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L'intensa nostalgia dell'antica "patria" come forza fondamentale della vita psichica inconscia

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Leonardo da Vinci (1511), Bambino nel grembo materno
Leonardo da Vinci (1511), Bambino nel grembo materno
Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / nè da chi nè che sia. / Soltanto, ne conserviamo / - pungente e senza condono - / la spina della nostalgia. (G. Caproni, Res amissa)

Indice


- Spunti artistici e filosofici

Il significato originario del termine nostalgia indica il desiderio struggente di ritornare in patria: l'unione di nòstos (ritorno) e algos (dolore) corrispondono infatti ad un neologismo creato dal medico svizzero Johannes Hofer [1] nel 1688, per designare quel male riscontrato nei giovani militari svizzeri che, durante il servizio militare in terra straniera, dimostravano un quadro sintomatico tipico (insonnia, depressione, panico, anoressia, febbri continue, consunzione... fino alla morte in taluni casi). Dunque originariamente un sentimento "medicalizzato" per indicare il rimpianto verso il proprio paese natio, l'intenso desiderio di fare ritorno in un luogo passato, legato inevitabilmente al dolore per l'impossibilità di questo ritorno: è il desiderium patriae dei nostri antichi, la maladie du Pays dei francesi, l'Heimweh dei tedeschi, l'homesickness degli inglesi.


Da un punto di vista esistenziale, la nostalgia è quel sentimento di lontananza e di mancanza che caratterizza in modo perturbante (Freud, 1919) la condizione umana: ciò che è irrecuperabilmente perduto e assente continua a presentificarsi nella vita psichica del presente come un fantasma tanto tormentoso quanto necessario. Infatti l'uomo si trova a vivere la condizione paradossale di voler recuperare qualcosa che non c'è più, che risiede in un altrove passato di cui però l'inconscio (che è senza tempo) serba memoria e desiderio. E' questa la contraddizione che caratterizza quella strana specie (l'homo sapiens) che sogna l'immortalità e l'infinito nonostante la sua condizione precaria e mortale, che brama la quiete nonostante la sua natura dinamica e attiva, che vorrebbe estinguere i propri desideri nonostante la sua natura perennemente desiderante.

La cacciata da quello che fu un "paradiso perduto" (il grembo materno e i suoi derivati simbolici) spingerà l'essere umano a tentare in ogni modo di rifarvi ritorno (senza però mai riuscirvi appieno): ogni agire umano, sano o patologico, sarà teso a ricercare, ad un qualche livello, quello stato originario, che di fatto è alla base di quanto più alto e quanto più basso esiste nell'essere umano.


"Perchè l'umido accesso al grembo materno non è solo l'angusto cunicolo da cui s'è sgusciati o la morbida vallata in cui dilagare, ma per l'essere umano è il simbolo di ogni ricetto e di ogni ristoro e insieme di ogni angoscia e di ogni terrore: paese natio e ostile terra straniera, giardino delle delizie e mefitico stagno, gorgo trascinatore e riposante oceano, iannua coeli e bocca d'Averno, crogiolo e tagliola, premio e castigo, ara e cloaca, cuna e bara. E il fallico eroe in cui il sognatore s'immedesima è una nostra vecchissima conoscenza, il protagonista di ogni avventura, Ulisse o Sigfrido, Dante o Chisciotte, Gargantua o Gulliver, Pollicino o Pinocchio." (Carloni, in Ròheim, 1973, p. 10)



La prospettiva psicoanalitica


"Magnifico sogno, alto errore! Sogno il più inverosimile di quanti mai siano stati, al quale tutta l'umanità, per tuta la vita, dava le sue forze; per il quale sacrificava tutto; per il quale i suoi profeti morivano sulle croci e venivano immolati; sogno senza il quale i popoli si rifiuterebbero di vivere e non potrebbero neanche morire." (Dostoevskij, I demoni)


La psicoanalisi non è stata di certo la prima a mostrare come questo luogo verso cui l'uomo cercherà per tutta la vita di fare ritorno, altro non è che il luogo natale del grembo materno, la vera "patria escatologica" (Jankélevitch, 1974, p. 137, in Prete, 2018) onnipresente nell'inconscio collettivo, il "fantasma delle origini" (Vecchio, in AA.VV., 1989, p. 100), ossia "l'antica [madre]-patria (Heimat) [...], il luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora" (Freud, 1919, p. 106). Si era già avvicinato Kant (1798 [2]) quando scriveva che la nostalgia è sempre nostalgia per il mondo beato dell'infanzia, quel tempo antico in cui il bambino, oscillando tra il desiderio di ritornare al grembo materno e la spinta alla crescita, é intento, non senza ingenti difficoltà, ad adattarsi alla realtà circostante. Crescita che assomiglia ad un processo graduale di elaborazione del lutto: il bambino dovrà infatti sacrificare gran parte delle sue condotte gratificanti in cambio dell'amore dei genitori (che lo educano al vivere civile), con la promessa di poter sviluppare nuove funzioni e abilità.


Grunberger (1989) ha sottolineato come lo stato fetale e le prime settimane di vita del neonato nella monade con la madre (che mantengono una continuità con lo stato precedente), lascino nell'inconscio l'impronta indelebile di un vissuto primordiale di totale pienezza, perfezione, illimitatezza e onnipotenza: durante la vita uterina il feto vive cioè uno "stato elazionale" di beatitudine e di espansione (parassitaria) senza sforzi, in un mondo a-conflittuale e a-pulsionale.

D'altronde, già Freud (1907) ricordava come ogni piacere della vita adulta non fosse altro che la ricerca di un piacere "già una volta gustato", costituendo "surrogati" (mai del tutto soddisfacenti) di antichi oggetti infantili: "in questa ripetizione ogni conoscenza è una riconoscenza, in questo gioco di riflessi, di ripercussioni e di parvenze, la vita è l'esperienza di una distanza. Un esilio dalla felicità" (Prete, 2018, p. 15). Utilizzando un termine del premio Nobel R. Rolland, Freud (1929) parlava infatti del "sentimento oceanico" come di uno stato arcaico della mente caratterizzato dalla perdita dei confini dell'Io (una sensazione di unione col tutto) e da una condizione di intensa pienezza. Ovverosia uno stato di narcisismo cosmico che continua ad essere richiamato nell'inconscio sotto forma di nostalgia: "il desiderio di un'antica perfezione, l'attesa di un ritorno, il ripristino di un paradiso perduto, di una fusione originaria assoluta e assolutizzante" (Oneroso di Lisa, in AA.VV., 1989, p. 42).

