: chiaro che l’immersione con quella dimensione tanto preziosa quanto temibile che è l’inconscio, può avvenire solo se si inizia a famigliarizzare con esso attraverso l’esperienza psicoanalitica, affinchè imparando col tempo ad immergersi sempre più abilmente, diventi possibile trarne maggiori profondità, ricchezza e vitalità per la propria esistenza.



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