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L’era della postmodernità: le visioni profetiche di Erich Fromm sulla società dell’iperconsumo.

(pubblicato sulla rivista Essere - n. 96 maggio 2023 - del centro studi "Erich Fromm" di Napoli)

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L’era della postmodernità (2)
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(...) presupponendo che l'uomo abbia da mangiare e da bere a sufficienza, dorma quanto basta e si senta al sicuro (e abbia un normale soddisfacimento sessuale, direbbe Freud), che non subisca privazioni e la sua vita non presenti particolari problemi, è proprio allora, secondo me, che comincia il vero problema per l'uomo. (E.Fromm, 1953, pag. 15)


Da quando “la condizione postmoderna” (Lyotard, 1979) dell’uomo contemporaneo è diventata sempre più oggetto di studio da parte della filosofia e della sociologia, nel ritratto che è stato fatto non è difficile scorgere molti elementi in comune con l’importante lavoro di analisi sociale svolto anni prima da Erich Fromm. L’estrema attualità e il valore di tale autore sono dovuti al fatto che, integrando la psicoanalisi con le altri grandi scienze umane del passato (la filosofia, l’antropologia, la sociologia, la mitologia, la storia delle religioni, ecc.), egli ha tentato di porre la società stessa “sul lettino” dello psicoanalista, tracciando una “diagnosi” che di fatto non si discosta molto dalla situazione odierna.


Sostenendo che ciò caratterizza l’essere umano è la sua condizione fortemente “religiosa” (ossia la necessità di un sistema di orientamento valoriale forte e di un oggetto di devozione su cui investire le proprie energie vitali), Fromm (1950) aveva già individuato nella merce stessa, nella produzione economica sfrenata e nel consumismo illimitato, gli idoli della società contemporanea. All’interno di un’entità impersonale, il meccanismo economico, che quantificava e astraeva tutto in base al suo valore di scambio (Fromm, 1947), l’uomo aveva cessato di essere un fine divenendo mero strumento, una merce di scambio per gli interessi economici di altri. Egli era divenuto al pari di una cosa il cui valore era quantificato solamente dal mercato, estraneo a se stesso e alle esperienze esistenziali più importanti, incapace di riconoscersi come detentore di risorse, ricchezze e abilità (trasferite invece su oggetti esterni da possedere). In altre parole, usando un’accezione cara alla Scuola di Francoforte, Fromm considerava l’uomo contemporaneo come un “alienato” (amputato cioè delle sue qualità più squisitamente umane), rinchiuso all’interno di una soffocante routine in cui anche il lavoro aveva perso la sua capacità di fornire un senso all’individuo (creando reattivamente l’idea della pigrizia paradisiaca come massimo ideale di vita).


“La nostra è una società composta da individui notoriamente infelici: isolati, ansiosi, in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza, in una parola esseri umani ben lieti di poter ammazzare il tempo che con tanto accanimento cercano di risparmiare.” (E. Fromm, 1976, pag. 9)


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Se l’uomo dell’epoca vittoriana possedeva caratteristiche tipicamente anali-accumulatorie, Fromm (1976) vedeva nell’uomo contemporaneo un poppante che ingeriva tutto con la stessa modalità orale ricettiva e passiva, in grado di sperimentarsi vivo ed esistente solo nel momento in cui consumava qualche cosa. Quel tipico consumo vorace, coatto, bulimico, che, come risaputo dalla clinica psicoanalitica, rivelava già l’inconscia finalità di compensare patologicamente un enorme vuoto (in passato colmato dalle grandi fedi religiose). Del resto Fromm (1953) faceva notare come coloro che tipicamente venivano definiti “sani” (ossia gli individui che apparivano ben adattati alla società in base ad un modello di “normalità” definito da canoni stabiliti dalla società stessa [Foucault, 1961]), in realtà nascondessero una psicopatologia latente assai preoccupante. Infatti, secondo Fromm (1966), l’uomo moderno, spogliato della sua umanità, era un essere sostanzialmente devitalizzato, esattamente come una persona profondamente depressa intenta a fugare continuamente apatia e noia attraverso le infinite distrazioni dell’industria dell’entertainment e dello sviluppo tecnologico, verso cui, come una Grande Madre in grado di nutrire tutti i suoi figli con latte istantaneo e illimitato, l’uomo sperava di poter trovare senza sforzi la felicità attraverso la gratificazione di ogni desiderio.