Ferenczi (1924) faceva derivare tale nostalgia "talassica" (da thalassa: “mare”) all'antica forma acquatica dei progenitori evolutivi, i pesci (ora rappresentata dal liquido amniotico dell'utero materno in cui il feto "sguazza" come un pesce nell'acqua), e lo stesso parto come una ricapitolazione filogenetica di quella catastrofe (il prosciugarsi degli oceani) che costrinse numerose specie animali a rinunciare alla vita acquatica per adattarsi a quella terrestre.

Non a caso Rank (1924) parlava del "trauma della nascita" come di un fatto (biologico) indelebile nella vita psichica dell'uomo (pregno di valenze simboliche): il parto sancirebbe cioè la tragedia derivante dalla perdita irrimediabile dell'Eden uterino e allo stesso tempo la nascita dell'Io (che lotta contro la morte per vivere e venire alla luce). Secondo l'autore infatti, l'intero comportamento umano è il risultato di un compromesso tra le richieste imposte dalla realtà e questa tendenza inestinguibile che cerca di "avvicinare il più possibile il mondo esterno allo stato originario di cui si ha una precedente esperienza" (p. 45); in tal senso quindi "il fatto culturale non va considerato solo come una forma di adattamento dell'uomo alla realtà, ma anche come una forma di adattamento della realtà all'inconscio" (ibid., p. 112). Posizione questa che ricorda molto intimamente quella di alcuni controversi biologi (Portman 1969; Gould 1982) i quali hanno sottolineato come possa essere un errore spiegare ogni manifestazione dell’evoluzione secondo la lente darwiniana.

Infine, nel suo studio monumentale sui sogni dei cosiddetti popoli primitivi, Ròheim (1973) ha individuato quello che ha definito il "sogno fondamentale" della mente dell'umanità: in certi sogni emblematici il sognatore compirebbe una sorta di movimento tipico, ossia egli ritorna nel grembo materno (discende regressivamente in simboli uterini) per poi risollevarsi (l'ascesa progressiva attraverso simboli fallici), fino a giungere al risveglio (la rinascita). In tal senso, ogni volta che dorme l'essere umano sperimenta il conflitto fondamentale che gli è proprio, muovendosi tra la spinta alla vita (pulsionale) e il desiderio di morte (il sonno eterno), tra la libido che continua a dirigersi sugli oggetti e l'isolamento narcisistico, tra l'indifferenziazione e la contrapposizione di rappresentazioni simboliche maschili (falliche) e femminili (uterine), di cui il coito è il diretto rappresentante.

Anche Fachinelli (1983), attraverso l’analisi dei cosiddetti sogni perinatali, ha enfatizzato la “tendenza claustrofilica” dell’uomo (la spinta profonda del ritorno nel grembo materno), in cui l’intensa fascinazione al “soggiorno uterino” si mescola a puro terrore, al pari dei cosiddetti sogni che evocano il parto dove possono apparire sia un senso di conquista e di liberazione, sia nuovamente un moto all'indietro (“reinfetazione”).


Uroboro
L'Uroboro (simbolo molto antico, presente in tutti i popoli e in tutte le epoche): il serpente che si morde la coda chiudendo se stesso (formando un cerchio) simboleggia l'unità indifferenziata che contiene il tutto, l'eternità, il tempo ciclico, l'immortalità e la perfezione. (Fonte: WikiMedia Commons)

Vie elazionali


Il sonno è forse per antonomasia il momento fisiologico più analogo alla situazione intrauterina, se si pensa alla postura fetale assunta dal dormiente, la ricerca del calore di morbide coperte e del contatto intimo con l'altro (che sostituiscono l'interruzione della omeotermia durante la fase REM), la necessità di quiete e di assenza di stimoli: "addormentarsi equivale a rientrare nel corpo della madre" (Ròheim, 1973, p. 169). Ròheim (1973) ha teorizzato il sonno come un ritiro assoluto dalla realtà esterna e il sogno come un tentativo di "ristabilire un contatto con l'ambiente circostante, di ricostruire il mondo" (p. 207). In tal senso dunque il sogno sarebbe "il custode della vita" che cerca di reinvestire sul mondo oggettuale (in modo allucinatorio) attraverso le tracce mnestiche dei residui diurni, evitando così alla mente di "morire" in quel sonno (privo di sogni) che tanto assomiglia alla morte,


Da un punto di vista personologico, come fa notare Starobinski (2012), il termine "nostalgia" verrà soppiantato da tutta una letteratura clinica sulla "patologia della separazione" precoce dalla madre (gli studi svolti da Bowlby [3] e da Spitz [4]), come ad indicare la trasformazione della nostalgia da mancanza di un luogo fisico (quello natio), a un luogo sempre più mentale, un "villaggio interiorizzato" (p. 227).

Perciò si potrebbe intendere ogni forma psicopatologica del carattere (la seconda natura dell'uomo costruita per adattarsi all'ambiente) come la peculiare modalità regressiva di ognuno per affrontare tale nostalgia, ossia come l'incapacità di trovare nella realtà surrogati soddisfacenti. Ad esempio, il nevrotico (Fenichel, 1945) è solito nutrirsi di fantasie, sperando di giungere alla meta attraverso la colpa (erotizzata) e la riparazione (masochistica); il marginale (Bergeret, 1974) ci proverà con la dipendenza totale dall'oggetto per esorcizzare le angosce da separazione (l'anaclitico), o attraverso l'illusione grandiosa del proprio Sè e degli oggetti iperidealizzati (il narcisista), con la mortificazione della disperazione (il melanconico), la negazione dell'oggetto (lo schizoide), la distruzione dell'oggetto (il perverso) o la ricerca di paradisi artificiali (il tossicomane); lo psicotico (Arieti, 1974) arrivando addirittura alla costruzione (delirante) di un proprio mondo incantato, la fusione totale con l'oggetto, la fortezza euforica della mania. In generale, quanto più è grave la psicopatologia, tanto più sono presenti delle falle narcisistiche (scarsa forza dell'Io) che ancorano la persona "impreparata alla perdita" (Green, 1983, p. 183) a delle modalità primitive per raggiungere la meta elazionale. Altri invece fanno parte della schiera dei "cosiddetti sani" (Fromm, 1991) o degli "uomini culturali automatizzati" (Becker, 1973), dove la nostalgia, accuratamente respinta dalla repressione, è soppiantata da quel sentimento tipico di alienazione che caratterizza chi, straniero al proprio mondo interiore, è orientato solo al mondo esterno del fare e dell'avere (Fromm, 1976).

