(Intervento svolto in occasione del Convegno Opifer 07/07/18: "Psicoanalisi oggi: tra politica e società")
Nelle sue opere Erich Fromm ha mostrato lucidamente come questa sia la cultura della “razionalità strumentale”, della fretta e dell’efficienza, dell’edonismo, del pensiero concreto e binario, della tendenza all’azione e alla scarica subitanea di conflitti e tensioni, che spinge verso l’ottenimento di risultati immediati al massimo del risparmio in termini di tempo e costi. E’ chiaro che tale tendenza si pone in netta antitesi rispetto all’atteggiamento introspettivo, lento, metodico e in parte doloroso del trattamento psicoanalitico, inteso come psicologia del profondo e della complessità tesa alla ricerca della verità individuale a fini emancipatori. In un certo senso quindi si potrebbe parlare di una sorta di resistenza generale da parte dell’uomo contemporaneo ad entrare in contatto con la propria interiorità, il proprio inconscio; figuriamoci poi dovendoci spendere anche un mucchio di soldi, tempo ed energie.
Chiaro dunque che l’enorme pletora di psicoterapie di oggi che commercializzano soluzioni molto più rapide, pragmatiche, economiche e meno impegnative (comprese le nuove figure di pseudoaiuto come coach, counselor e ogni tipo di mercante del benessere), appaiono più accattivanti e sostenibili agli occhi del consumatore contemporaneo, presentando così la psicoanalisi generalmente come una terapia anacronistica, elitaria, snob, ancora velata di esoterismo e scetticismo. Anche perchè, contrariamente da molti approcci odierni, la psicoanalisi non promette salvezze. Dunque sembra aleggiare in tempi recenti la sensazione comune che il suo impianto prospettico sull’uomo non sia più adeguato alla cultura del nostro tempo, perdendo quindi quel ruolo privilegiato nel fornire risposte e soluzioni.
Inoltre i continui tagli alla Sanità finalizzati alla massima economia anche sull’offerta dei trattamenti psicoterapeutici, sembrano privilegiare approcci più orientati alla realtà immediata delle terapie CBT, dei trattamenti “manualizzati”, o come vengono solitamente definiti oggi, degli standard terapeutici. La massiccia espansione del sistema categoriale diagnostico del DSM e dell’ICD, nati teoricamente per rendere più veloci e facili certe tipologie di ricerca, hanno finito per svuotare la diagnosi dal suo aspetto dimensionale e strutturale e hanno contribuito a distogliere l’attenzione sul significato del sintomo all’interno del suo sviluppo evolutivo e contestuale. L’enorme differenza in termini di costi economici e di impegno tra una qualsiasi scuola di psicoterapia (sempre attenta ad inventarsi nuove offerte per accaparrarsi una fetta di mercato), rispetto al lungo e dispendioso training psicoanalitico, scoraggia il reclutamento di nuovi allievi già impegnati a far fronte in prima linea alla crisi globale del nostro tempo. La crescente influenza della psichiatria biologica che collude con una cultura fondata sul “tutto e subito” e che trova nel farmaco la panacea ad ogni male e nel medico il nuovo sciamano guaritore di oggi, sembra sposarsi largamente con gli interessi delle grandi case farmaceutiche e delle agenzie assicurative in America.
E infine, una questione su cui solitamente non ci si sofferma, perchè data per scontata dagli psicoanalisti quando in realtà non lo è affatto né per il pubblico né per gli stessi colleghi: ossia l’esistenza dell’inconscio. Infatti, oltre alla difficoltà intrinseca nel comprenderne la natura, dato che il concetto di inconscio non si puo’ impararlo nè sui manuali nè attraverso la ricerca scientifica ma solo per conoscenza diretta attraverso l’analisi personale o all’interno del setting clinico, il suo significato è mutato anche per la stessa comunità scientifica: dall’inconscio freudiano fatto di desideri specifici collegati a pulsioni in una struttura relativamente stabile nel tempo, a quello relazionale (Donnel Stern, 1997) inteso come contenuto non formulato, composto da esperienze vaghe e indefinite determinate dall’interazione sociale in un dato momento, fino all’inconscio del paradigma cognitivo che ne svuota la natura psicodinamica.