“Il fatto che milioni di persone condividano gli stessi vizi non fa di questi vizi delle virtù, il fatto che essi condividano tanti errori non fa di questi errori delle verità, e il fatto che milioni di persone condividano una stessa forma di malattia mentale non fa che questa gente sia sana.” (Fromm 1955, pag. 11)


E così secondo Fromm (1976) l’uomo, in preda a questo disperata incapacità di definirsi, finiva per identificare il proprio essere con il proprio avere, dove esperienze, cultura e relazioni venivano consumate con il medesimo atteggiamento verso gli oggetti materiali, in un’atmosfera in cui tutto poteva essere usato, acquistato e scambiato in modo indifferente ed equivalente. Perché, in tale situazione socioculturale, Fromm (1956) vedeva minato nell’uomo proprio il suo aspetto più vitale e straordinario, ossia la capacità d’amare: nel suo relazionarsi agli altri, l’uomo ricalcava la stessa passività con cui si era atteggiato alla relazione materna primaria, cercando solo protezione, cure, attenzione e nutrimento. Orientato quindi solo al ricevere e considerando gli oggetti esterni esistenti solo nel momento in cui egli poteva ricavarne una qualche utilità materiale, l’uomo contemporaneo era sostanzialmente capace di vivere le relazioni intime solo in maniera sadomasochistica (attraverso cioè la sottomissione o la dominanza), facendo di se stesso lo strumento di qualcun altro o di qualcos’altro (un gruppo, un partito, un istituzione…) in maniera contrattuale (proprio come davanti ad una transazione economica).


Tutto è diventato business, ogni cosa deve funzionare ed essere utilizzabile. Non esiste un sentimento di identità, esiste un vuoto interiore. non si hanno convinzioni, né scopi autentici. Il carattere mercantile è l'essere umano completamente alienato, privo di qualunque altro interesse che non sia quello di manipolare e funzionare. È proprio questo il tipo di umano conforme ai bisogni sociali. Si può dire che la maggior parte degli uomini diventano come la società desidera che essi siano per avere successo. La società fabbrica tipi umani così come fabbrica tipi di scarpe o di vestiti o di automobili: merci di cui esiste una domanda. E già da bambino l'uomo impara quale sia il tipo più richiesto.” da L’arte di vivere, E. Fromm.


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Rispetto alle considerazioni fatte da Fromm a suo tempo, si può affermare che i fenomeni odierni diano prova di un ulteriore mutamento (regressivo) delle condizioni dell’uomo odierno nel rapporto con se stesso, gli altri e gli oggetti. Lipovetsky (1983) infatti parla di un ingresso ad una nuova era consumistica in cui, forse per la prima volta nella storia, una società ha fatto del problema esistenziale stesso, del problema della “felicità” un oggetto di marketing. Il consumatore di oggi infatti non è più solo avido di cose da esibire per ostentare il proprio status sociale e per compensare i propri complessi di inferiorità, ma ha fatto del consumo stesso un elemento fondamentale della propria vita psichica. Il consumo ha acquisito cioè una partecipazione affettiva da parte del consumatore che ora, invece del simbolismo dell’oggetto materiale, è alla ricerca continua di esperienze e di “vissuti”, non importa se di natura totalmente artificiale o se creati ad hoc da una vera e propria ”economia esperienziale” (Toffler, 1970) finalizzata a vendere “piccole avventure, acquistate come ‘pacchetto’ senza rischi e inconvenienti” (Lipovetsky, 2006, p. 40).


Infatti sembra proprio che l’uomo odierno sia sempre altrove come in un frenetico movimento, smanioso di provare sensazioni sempre più intense, attratto morbosamente dall’innovazione e curiosamente distratto da tutto e da niente: “è così che i consumi non sono più tanto un sistema di comunicazione, un linguaggio di significanti, ma, piuttosto, un viaggio, un processo di allontanamento per mezzo di cose e servizi.” (ibid., p. 44). Insomma la noia resta sempre tra le minacce più pericolose per l’uomo di oggi: bombardato dalla pletora di stimoli sensoriali dei mass media, egli tenta di divorare avidamente il tempo prima che sia lui a divorarlo, cercando l’ebbrezza compulsiva ed estatica sempre nel nuovo come un avido “collezionista di esperienze” (Toffler, 1970) che cambia “freneticamente le cose, nella speranza, spesso delusa, di cambiare la sua stessa vita” (Lipovetsky, 2006, p. 45).