Di fatto, la stessa coazione ripetere (che porta a riprodurre le esperienze traumatiche del passato con la speranza di modificarne l'esito) è forse la manifestazione più diretta della spinta nostalgica di attualizzare nel presente fantasmi del passato accuratamente celati nel labirinto del rimosso; d'altronde già Freud (1892-95), riferendosi alle giovani pazienti isteriche, aveva osservato come i malati soffrissero "per lo più di reminiscenze" (p. 179) e come i sintomi fossero "residui o simboli mnestici" di traumi inconsci.

La vita amorosa è ovviamente la via privilegiata, la "sede" presso cui si tende a cercare la soddisfazione di tutti i desideri, e dove si spera di ri-trovare le tracce dell'antica esperienza idilliaca: "l'amore è, in origine, un tentativo di ritornare allo stato ideale in cui si è incondizionatamente accettati, vale a dire a uno stato di completa soddisfazione narcisistica" (Reik, 1961, p. 301). Già Ferenczi (1924) scriveva come nel coito l'uomo penetri la donna come per voler tornare nel grembo materno (concretamente con lo sperma, parzialmente con il pene e nella fantasia con l'intero corpo), e come la donna desideri trattenere dentro di sè il pene per trasformarlo in un bambino, identificandosi anche con lo stesso uomo mentre si fa per lui sempre più cedevole, accogliente, "rifugio". Oltre al fatto che nella maternità "la donna, grazie alla fusione con il feto, ha la possibilità di ritrovare l'accesso al corpo della madre, in un modo più totale, più profondo e duraturo dell'uomo" (Chasseguet-Smirgel, 1986, p. 54).

Inoltre, nello stesso atto sessuale genitale, soggetto e oggetto si confondono in una fusione temporanea (tanto terrificante per il perverso), in cui i confini tra i due scompaiono, all'insegna di un'unità psicofisica coronata dall'orgasmo, che assomiglia tanto all'estasi beata del neonato sazio dopo la poppata (Freud, 1905). Infine è sempre alla vita amorosa che appartengono quelle qualità che ricercano l'eterno elazionale, come la tenerezza (che rappresenta la prima importante "sublimazione" dei moti libidici) e la creazione della vita (la generazione dei figli), garanzia di "immortalità" dei genitori da un punto di vista psico-biologico.


"L'esperienza del godimento con una persona è una delle maniere che ci porta all'indietro nella continuità, che ci rende possibile l'immersione nelle profondità dell'inconscio, alleviare l'angoscia della solitudine e tornare al paradiso mitico delle origini, al grembo, allo spazio fisico e psichico caldo e sicuro." (Alizade, p. 102)


Nella sublimazione o nell'atto creativo-artistico, soggetto e azione-opera si fondono in un'esperienza transizionale (Winnicott, 1971) che trae origini dalle prime esperienze di gioco solitario da parte del bambino intento a simbolizzare i propri eventi traumatici. La Milner (1950) ha descritto infatti come l’artista, al pari del bambino durante il gioco, viva un assorbimento totale con ciò che sta facendo, per mezzo di un’attività che gli permette di fondere mondo interno e mondo esterno senza tuttavia mai confonderli. In altri termini, la sublimazione riunisce quanto è stato separato attraverso "un ritorno interno ri-creativo della matrice madre-bambino della vita psichica" (Loewald, 1988, p. 32), nella quale si perde la distinzione netta tra soggettivo e oggettivo, sé e oggetto. Creare significa proprio colmare il limite intrinseco delle possibilità pulsionali (Green, 1983): "la sublimazione, negando il corpo, nega la magia del corpo e rinuncia a fantasie e a certe mete istintuali che non hanno mai potuto essere soddisfatte nella realtà" (Brown, 1959, p. 372).


Di fatto tutte le religioni hanno cercato di costruire spiegazioni sul perchè l'uomo abbia perduto lo stato elazionale originario, facendo del "concetto" di dio la proiezione dell'ideale perduto e indicando quali vie si debbano imboccare per sperare di recuperarlo (e lo stesso si può dire anche di tutte le correnti filosofiche che, sostituendo théos con sophia, si sono preoccupate del problema della "felicità", seppur con declinazioni molto più modeste). L'esperienza religiosa sostiene infatti che, non potendo esistere in questo mondo, si può trovare totale pienezza in un aldilà misterioso, a cui si accede solo dopo la morte: esclusivamente a pochissimi eletti invece (i grandi mistici) sarà possibile l'unione in vita con l'oggetto idealizzato (Kris, 1952) attraverso l'estasi - "l'orgasmo spirituale" di T. d'Avila (Kristeva, 2008 [5]) -.


Che cosa dunque ci grida questa nostra avidità e impotenza, se non che altra volta l'uomo ha goduto un vero bene, di cui ora gli resta solo il segno e il vuoto che esso ha lasciato? Invano egli cerca di colmare questo vuoto con tutto ciò che lo circonda, domandando a ciò che ancora gli manca la soddisfazione che non gli danno le cose presenti: nessun oggetto ne è capace perchè quell'abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, cioè da Dio stesso." (Pascal, 1670, p.261 [6])

Infine tale speranza elazionale è racchiusa nei grandi sogni utopistici dei movimenti politici che, fondandosi sulla purezza dell'ideologia, hanno aspirato ad una società ideale priva delle ingiustizie del sistema socio-economico vigente, come si riscontra nelle invenzioni letterarie dei pensatori del passato (Platone, Campanella, Bacone, Moro, Huxley, Marx, Proudhon [7])... fino ad arrivare al dio-mercato della contemporaneità come panacea di ogni male (Fromm, 1955) .Non bisogna infatti dimenticare come lo stesso termine paradiso rimandi in senso spaziale al luogo uterino:


Si può anche chiosare sul termine 'paradiso', scaturito dall'antico ebraico pandes, a sua volta derivato dal persiano apiri-daeza, che significa 'circondato da un muro'. La traduzione dei Settanta porterà a paradeisos. Da qui proviene l'idea secondo la quale la felicità perfetta esige uno spazio chiuso, isolato, protetto dai mali e dalle imperfezioni del mondo esterno. Tutte le utopie di mondi perfetti saranno immaginate in isole, in luoghi inaccessibili o fortificati. (Minois, 2009, p. 42).