Insomma tutti questi aspetti hanno gradualmente posto la psicoanalisi sulla difensiva, tanto che molti autori hanno diffuso l’espressione “marginalizzazione della psicoanalisi”, aggiungendo inoltre, autoindotta e meritata.
Il problema dell’Identità della psicoanalisi
Intanto all’interno del mondo psicoanalitico si è assistito nel tempo ad un pluralismo variegato di prospettive che piuttosto di arricchire e fortificare la disciplina nel suo complesso, ha prodotto spesso settarismi, frammentazioni e guerre intestine, più preoccupati ad una fedeltà teorica simil religiosa che ad una miglior spendibilità clinica, causando inevitabilmente una forte riduzione di credibilità in ambito scientifico. Anche perchè, come ha sottolineato Peter Fonagy (2005), pochi psicoanalisti oggi compiono revisioni approfondite sulla letteratura prima di scrivere qualcosa di proprio, sviluppando continuamente individualizzazioni del linguaggio e neologismi teorici che ostacolano un’integrazione delle conoscenze psicoanalitiche. Insomma più che vere e proprie nuove genialità, sembra essersi verificato anche quello che Freud (1929) stesso chiamava “il narcisismo delle piccole differenze”, che spesso hanno reso molto difficile il dialogo e lo scambio tra le varie teorizzazioni. Dunque, come ha sottolineato Jay Greenberg (2016), si parte dalla prerogativa che anche la psicoanalisi come ogni altra disciplina, è soggetta a mode e tendenze del momento, spacciando spesso per “nuovi” concetti già provenienti da vecchi progenitori. Inoltre soprattutto in passato si è assistito ad una sorta di ossessione nel difendere la propria purezza epistemologica da ogni contaminazione proveniente da altre discipline, come le neuroscienze, la sociologia, l’antropologia; e oramai si sa, una disciplina chiusa ermeticamente in se stessa è difficile che possa sopravvivere a lungo. Senza contare infine che, contrariamente da Freud che scriveva in modo semplice, cristallino, comprensibile a chiunque, molti psicoanalisti nel comunicare appaiono criptici, il più delle volte utilizzando un gergo quasi impenetrabile che spesso scoraggiano studenti e colleghi potenzialmente recettivi e curiosi al mondo della psicoanalisi.
Oggi l’introduzione di nuove forme di relazione più “calde” e morbide, l’impostazione di un setting vis-a-vis più flessibile, la proposta di trattamenti brevi, l’intersoggettività tra paziente e analista che concorrono assieme per il processo di cura e di conoscenza, rappresentano tutti tentativi d’innovazione per cercare di avvicinare la psicoanalisi alle richieste e alle esigenze dell’uomo odierno, che non ha più le risorse economiche di un tempo e che ha detronizzato l’autorità dell’analista come figura onnisciente e depositario di verità oggettive. Stephen Mitchell (1995) scrisse – a buona ragione - che: “l’autenticità dell’analista della scuola interpersonale ha portato una boccata d’aria fresca nell’atmosfera ottusa creata dalla tradizionale pretesa di scalzare l’esperienza dell’analista e di sostituirla con una posizione analitica oltremodo formale, meccanica e in definitiva profondamente falsa”.