“Più la città sviluppa le sue possibilità di incontro, più gli individui si sentono soli; più le relazioni diventano libere, emancipate dalle antiche costrizioni, più la possibilità di vivere una relazione intensa si fa rara. Dappertutto si ritrovano la solitudine, il vuoto, la difficoltà di percepire, di essere trasportati fuori di sè; ne deriva una fuga in avanti nelle ‘esperienze’ che non fa altro che tradurre questa ricerca di una ‘esperienza’ emotiva forte.” (Lipovetsky, 1983, p. 86)


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Perchè l’arte di questa cultura consiste proprio nell’essere riuscita ad anestetizzare, stordire, obnubilare l’uomo al fine di allontanarlo a tutti i costi dalla consapevolezza del proprio malessere interiore, come viene esemplificato in modo lampante dal fatto che oggi la soluzione al male esistenziale sia oramai sotto l’egidia del farmaco. Il fenomeno della vendita di ansiolitici e di antidepressivi ha raggiunto un business di portata esorbitante (e sempre in crescita), tanto che l’uso di tali farmaci fa supporre che essi siano diventati l’equivalente del soma miracoloso in grado di restituire euforia e benessere, come nel mondo distopico suggerito profeticamente da Huxley (1932). L’uomo odierno deve quindi poter continuare ad essere depresso per poter trovare nel consumo la propria cura illusoria, ma non deve diventare troppo depresso o consapevole del proprio stato intorpidito, altrimenti l’abulia e l’anedonia faranno di lui un pessimo consumatore.


Nel suo brillante saggio Minois (2003) ha mostrato infatti come aspetti della società odierna quali il culto dell’immagine e del look, l’ossessione per il corpo, il rifiuto categorico dell’invecchiamento, il dovere di realizzarsi ma anche di divertirsi, possano rappresentare “una formidabile macchina di produzione di depressi” che “utilizza i suoi depressi come un settore di consumo per l’industria farmaceutica e i servizi medici, psicologici e parapsicologici: li ricicla come ricicla i rifiuti” (p. 290).

In un mondo in cui tutto è possibile e dove l’essere felici è eretto a valore massimo diventando “quasi un dovere” (Minois, 2003), allora può risultare davvero traumatico fallire in un compito tanto importante. L’individuo contemporaneo, nei suoi tentativi forsennati di apparire sempre felice e di ricercare ossessivamente panacee in tecniche di “sviluppo personale”, in guide del “benessere” o nelle saggezza di nuove spiritualità seducenti, rivela in realtà tutta la gravità della propria disperazione quotidiana, per quanto accuratamente nascosta.

D’altronde non è un caso se a contare il maggior numero di depressi siano proprio le società più libertarie: già Fromm (1941) osservava come ogni conquista verso la libertà possa rappresentare per l’uomo un “dono ambiguo”, in quanto nel diventare sempre più un “individuo” egli dovrà necessariamente farsi carico della responsabilità di scegliere e di separarsi da ciò che non lo caratterizza, con l’inevitabile rischio quindi di perdere comodità, sicurezze e certezze.


“L'uomo moderno, liberato dalle costrizioni della società preindividualistica, che al tempo stesso gli dava sicurezza e lo limitava, non ha raggiunto la libertà nel senso positivo di realizzazione del proprio essere: cioè di espressione delle sue potenzialità intellettuali emotive e sensuali. Pur avendogli portato indipendenza e razionalità, la libertà lo ha reso isolato e, pertanto, ansioso e impotente.” (Fromm, 1941, prefaz.)


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L’individuo di oggi rivendica continuamente il potere (onnipotente) sulla propria esistenza e un'assoluta libertà da tutto e tutti (istituzioni, ruoli, relazioni, sessualità…): confondendo la libertà con l’affrancamento da ogni legame (l’interdipendenza con la dipendenza, l’intersoggettività con la rottura dall’Altro), egli aspira a rendersi totalmente autosufficiente (la self-culture) per poi non riuscire a sopportare più nemmeno se stesso e la solitudine che ha tanto preteso. Se dunque l’uomo frommiano era immerso in una forma narcisistica e materialistica di base necrofila (Fromm, 1964), quello di oggi sembra regredito ulteriormente verso aspetti schizoidi che lo inseriscono sempre più in un deserto relazionale, in un contesto di disimpegno emotivo generale in cui non è rimasta che l’indifferenza in mezzo ad una saturazione esasperata di stimoli ed informazioni.