La vita prenatale, la neotenia e l'Edipo


La recente ricerca (Nathanielsz, 1994) mostra come la vita prenatale sia già estremamente ricca e attiva: in quei nove mesi infatti il cervello fetale è sempre al lavoro (anche quando dorme), ricevendo ed elaborando una quantità ingente di stimolazioni interne ed esterne. Si è osservato come nel feto esista qualcosa di simile al sogno (il "sonno attivo"), in quanto all'ecografia sono visibili quei movimenti oculari rapidi tipici della fase REM: "suoni, modificazioni nell'alimentazione, traumi, movimenti, modificazioni dell'intensità della luce sono esempi di influenze esterne che potrebbero fornirgli materiale per sognare" (p. 23). Inoltre, richiamando le teorie ferencziane, si è visto come durante il suo sviluppo, l'embrione sembri ricapitolare la storia evolutiva: "in una certa fase l'embrione ha una serie completa di fessure nella faringe, che assomigliano molto alle branchie del pesce. Mentre nello sviluppo umano queste strutture degenerano rapidamente, o vengono convertite in altre strutture, nei pesci continuano a svilupparsi e vengono usate per estrarre ossigeno dall'acqua circostante. Fino a otto settimane di vita l'embrione umano ha una coda rudimentale, che poi scompare. (...) Il sacco vitellino, le branchie, la coda, i reni primitivi sono retaggi dei nostri antenati che ci hanno preceduto nell'evoluzione." (ibid., p. 62).


Per neotenia (oggi sostituita da termini quali fetalizzazione e pedomorfosi) si intende il mantenimento dei tratti fetali anche nella vita adulta: essa non è caratteristica della specie umana, ma indubbiamente è stata utilizzata a scopo evolutivo dall’homo sapiens. Basta infatti paragonare la forma del cranio dei piccoli di primate a noi più vicini (le scimmie antropomorfe) con quello dell’uomo (Gould, 1977), per accorgersi come entrambi appaiano inizialmente molto simili, per poi differire notevolmente durante lo sviluppo. E in generale si osserva come quelle caratteristiche morfologiche fetali che negli altri primati sono solo transitorie, nella specie umana invece si mantengono e si stabilizzano.

Già Bolk (1926) ipotizzava infatti che la ritardata chiusura delle suture craniche fornisse al cervello la possibilità di un maggiore sviluppo dopo la nascita e soprattutto quella plasticità che permette al bambino di restare continuamente aperto al mondo e orientato verso quell’importante processo di apprendimento della cultura trasmesso dai genitori. In tal senso, la selezione avrebbe favorito i piccoli che godevano delle cure parentali più lunghe (la nascita della famiglia), le quali a loro volta incentivavano il lento protrarsi dell’infanzia, permettendo quindi uno sviluppo sempre maggiore dell’intelligenza (reso possibile dall’aumento del volume della corteccia cerebrale): "la neotenia diventa mente nell'evoluzione" (Menarini, Neroni, 2009, p. 136). Infatti Portmann (1969) parlava dell’uomo come di quel mammifero che alla nascita necessita di un utero sociale non solo per poter sopravvivere, ma anche per potersi sviluppare nella sua forma culturale più alta, quella che fornisce l’impronta che è propria della specie umana. Ovvero un milieu uterino artificiale che consente al bambino di completare la transizione adattiva verso il mondo circostante e che compensa (Gehlen, 1978) il fatto di essere stato partorito prematuramente da un punto di vista biologico.


Perchè se da una parte questo lento e prolungato ritardo nello sviluppo ha portato un enorme vantaggio evolutivo (in termini di adattamento dell'Io e di padronanza ambientale), da un punto di vista psichico il bambino sembra dirigersi in una direzione opposta, con modalità del tutto antagonistiche rispetto alla realtà circostante. Da una parte infatti il bambino, a causa della sua immaturità funzionale, si trova a vivere una condizione di totale impotenza (la Hilflosigkeit descritta da Freud nel 1926) e di prolungata dipendenza dalle cure genitoriali ad un livello sconosciuto da ogni altra specie animale. Dall'altra, sin dal momento della nascita, il bambino "si trova a essere portatore di una contraddizione inconciliabile" (Grunberger, 1989, p. 307), dovendo subito fare i conti con la presenza di un corpo pieno di bisogni e di costanti tensioni (le pulsioni parziali della psicosessualità) che cozzano contro una "rivendicazione di origine fisiologica" (ibid.) della quiete dello stato prenatale. Ferenczi (1924) intendeva infatti le varie fasi sessuali del bambino come una serie di tentativi atti recuperare il nirvana uterino, "situazione nella quale la frattura così dolorosa tra l'Io e il mondo esterno ancora non esisteva" (p. 35), cosa che potrà avvenire solo con l'anfimissi della genitalità adulta (la fusione delle pulsioni parziali in un'unità superiore).

E così la situazione paradossale in cui si trova il bambino produce uno scarto incolmabile tra quello che egli vorrebbe e quello che invece è in grado di fare, come accade durante la fase edipica, l'acme di tale contraddizione: "egli non può vivere i suoi desideri incestuosi se non in un modo drammatico, derivante dallo scarto cronologico tra la loro apparizione e la capacità di soddisfarli. Qui, di nuovo, la prematurazione si situa al centro del problema." (Chasseguet-Smirgel, p. 44, 1986)


Se Freud ha insistito tanto sull'Edipo come tappa decisiva per lo sviluppo umano, è perchè di fatto questo periodo sancisce irrimediabilmente l'impossibilità da parte del bambino di "ritornare indietro" appagando nell'immediato i suoi sogni di completezza narcisistica (attraverso la riunione con la madre). La fase edipica segna inoltre la perdita della completezza sessuale (l'ideale androgino, la perfezione platonica dello stato primordiale), marcando la differenziazione del maschile e del femminile, e quindi necessariamente il bisogno futuro dell'altro sesso (o la rivolta ad esso), la necessità di ricongiungere ciò che una volta era unito.

Ma l'Edipo costituirà anche per il bambino la possibilità di rappresentarsi "la perdita del paradiso insieme alla speranza di ritrovarlo" (Grunberger, 1989, p. 226) per mezzo dell'identificazione col padre, che costituisce sì un rivale, ma anche un esempio che lo sostiene nella sua crescita, in una tensione evolutiva che "spinge sempre più avanti" (Freud, 1914). Infatti, secondo Grunberger (1971), in tal modo il narcisismo del bambino (data comunque l'incapacità di soddisfare i suoi desideri incestuosi) viene "salvato" dall'interdizione paterna che, segnando la differenza sostanziale tra generazioni (e con essa quindi i limiti del "principio di realtà"), produce altresì la speranza da parte del bambino di potere acquisire anch'egli, una volta adulto, la forza e i privilegi del padre.