Tuttavia, alcuni autori come Christopher Bollas (2016) si chiedono provocatoriamente se alcune delle posizioni più radicali delle correnti relazionali siano davvero da considerarsi evoluzioni in termini d’efficacia clinica, o se rappresentino piuttosto il frutto della necessità di poter vendere meglio un prodotto diventato oramai obsoleto. D’altronde è oramai risaputo che la proliferazione di scuole psicoanalitiche è derivata a volte da una forma di compensazione economica per questa “crisi di mercato” in cui gli psicoanalisti non guadagnano più come in passato. Morris Eagle (2011) ad esempio fa notare come nelle correnti contemporanee l’interpretazione abbia perso il proprio statuto primario e privilegiato nell’azione terapeutica, e come sia stata soppiantata da diverse forme di “esperienza emozionale correttiva”, abbracciando la famosa espressione di Frida Fromm-Reichmann (1950) “il paziente ha bisogno di una nuova esperienza, non di un’interpretazione”. Tuttavia Eagle osserva come la dicotomia tra interpretazione ed esperienza emozionale correttiva sia in realtà falsa e fuorviante, in quanto una presa di coscienza e l’insight di per sé costituiscono una forma particolare - forse la più profonda ed incisiva - di esperienza emozionale correttiva (né questa si contrappone alla relazione terapeutica in sé). Così come l’attenzione esclusiva sul qui e ora su cui si focalizza oggi il campo relazionale, inevitabilmente comporta sempre implicite e indirette interpretazioni su tutto il processo transferale come lo si intende tradizionalmente, benchè non venga più scomodato dalle correnti odierne. Per cui la sfida, ancora tutta da dimostrare sul piano empirico e clinico, risiederebbe nell’affermare come un’esperienza emozionale correttiva completamente slegata e indipendente dall’insight possa avere un effetto terapeutico positivo in sé.
Dunque, avanzando per ipotesi, puo’ darsi quindi che la marginalità di cui tanto si parla oggi possa essere in realtà una caratteristica costitutiva della psicoanalisi stessa che, per definizione, non puo’ essere in voga perchè altrimenti ne verrebbero inevitabilmente inficiati progetto e finalità, cosicchè, paradossalmente, in tale prospettiva fu tutto un grande malinteso quando ai tempi divenne tanto di moda.
Psicoanalisi, psicoterapie e ricerca empirica: sfida o falso problema?
E’ oramai evidente come la presenza della psicoanalisi nel mondo accademico e nella ricerca empirica si inserisca in una posizione nettamente minoritaria rispetto alla letteratura di altri paradigmi e alla “forza” dei risultati evidence-based. Sembra infatti che la maggior parte della comunità psicoanalitica sia disinteressata all’argomento, ritenendolo sostanzialmente poco rilevante per la pratica clinica. Altri autori invece sostengono che il futuro della psicoanalisi dipenda in gran parte dalla sfida di entrare a far parte del mainstream della ricerca scientifica basata sul risultato e sul processo, e che sia necessario adeguarsi alle modalità di controllo standard in ambito scientifico per poterne riconoscere la specificità di efficacia, in che cosa empiricamente sia diversa dalle altre psicoterapie e, in ultimo ambizioso scopo, dimostrarne l’originaria pretesa di essere primus inter pares, ossia la più efficace tra tutte le psicoterapie. Freud stesso (1932) considerò sempre la sua disciplina come una branca della scienza, e il setting analitico come una sorta di ambiente laboratorio, di cui fosse possibile, in linea di principio, verificarne le prove empiriche al di fuori della situazione psicoanalitica.
Altri ancora invece ritengono che la psicoanalisi e la sua intrinseca dimensione relazionale non potrà mai essere studiata e verificata con le classiche metodologie scientifiche (sempre più tendenti a valorizzare qualunque cosa possa essere quantificata), ma che debba essere riconosciuta come “scienza a statuto speciale” con le proprie regole e i propri strumenti di validazione. Perchè di fatto, oggetto di questa disciplina non è la materia come per la fisica, ma l’essere umano, ossia come l’ha definito sempre l’esistenzialismo, un essere autosimbolizzante, ovvero un soggetto perennemente in divenire, mai uguale ad un altro e non riducibile ad ogni tentata definizione. E d’altronde, non è un caso se E.Fromm (1995) definì la psicoanalisi più come un’arte che come una scienza esatta, suggerendo sempre di non allontanarsi mai da ciò che rimane l’irriducibile esperienza umana, che il paziente (che rimane sempre il miglior maestro da ascoltare, come suggeriva Bion, 1987), ci porta nel studio attraverso la propria unicità irripetibile.