Perché il paradosso è che l’individuo, nella sua ricerca spasmodica di libertà e di godimento illimitato, finisce per trovare nel consumo l’unico mezzo per sentirsi veramente se stesso e per soddisfare i propri appetiti (materiali e “spirituali”): attraverso la combinazione di mode, marche, prodotti, accettando questo e non altro, la persona ricerca nell’infinita possibilità di offerte pubblicitarie il massimo livello di libertà, piacere e onnipotenza. E così si diffondono nuove forme commerciali che, moltiplicando e diversificando l’offerta in maniera caleidoscopica, seducono il consumatore attraverso l’illusione di poter diventare ciò che vuole, “personalizzandolo” in maniera “unica e originale” (purtuttavia all’interno di un contesto in cui egli possa venire accettato e riconosciuto dagli altri). In altre parole, più l’individuo si sforza di dirigere e di controllare attivamente la propria interiorità utilizzando le logiche di mercato, e più inconsapevolmente finisce per essere conformista, “omologato al consumo” (Pasolini, 1975) e dipendente dall’”Eden consumeristico” (Lipovetsky, 2006) per il soddisfacimento dei suoi bisogni, proprio come un tossicomane che non riesce più a smettere.

A ben vedere, sembra proprio che il malessere individuale cresca proporzionalmente al numero di bisogni e di soddisfazioni create dal mercato del consumo; eppure, a quanto pare, rimane pur sempre preferibile il fragore del mercato coi suoi shopping bulimici, piuttosto che fare i conti con quel vuoto enorme che terrorizza l’uomo fin da quando abita il mondo (Solomon, 2001).


L’intera vita delle società sovrasviluppate si presenta come un immenso cumulo di segni del piacere e della felicità. Vetrine splendenti di oggetti presentati con pubblicità dai sorrisi raggianti, spiagge assolate con corpi da sogno, vacanze dai divertimenti mediatici: le società opulente si presentano all’insegna di un edonismo radioso. Ovunque si ergono le cattedrali dedicati agli oggetti e agli svaghi; ovunque risuonano gli inni alla qualità di vita; tutto si vende con la promessa di voluttà; tutto si offre con abbondanza di scelta e con un sottofondo di musica che ispirano l’immaginario da paese della Cuccagna. In questo giardino delle delizie, il benessere è diventato dio, il consumo il suo tempio, il corpo il suo testo sacro.” (Lipovetsky, 2006, p. 121)


Perché mai come oggi rispetto alle epoche passate, l’uomo si è fatto così fragile e vulnerabile, smanioso di essere ascoltato, desiderato, accettato e rassicurato, perennemente tormentato dall’invidia e in preda ad un’ansia costante, in un clima di stress inevitabile che pervade ogni aspetto della sua esistenza: “invecchiare, ingrassare, imbruttire, dormire, educare i figli, andare in vacanza, tutto costituisce un problema, le attività elementari sono diventate impossibili.” (Lipovetsky, 1983, p 52). L’incertezza del domani e l’abbandono del passato hanno portato ad osannare l’oggi, il presente, come una fede che professa l’esaudimento immediato al desiderio, dato che in tale situazione di precarietà e di assenza generale di scopi, nulla è più meritevole di sforzi, sacrifici, investimenti sul lungo termine.

Siamo dunque ben lontani dalle grandi passioni della negazione nichilistica, dal disagio della civiltà su base pulsionale (Freud, 1929), dagli sconforti metafisici del nulla o dal decadente pessimismo dello spleen baudelairiano: ogni cosa oggi viene banalizzata alla stregua di un “varietà” dell’intrattenimento che pone tutto sullo stesso piano, dove le antinomie del passato (bene/male, vero/falso, bello/brutto, reale/virtuale) sfumano in modo indistinto e fluido.

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Se già Lasch (1979) aveva descritto come questa fosse la cultura del Sé narcisistico per antonomasia, dominata dal culto della celebrità e da una ricerca spasmodica dell’essere visti, riconosciuti e ammirati ad ogni costo, oggi questo fenomeno ha senz’altro raggiunto l’acme con la diffusione dei social e delle varie piattaforme online. Essi hanno infatti democratizzato la possibilità da parte di tutti di avere un proprio pubblico (i famigerati followers), per comunicare con il solo intento di esprimere qualcosa di sè, fino ad intasare il web con i contenuti più irrilevanti e futili pur di mostrare la propria “oscena intimità” (Lipovetsky, 2006). Oramai l’individuo, disperso in un’infinità esasperata di stimoli, possibilità, attività, bisogni fittizi e disertando da ogni possibile appartenenza in grado di definirlo (istituzionale, professionale, interpersonale… addirittura sessuale se si pensa al fenomeno caotico del genderfluid), si è dissolto nella sua identità. Egli è finito col divenire sostanzialmente un essere inconsistente, indefinito, evanescente, pur apparendo all’esterno come una combinazione ibrida di identità polimorfiche simile ad un patchwork da esibire in “vetrina” (Baudrillard, 1970), o, in altri termini, come un Falso Sè “sano” e apparentemente funzionale (Winnicott, 1960).