Dunque, la famosa l’espressione tanto cara a Freud, “il bambino è il padre dell’uomo” (Wordsworth, 1807 [13]), sembra possedere un vero e proprio senso letterale, dato che l’ominazione (e quindi la nascita della cultura) sarebbe (anche) il prodotto di un processo regressivo (la neotenia). E se quindi, dal punto di vista biologico, la conservazione di caratteri fetali fa parte di una fenomeno inscritto nel patrimonio ereditario di una specie neotenica come la nostra, è inevitabile riscontrare conseguenze di ciò anche sul piano psichico, ossia attraverso la presenza pervasiva di una forza regressiva onnipresente (il desiderio di ritornare indietro) che si esprime come resistenza psicologica al processo di crescita (Ròheim, 1973), nel senso di adattamento dell’Io alla realtà esterna (Hartmann, 1939). Già Freud (1929) infatti parlava di uno scarto prodotto dalla cultura (o civilizzazione) tra il desiderio e la sua possibilità di realizzazione, e ancora prima Nietzsche (1878 [14]) definiva l’uomo come un animale non ancora stabilizzato, facilmente soggetto alla malattia.


L'esistenza intrauterina dell'essere umano appare, in confronto a quella della maggioranza degli animali, relativamente più breve; esso viene mandato nel mondo più incompleto di loro. L'influenza del mondo esterno reale viene perciò rafforzata, la differenziazione dell'Io dall'Es viene promossa precocemente, i pericoli del mondo esterno aumentano in significato, e il valore dell'oggetto, che da solo può proteggere contro questi pericoli e sostituire la vita intrauterina perduta, si accresce enormemente. Questo fattore biologico produce dunque le prime situazioni di pericolo e genera il bisogno di essere amati: bisogno che non abbandonerà l'uomo mai più. (Freud, 1925, p. 301)


Neotenia del cranio umano (dx) rispetto al cranio dello scimpanzè (sx). In Menarini, Neroni (2009)
Neotenia del cranio umano (dx) rispetto al cranio dello scimpanzè (sx). In Menarini, Neroni (2009)

Accenni antropologici e mitologici


Il folklore, le religioni, la letteratura, tutte confermano l'esistenza di questa fantasia; essa corrisponde a un ideale che l'uomo ha perduto, ma che non smetterà di cercare, tanto più che, pur essendo una fantasia, la rivendicazione di questo stato ideale si fonda su una realtà, un vissuto di cui è incontestabile il sostrato biologico. (Grunberger, 1989, p. 274) .


Come osserva Minois (2009), il sogno di un passato senza infelicità e sofferenza sembra antico quanto la nascita stessa dell'uomo. In una tavoletta sumerica di quattromila anni fa, è impresso nell'argilla a caratteri cuneiformi: "a quel tempo non c'erano serpenti, non c'erano scorpioni, non c'erano iene, non c'erano leoni, non c'erano cani selvaggi né lupi, non esisteva la paura né il terrore e l'uomo era senza rivali" (Kramer, 1959, p. 222 [8]). In ogni cultura passata si fa riferimento ad un'età dell'oro, un paese della Cuccagna, un giardino paradisiaco (l'Eden) fatto di pace, salute, prosperità, beatitudine e abbondanza, in cui ogni popolo colloca ciò che gli manca nel presente, ossia "l'immagine capovolta dei mali del tempo, motivo per cui cambia con il succedersi delle epoche" (ibid., p. 356).

Di fatto, tutte le saghe che narrano della ricerca del Sacro Graal (Jung, von Franz, 1960), la coppa miracolosa (il recipiente uterino per antonomasia) in grado di risanare qualsiasi ferita a chi vi attinge o di donare prosperità e saggezza a chi lo possiede, altro non rappresenta che il desiderio di riscatto e di salvezza dell'uomo decaduto in disgrazia a causa dei suoi peccati (il Re Pescatore o Re Ferito, la cui menomazione ha fatto del suo regno una "terra di desolazione"). Immagine molto simile a quella della cornucopia appartenente alla mitologia greca (il corno dell'abbondanza riempito di fiori e delizie), o del calderone colmo di monete d'oro della cultura celtica: ossia di nuovo il vaso (il femminile) come diretto rappresentante simbolico (significante) della nostalgia uterina.

E, come descritto da Bachelard (1942), l'acqua è forse l'elemento che simbolicamente racchiude meglio la valenza ambigua del "femminile", il mysterium tremendum che richiama direttamente il paradiso perduto: essa infatti può essere la pura, chiara, rinfrescante, ridente acqua primaverile dei fiumi che culla, lava e disseta (l'acqua come latte materno), l'acqua suadente e affascinante dei laghi incantanti (dai quali la mitologia fa spuntare sempre ninfe e dame di rara bellezza)... ma anche l'acqua "triste e oscura, che trasmette strani mormorii funebri" (p.59), quella immobile e dotata di un "richiamo tragico" in cui precipita Ofelia, l'acqua torbida dello Stige su cui Caronte traghetta le anime dei dannati... sicuramente abbinata all'oscurità l'acqua provoca un profondo sentimento perturbante (l'ambiente intrauterino). Dunque l'acqua, nella sua duplice simbologia di vita e di morte, rispecchia l'intensa ambivalenza verso il grembo materno, desiderio di ritorno assieme al terrore di venirne inghiottiti (e con esso la dissoluzione dell'identità).


All'età dell'oro corrisponderebbe non solo l'assenza di dolore, ma anche la garanzia della permanenza, la simultanea assenza di timore e di speranza, vale a dire di incertezza. La speranza, d'altronde fa parte dei mali contenuti nel vaso di Pandora; è il segno di una mancanza, dunque di una sofferenza. Durante l'età dell'oro, allorchè regna la pienezza, non c'è nulla da temere o da sperare. (Minois, 2009, p. 27)


Anche secondo Eliade (1957) il mito paradisiaco è riscontrabile ovunque nelle varie culture di ogni tempo, a cominciare dall'idea di una completa armonia tra l'uomo e una natura ordinata e ragionevole in cui non esistono lotte per la sopravvivenza: "si è in diritto di supporre che il ricordo mitico di una beatitudine senza storia assilli l'umanità fin dal momento in cui l'uomo ha preso coscienza della sua situazione nel cosmo" (p. 93).