Conclusioni
A questo punto sorgono spontanee alcune domande a seguito di questa costellazione simil schizofrenica di diverse scuole e prospettive, di dilemmi e conflitti interni in questi tempi poco propizi: fino a che punto la psicoanalisi puo’ abbandonare la concezione che ha avuto di sè e ciò che ha contraddistinto la sua intrinseca natura per decenni (se ancora ne esiste una), per adeguarsi ai tempi moderni rendendosi più fruibile e attuale, ma senza perdere efficacia clinica? In altre parole, quanto la psicoanalisi debba cedere a compromessi sui propri cambiamenti e quanto invece restar fedele ai propri principi (intrinseci ed estrinseci come li ha definiti Merton Gill, 1984), continuando a rimanere una scelta per pochi motivati e selezionati? O come ha scritto Vittorio Lingiardi (2010) in un suo celebre articolo: riuscirà la psicoanalisi ad affrontare la sua “morte” per poter vivere ancora in futuro sotto nuove spoglie? E infine, è dunque necessario nel panorama attuale che la psicoanalisi ottenga una propria legittimità scientifica senza snaturarsi come disciplina (che fino a poco tempo fa si è vista quasi sempre slegata dal suo diretto valore terapeutico), oppure puo’ permettersi di esimersi una volta per tutte da questo dilemma assumendo una posizione esclusivamente di tipo ermeneutico?
Erich Fromm non solo ha saputo utilizzare il carattere e gli strumenti della psicoanalisi per indagare la società nei suoi vari aspetti, integrandovi discipline diverse come la sociologia e l’antropologia, ma, mettendola direttamente “sul lettino”, ha fatto della psicoanalisi stessa, fossilizzata nella ripetizione cieca degli insegnamenti di Freud, l’oggetto della sua critica. La psicoanalisi nacque come forza rivoluzionaria, creativa e incredibilmente ricca di prospettive diverse: sarebbe un vero peccato se questo prezioso strumento che nella storia non ha pari per il suo potere trasformativo, non riuscisse più a comunicare efficacemente all’uomo di oggi, finendo, prima o poi, per scomparire del tutto.
La stessa psicoanalisi insegna che il momento della crisi rappresenta una preziosa opportunità di cambiamento: dunque si spera che le difficoltà che sta attraversando questa disciplina possano scuoterla dalla propria autocontemplazione e possano fornirle così lo slancio e la creatività necessari per continuare a rispondere ai bisogni e alle domande esistenziali dell’uomo contemporaneo, piuttosto che necrotizzarsi a tutti i costi in una o l’altra teoria come un letto di Procuste che, giunti a questo punto, rischia di diventarne un’illustre stele funebre.
“Per tutta la vita di Freud, spesso solitaria e turbolenta, la psicoanalisi ha occupato, anche nei periodi di massimo successo, una posizione minoritaria rispetto alla società e alla cultura in generale. Oggi i contributi di Freud sono così ampiamente accettati, così strettamente intrecciati nel tessuto della nostra cultura e dell’esperienza che abbiamo di noi stessi che, nel senso più ampio del termine, siamo tutti <<freudiani>>. (...) La psicoanalisi non è soltanto una disciplina professionale e scientifica all’interno della nostra cultura, ma una forma di pensiero, un approccio all’esperienza umana che è diventato costitutivo della nostra cultura e pervade il modo in cui oggi abbiamo esperienza di noi stessi e della nostra mente. (...) Perciò, dipingere la psicoanalisi come un complesso di idee sempre meno attuali sarebbe decisamente poco corretto. Al contrario, i temi oggi dominanti nella letteratura e nella pratica psicoanalitica - la natura della soggettività, la produzione del significato personale e della creatività, la dipendenza del soggetto dal suo contesto culturale, linguistico e storico - sono i temi dominanti della nostra epoca.”
Stephen Mitchell (1995), L’esperienza della psicoanalisi
G.De Chirico
Riferimenti bibliografici
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