Attualmente sembra infatti che tutto il pensiero (la “funzione riflessiva” [Fonagy, 2001]) abbia subito una regressione verso il corpo, diventato un vero e proprio oggetto di culto (l’ossessione per la sua cura maniacale, l’anti-aging, l’igiene, la dieta, le preoccupazioni ipocondriache…): nella generale confusione identitaria, per il soggetto il corpo sembra essere rimasto l’unico appiglio attraverso cui potere identificare se stesso, e il mezzo privilegiato con cui comunicare (non di rado come riflesso di forme alessitimiche). Anche le relazioni intime, anch’esse oramai completamente “liquefatte” (Bauman, 2003), sembrano perlopiù basate su infatuazioni passeggere (e quindi su immediate disaffezioni), dove la sessualità stessa viene epurata da ogni coinvolgimento sentimentale. Esse dimostrano dunque come l’altro assolva sempre più funzioni narcisistiche (Kohut, 1971) in qualità di “oggetto parziale” (Klein, 1932), acquisendo cioè esistenza solo per certe specifiche caratteristiche desiderate e non come oggetto intero separato dal soggetto nella sua alterità.


Eppure la clinica psicoanalitica sa bene da tempo che tutte queste manifestazioni, incoronate dalla volontà del “tutto e subito” (in contrapposizione al per aspera ad astra), sono tipiche delle organizzazioni marginali di personalità (Kernberg, 1975), caratterizzate da dispersione del Sé, meccanismi di difesa primitivi, incapacità nel differire la scarica pulsionale, angosce profonde, cattiva tolleranza rispetto alle frustrazioni e alle rinunce imposte dal principio di realtà.


“Nel nome della gioia di vivere, assistiamo a una gigantesca regressione culturale e intellettuale. La mondializzazione dell’istupidimento è cominciata: i suoi attori si adoperano a tenere lontane le problematiche e il bisogno di riflessione occupando il tempo libero delle masse con ogni sorta di gioco. [...] La società consumistica, favorendo la demoltiplicazione di bisogni sempre più futili di cui procura la soddisfazione immediata, contribuisce a mantenere un clima euforico e una falsa idea di progresso, sedando le coscienze e scacciando la noia, al prezzo di una regressione umana. La questione del senso si dissolve nel perseguimento di innumerevoli piccoli bisogni artificiali.” (Minois, 2003, p. 328)


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Ogni aspetto della società sembra impregnata da una cultura basata su “mitologie adolescenti, spensierate, liberatorie” (Lipovetsky, 2006, p. 15), in cui di fatto, l’uomo odierno, nella sua mania di rincorrere sempre una condizione di divertimento, piacere ed evasione, paradossalmente è diventato incapace di giocare, nell’accezione simbolica e transizionale tanto sottolineata da Winnicott (1971). Perché si può parlare di gioco solo nel momento in cui esso si può contrapporre ad una realtà a cui sapere fare ritorno una volta in cui cessa l’atto del giocare, come stabilito dagli stessi limiti e norme che lo regolamentano (Huizinga, 1936). Invece l’uomo di oggi, oramai incapace di discernere realtà e illusione e ben lontano da un adultità che ha saputo superare le fatiche e i vari lutti inevitabili della crescita (senza tuttavia perdere il bambino capace di giocare che è in sè), ha fatto della negazione (ipomaniacale) e della derealizzazione euforica i propri principali meccanismi di funzionamento. Tutto sembra infatti finalizzato a ricreare la condizione di festa perenne del “puer aeternus” (Hillman, 1988), uno stato di “apatia frivola e carnevalesca” (Lipovetsky, 1983) atta a mascherare la reale miseria quotidiana. Perchè in una società oramai priva di alcuna forma paterna forte (Zoja, 2000), in senso spirituale, psicologico e anche concreto, non rimane che il figlio in mezzo ad una grande famiglia di soli fratelli, terrorizzati dall’assumere le vesti dell’autorità e allergici ad ogni forma di norma, limite, responsabilità, senso di colpa (carenti cioè di uno sviluppo adeguato del Super-Io).