Ad esempio, questo autore ha descritto un mito ricorrente tra i popoli africani che narra di un'epoca in cui non si conosceva né malattia né lavoro (perché il cibo veniva colto dalla natura senza alcuna fatica), gli uomini vivevano ancora in comunione con gli animali e il cielo, toccandosi con la terra (come Urano e Gea), poteva essere facilmente raggiunto arrampicandosi su un albero (proprio come nelle nostre fiabe). E, secondo Eliade, è sempre questo archetipo che nel corso della storia ha spinto tutti i popoli a ricercare questo paese edenico, miraggio di una felicità primordiale, sempre al di fuori del proprio: ad esempio i navigatori del XVI secolo erano soliti rischiare la vita spingendosi "alla cieca" oltre i confini disegnati dalle loro mappe, al sol scopo di trovare le leggendarie isole Fortunate o isole dei Beati, Eldorado.

Una reviviscenza di tale leitmotiv appare anche nel mito del buon selvaggio (basti pensare a Rousseau e a tutte quelle correnti filosofiche che vedono l'uomo come sostanzialmente "buono" ma corrotto dall'ambiente sociale), ossia nell'idealizzazione dell'uomo "naturale" ancora incontaminato dalle crudeltà e dalle brutture della civiltà, che viveva completamente felice "in seno a una Natura materna e generosa" (ibid., p. 39). D'altronde, in ogni tempo la natura esotica (il mito polinesiano) non ha mai perso il potere di accogliere le proiezioni dell'uomo civile attraverso le sue seducenti immagini paradisiache: "le isole, i paesaggi dei Tropici, la beatitudine della nudità, la bellezza delle donne indigene, la libertà sessuale, e così via." (ibid., p. 40)


Rohèim (1973) ha riportato come gran parte di tutta la dimensione rituale delle culture primitive ruoti attorno alla discesa e all'ascensione del grembo materno (rituali di immersione ed emersione), con frequenti simbolismi del parto (rituali di genesi, di morte e di resurrezione): questi non sarebbero altro che drammatizzazioni di tale situazione attraverso simulazioni simboliche dell'entrare, cadere, mescolarsi, scendere, per poi "volare", uscire, arrampicarsi, salire. D'altronde, quasi tutte le antropogonie (e quindi anche le cosmogonie in quanto proiezioni, dove ricorre il ciclo di vita-morte-rinascita) costituiscono spiegazioni di come l'uomo sia emerso alla superficie dal grembo della Madre Terra (Eliade, 1957): "il ricordo oscuro di una pre-esistenza nel grembo della Terra [...] ha creato nell'uomo un sentimento di parentela cosmica con l'ambiente che lo circonda; si potrebbe addirittura dire che, per un certo tempo, l'uomo non aveva tanto la coscienza della sua appartenenza alla specie umana quanto il sentimento di una partecipazione cosmo-biologica alla vita del suo ambiente" (ibid., p. 212). Ad esempio, per molti popoli il calar della notte acquista il senso antropomorfico del sole che rientra nel ventre materno (Rank, 1928); presso la cultura sciamanica degli indiani d'America (ma anche tra le culture celtiche o tra i preispanici della Mesoamerica) era diffusissima la cerimonia Inipi (o Temazcal), ossia il rito dell'ingresso nella "capanna sudatoria" (o della depurazione), che, simulando l'ambiente uterino attraverso il buio e il vapore generato da acqua versata su pietre roventi, doveva rigenerare l'individuo attraverso una nuova nascita (l'uscita dalla capanna).


Infine, in senso lato, tutta la mitologia dell'Eroe, che descrive in modo ricorrente il viaggio di colui che si spinge nel regno dei morti, affrontando mille peripezie e immani imprese, per poi ritornare in superficie vivo e "trasformato" (Campbell, 1949), altro non rappresenta che la seconda nascita dell'uomo ("l'individuazione" junghiana). L'Eroe infatti, dopo aver attraversato gli abissi reconditi del proprio inconscio (l'Ombra) e dopo aver affrontato e integrato i suoi "mostri" (i fantasmi del passato, il richiamo tanto irresistibile quanto letale delle "sirene" della nostalgia uterina), riesce a giungere infine ad uno stato superiore di sè (le "chiavi" della conoscenza). Impresa che si può dire sia già stata tentata a suo tempo dal bambino e che si ripropone in termini di mito o di leggenda nelle proiezioni fantasmatiche dell'uomo adulto (che attribuisce all'eroe la propria vita infantile inconscia). Rank (1909) ha infatti osservato come vi siano lineamenti essenzialmente comuni in tutti i grandi eroi (Gesù, Mosè, Sigfrido, Lohengrin, Edipo, Paride, Perseo, Gilgamesh, Sargon...), caratterizzanti la vita psichica del bambino (la stirpe nobile dell'eroe come proiezione della fantasia infantile del romanzo famigliare, la nascita come abbandono del neonato in un recipiente nell'acqua, la forte ambivalenza proiettata verso i genitori "tiranni", la degradazione della madre-donna a sola "nutrice animale" che si prende cura del l'infante abbandonato...)


Epoche lontanissime esercitano una grande, spesso enigmatica attrazione sulla fantasia degli uomini. Ogni qual volta questi sono scontenti del loro presente - e lo sono abbastanza spesso - si volgono indietro al passato, sperando di trovarvi finalmente avverato il sogno mai estinto di un'età dell'oro. E' probabile che continuino a trovarsi sotto l'incanto della loro infanzia, che è in loro rispecchiata da un ricordo non imparziale come un'epoca di indisturbata beatitudine. (Freud, 1939, p. 394)


L'età dell'oro, Lucas Cranach il Vecchio (1530)
L'età dell'oro, Lucas Cranach il Vecchio (1530)

Spunti artistici e filosofici


Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. (Leopardi, 1821, p. 2242 [9])


Come è accaduto ad altri termini medici che sono stati abbandonati nel settore entrando a far parte del vocabolario di uso comune, la "nostalgia" è stata spessa abbracciata da poeti e autori che ne hanno descritto le varie sfumature e le strette connessioni: con la malinconia (lo spleen di Baudelaire), con la memoria (la réverie di Proust), con la noia (Flaubert, Moravia, Sartre), con il vago, l'indefinito, la ricordanza (Leopardi, Carducci), con la Sehnsucht del romanticismo evocata dai suoi scenari tipici (le rovine, il chiaro di luna e i paesaggi sconfinati), con la nausea (Schopenhauer, Cèline, Cioran), con l'esilio (Ovidio, Dante, Hugo), con l'inquietudine (Pessoa, Chatwin, Musil), con la saudade (Marquez, Tabucchi), con il languore (l'attesa dell'uomo religioso che attende la salvezza divina), con la decadenza (Wilde, D'Annunzio), con la disfatta, il desiderio di riscatto e di redenzione (i personaggi del "sottosuolo" dostoevskiano), con il disio (il dolce stil novo, la lirica trobadorica), con la rivolta (la beat generation).