“La res publica è devitalizzata, i grandi problemi ‘filosofici’, economici, politici o militari suscitano pressapoco la stessa curiosità disinvolta di qualsiasi altro fatto di cronaca, tutte le ‘altezze’ crollano a poco a poco, coinvolte come sono nella vasta operazione di neutralizzazione e banalizzazione sociali.” (Lipovetsky, 1983, p. 56)


Che fare dunque? Come ha evidenziato recentemente il filosofo B.C. Han (2021), forse la questione fondamentale che si pone è oramai la necessità di aprire le porte a quel vuoto e a quella sofferenza che si cercano di anestetizzare ad ogni costo. Perché la società odierna è permeata in ogni suo aspetto dal terrore generalizzato del dolore (algofobia) e quindi conseguentemente anche della morte (tanatofobia): il dolore è diventato scandalo ed è stato privato di qualsiasi forma d’espressione, in quanto non più compatibile con le elevate prestazioni richieste in ogni ambito di vita. La società si preoccupa allora di ricercare una positività che bandisca tutto ciò che è negativo e doloroso: anche la psicologia di oggi, con le sue banalità da cultura popolare, da “psicologia del profondo” (e quindi della sofferenza), è diventata una “psicologia positiva” che si deve occupare soltanto del benessere e dell’ottimismo. Ma così facendo, tale cultura “palliativa” (Han, 2021) non fa che impedire al dolore di farsi “linguaggio” per la scoperta e la riflessione, ossia di farsi verità, dimenticando che il dolore costituisce “la forza di gravità dell’esistenza umana” (ibid., p. 61) e che “la vita che perseguita e scaccia la propria negatività elimina sé stessa” (ibid., p. 79).


In linea col pensiero frommiano, l’uomo contemporaneo deve dunque cercare di riprendere la crescita interrotta per riscattarsi dalla propria situazione, cominciando proprio dalla crisi (da quella sofferenza tanto ostracizzata da un mercato del “benessere” che millanta salvezze e suggestionanti qualità curative), affinchè egli possa utilizzarla in maniera trasformativa invece che subirla. Perchè secondo Fromm (1964) nell’uomo esiste una spinta (una “potenza”) che gli permette di indirizzare le proprie energie vitali verso il mondo circostante in maniera creativa, ossia in forma “biofila” (cioè il momento in cui l’uomo diviene in grado di esprimere completamente le potenzialità proprie del suo essere umano). Chiaro che tale autenticità esistenziale richieda necessariamente fatica, tempo, sacrifici e la capacità di tollerare il conflitto navigando nell’ignoto, nell’incertezza e nel dubbio, con inevitabili riadattamenti dolorosi (Fromm, 1972), perché “senza dolore non è possibile alcuna conoscenza capace di rompere col passato” (Han, 2020, p. 53).

Eppure la clinica psicoanalitica sa bene che una volta in cui “muta” l’individuo all’interno di un sistema (famigliare o sociale che sia), allora si riscontrano cambiamenti anche sugli altri componenti di tale ambiente, come un effetto domino in cui la prima tessera innesca una reazione a catena su tutte le altre, anche su quelle più distanti. E dunque la psicoanalisi, che nel panorama odierno rappresenta sicuramente un strada in netta antitesi con l’orientamento generale del contesto socioculturale vigente, oggi più che mai può essere d’aiuto all’uomo contemporaneo, così resistente ad entrare in contatto col proprio mondo interiore… il proprio inconscio da cui, per fortuna, tutto può riprendere vita.


“L’atto filosofico più importante che oggi si possa compiere è dato dal buon uso della crisi e dall’accettazione, pacata, del disagio. (...) La crisi lacera, divide, squarcia, fa sanguinare. Ma la crisi apre e rivela, costringe a guardare dentro, nel profondo. (...) La crisi provoca un arresto. Obbliga a una pausa. Non consente più di spacciare la pura, caotica espansione per sviluppo ordinario e omogeneo. La crisi insegna ad ascoltare. E’ la pedagogia dell’ascolto, la diffida della frase fatta, il rigetto della certezza prefabbricata.” (Ferrarotti, 2012, p 22-23)


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