L'emblema della nostalgia è comunque sempre rappresentato dall'irrequietezza e dall'erranza perenne del viandante (il Wanderer solitario), ossia dallo stato esule dell'apolide (il senza patria) che "è dovunque e da nessuna parte" (Jankélevitch, 1974, in Prete, 2018) perchè ha perduto la propria "dimora", e dunque non appartiene più a nessuna terra, se non alle "nuvole" (come l'Etranger di Baudelaire). L'arte stessa nasce da questa "fascinazione del lontano" (Prete, 2018, p. 19) e la poesia incarna dunque la voce di questa assenza tormentosa, non a caso definita "malattia mortale" (Kierkegaard, 1849 [9]) o "malattia dell'anima" (Tarkovskij, dal film Nostalghia del 1983). In altri termini, è proprio la poesia che "dischiude il colloquio con quel che più non c'è. Pensa contro l'oblio. La poesia ha contribuito a trasformare la nostalgia da malattia a sentimento. Perchè ha mostrato come il desiderio del ritorno può essere liberato dalla sua condanna all'impossibile, può trasformarsi in un'efflorescenza di immagini, in un'animazione di parvenze" (Prete, 2018, p. 167).


La nostalgia è un sentimento che rende il presente trasparente: non è soltanto il riflesso di qualche cosa di passato, essa permette di vivere il passato, con il presente, ciò che forzatamente arricchisce il presente. Io credo che colui che crea esprimendosi realmente attraverso la propria arte, viva sempre fra la nostalgia e il presentimento. Ed è in questo spazio impalpabile che si svolge quella operazione magica, quel miracolo che si chiama arte... (F. Fellini, 1998, in AA.VV., 1989, p. 29)

Non sarebbe azzardato affermare che senza tale sentimento nostalgico di sottofondo nell'umana esperienza, scomparirebbe dalla faccia della terra proprio tutto il meglio che l'essere umano ha creato nel corso della storia: questa mancanza incolmabile rappresenta infatti non solo una condanna ma anche una sorta di "patrimonio personale sempre disponibile" (Petrella in AA.VV., 1989, p. 141), quel quid unico caratterizzante la specie umana, che ha saputo "qualificare il vuoto" (Starobinski, 2012, p. 464) invece che pietrificarsi nel lutto. In altri termini, ciò che contraddistingue la razza umana è proprio la sua capacità di simbolizzazione: il simbolo rappresenta infatti il frutto di questo iato incolmabile con l’origine (Lewald, 1988) e, in un senso esistenziale, un tentativo per negare e superare il suo destino grottesco (Becker, 1978).

Di fatto è sempre questa memoria dell'eterno elazionale a fare della morte e della caducità umana il il problema centrale di quelle impalcature filosofiche (a partire dai greci fino all'Esistenzialismo) che hanno tentato di spiegare l'intero agire umano come un tentativo di fugare e di "rifiutare la morte" (Becker, 1973) o, in termini psicoanalitici, di evitare la separazione e l'individuazione (Mahler et al., 1973). Basti pensare a tutta la simbologia attorno alla morte: la sepoltura come riconsegna del corpo alla Madre Terra, il sarcofago come ambiente chiuso e contenitivo, le tombe scavate all'interno di tronchi d'albero, la necessità di giacere da morti presso la propria patria... tutto ciò riproduce l'antica situazione, il "suolo natale" (Eliade, 1957, p.212) in cui, dopo la morte, si desidera far ritorno.


Dunque l'incapacità di morire, e quindi di vivere, del genere umano incomincia alla nascita. [...] L'umanità è quella specie animale che non sa morire. Questo decisivo atteggiamento dell'animale umano è radicato nella sua biologia, è radicato nello sviluppo fetale, che secondo l'antropologia è l'elemento che poi caratterizzerà il corpo umano; è radicato nel fatto biologico del prolungamento dell'infanzia; è radicato nel corrispondente sociale di tale prolungamento, la famiglia umana. (Brown, 1959, p. 355)


Friedrich C. (1818), Il viandante nella nebbia (dettaglio)
Friedrich C. (1818), Il viandante nella nebbia (dettaglio)

Conclusioni


Lo sviluppo dell'Io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e dà luogo a un intenso sforzo inteso a recuperarlo. (Freud, 1914, p. 470)


Se dunque nell'inconscio alberga questa spinta universale irrinunciabile, "cesura e sutura col passato" (Gaburri, in: AA.VV. 1989, p. 148) che fa dell'origine anche la meta (Prete, 2018), scopo ultimo di tutte le aspirazioni umane (Balint, 1952), allora la forza che condanna l’uomo alla sua rovinosa autodistruzione (come accade nella psicopatologia) è la medesima che funge da energia vitale, creativa e generatrice, costituendo quindi “un crinale apparentemente sottile che separa esperienze benefiche, nutritive, felicemente fusionali, da agonie di cadute vertiginose senza fine” (Masina in: AA.VV, 2018).

In tal senso allora, essendo la direzione sempre una, da un punto di vista metapsicologico si possono intendere le due pulsioni fondamentali descritte da Freud (1920) come due modalità diverse attraverso cui la persona insegue tale fine (a seconda cioè di come l'Io si posiziona nei confronti dell'inconscio).

Quindi coniugando tale anelito con i limiti, le rinunce e gli inevitabili compromessi della realtà, ossia fondandosi sulla genitalità (Balint, 1952), sulla sublimazione (Loewald, 1988) e quindi sul gioco (Winnicott, 1971), oppure opponendosi alacremente a tale perdita elazionale attraverso la “diserzione” delle varie forme della psicopatologia, che rappresentano una sorta di rincorsa verso una quiete che si oppone al "perpetuo agitarsi della materia vivente" (Carloni in Roheim, 1973, p. 8). In altri termini, seguendo Eros, la progressione della pulsione di Vita che vuole integrare e tenere unito il caos e gli opposti (tollerando quindi la tensione), fondata sul desiderio (che per tautologia non si estingue mai) e sulla spinta biofila (Fromm, 1964) versata alla creatività; oppure inseguendo Thanatos, la pulsione di Morte che separa, disintegra e ambisce alla quiete eterna dell'inorganico (l'estinzione della tensione), basata sulla spinta necrofila (Fromm, 1964) che affonda le radici nell’indifferenziazione della simbiosi mortifera e nella distruttività (in cui ad essere erotizzata è la morte stessa).


La nostalgia dunque, con la sua fascinazione dell'età dell'oro, può far ammorbare l’uomo rendendolo sempre in attesa di qualcosa (Beckett, 1988 [12]), incapace di resistere alla tentazione di volgere lo sguardo indietro (come Orfeo durante la salita agli inferi), dove il registro dell'illusione prende il posto del simbolico e il passato intossica il presente col desiderio chimerico di “resuscitare la presenza in carne e ossa” (Jankélevitch, 1974, p. 149, in: Prete, 2018) e sanare così la ferita narcisistica originaria. Oppure, la nostalgia di questo passato glorioso può diventare prezioso materiale interiore che spinge in avanti per il futuro (Chasseguet-Smirgel, 1984), come accade al bambino eracliteo che continua a giocare costruendo castelli di sabbia sulla battigia, nonostante l'arrivo improvviso delle onde (Nietzsche, 1872). Il senso è che la stessa biologia (neotenica) rappresenta il destino entro cui può muoversi il libero arbitrio dell’umana coscienza, dove l’Io non può che attingere dalla sua vita infantile per ri-creare nel presente quello che ha sperimentato in passato. Non a caso l’ultima scena di 2001: Odissea nello spazio (Kubrick, 1968) rappresenta un uomo anziano che vede davanti a sè l’immagine gigante di un feto, come a stare ad indicare che l’inizio e la fine dell’esistenza umana si muovono in maniera circolare attorno a quella originaria condizione infantile.

La stessa genitalità (progressiva), come “contromossa” rispetto alla regressione uterina illustrata da Ròheim (1973) nelle sue varie analisi oniriche, sembra coincidere in buona misura con il concetto della ”regressione al servizio dell'Io” descritta da Kris (1952), sottolineando la necessità di discendere in dimensioni psichiche arcaiche a fini progressivi. Lo stesso si può dire della funzione del sogno (nella fase REM) che costituisce una “regressione neotenica (Menarini, Neroni, 2009) a scopo evolutivo, visti gli enormi vantaggi adattivi che la funzione del sogno ha rappresentato per l'homo sapiens (Nathan, 2011). E in modo analogo anche la terapia psicoanalitica continua a ricalcare il medesimo modello, creando un setting uterino che permette alla persona di abbandonarsi e discendere nelle oscurità del proprio inconscio, per poi risalire di nuovo in superficie e integrare il materiale scoperto a scopo maturativo attraverso la funzione sintetica dell'Io (Freud, 1923).

L'acme dello sviluppo umano contiene quindi la promessa di un ritorno al seno materno, cioè alla fase più arcaica dello sviluppo. E' proprio la nostalgia del nostro passato glorioso (del tempo in cui eravamo noi stessi il nostro proprio ideale) che ci spinge in avanti. (Chasseguet-Smirgel, 1984, p. 32)


Eppure l'uomo, nel quale le forze biofile e necrofile sono sempre entrambe presenti (seppure in diversa misura), non può fare altro che vestire la propria condizione umana perennemente conflittuale, dove l'intensa nostalgia dell'antica patria non smetterà mai di rappresentare per l'anima (Seele) quella dimensione contraddittoria di "paradiso perduto e minaccia di perdita dell'Io, soddisfazione eterna e morte, fascinazione e orrore." (Chasseguet, 1986, p. 91).

D'altronde, anche nell'Odissea, dove l'eroe omerico (l'avventuriero più nostalgico di tutti i tempi) brama il ritorno alla sua cara Itaca (dove lo aspetta il focolare domestico della moglie Penelope), l'indovino Tiresia gli comunicherà la profezia che, dopo il ritorno, egli dovrà subito rimettersi in viaggio, di nuovo in mare. Come a dire che in fondo non può esistere un vero e definitivo ritorno e che questa vita rimane comunque sempre un viaggio in una terra straniera, proprio come quello a cui è destinato anche il Parsifal del romanzo incompiuto di Chrétien de Troyes, il cavaliere errante votato ad una ricerca (l'irraggiungibile Graal) che non avrà mai fine.


L'uomo è un animale, eppure il suo apparato istintuale, è incompleto e insufficiente ad assicurargli la sopravvivenza se egli non produce i mezzi per soddisfare i suoi bisogni materiali, non sviluppa la favella e perfeziona gli utensili. L'uomo ha un'intelligenza, come gli altri animali, che gli consente di impiegare i processi del pensiero per il raggiungimento di scopi immediati, pratici; ma l'uomo ha un'altra qualità mentale che manca all'animale. Egli è consapevole di sè, del suo futuro, che è la morte; della sua piccolezza e impotenza; egli è consapevole degli altri in quanto altri - come amici, nemici o come stranieri. L'uomo trascende tutti gli altri essere perchè egli è, per la prima volta, la vita consapevole di se stessa. L'uomo è nella natura, soggetto alle sue leggi e ai suoi accidenti, eppure trascende la natura - come una cosa sola con essa. L'uomo è messo di fronte al pauroso conflitto di essere prigioniero della natura, eppure, di essere libero nei suoi pensieri; di essere una parte della natura, eppure, per così dire, una sua anomalia; di non essere nè qui nè lì. L'auto-coscienza umana ha fatto dell'uomo uno straniero nel mondo, separato, solitario e impaurito. (Fromm, 1964, p. 137)



Note:


[1] Hofer J. (1688). Dissertatio medica de nostalgia. in Prete, A. (2018), Nostalgia. Storia di un sentimento, Raffaello Cortina, Milano, 1992.

[2] Kant I., (1798), Antropologia dal punto di vista pragmatico, Einaudi, Torino, 2010.

[3] Bowlby J., (1951), Cure materne e salute mentale del bambino, Giunti, Firenze, 2012.

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[5] Kristeva J. (2008). Teresa, mon amour. Santa Teresa d'Avila: l'estasi come un romanzo, Donzelli, Roma, 2009.

[6] Pascal B. (1670), Pensieri, Ed. Paoline, Milano, 1987.

[7] Servier J. (1991). Storia dell'utopia. Ediz. Mediterranee, Roma, 2002.

[8] Kramer S.N. (1959). I sumeri alle radici della storia. Newton Compton, Roma, 1988.

[9] Leopardi G. (1817-1832), Zibaldone, I Meridiani, Mondadori, Milano, 1997.

[10] Kierkegaard S. (1849), La malattia mortale, Mondadori, Milano, 1991.

[11] Nietzsche F. (1872), La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 1978.

[12] Beckett S. (1952), Aspettando Godot. In Teatro. Einaudi, Torino, 1968.

[13] Wordsworth S. (1807), Poesie. Mursia Ed., Milano, 1997..

[14] Nietzsche S. (1878), Umano, troppo umano. Adelphi, Milano, 1965.


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