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"In un mondo senza malinconia gli usignoli si metterebbero a ruttare." E. Cioran - Sillogismi dell'amarezza (1952)
Della melanconia o malinconia o depressione se ne parla fin dall'alba dei tempi, a cominciare dai primi documenti scritti nelle culture più antiche del genere umano; si deve però alla Grecia classica del V secolo a.C. con Ippocrate il termine melancolia, nell'accezione di un eccesso di "bile nera" che invadendo il sangue agirebbe sul corpo e sull'anima portando ad uno stato di tristezza e abbattimento.
Ma se a partire da Kierkegaard [16,] e più tardi grazie a tutta la corrente filosofica dell'Esistenzialismo, lo stato di sconforto derivante dalla perdita di senso esistenziale è diventato il fondamento della condizione umana, sarà Freud ad accostare intimamente la depressione con l'"Hiflosigkeit", ossia lo stato originario di "bisogno di aiuto" nell'infante che, totalmente impotente e incapace di sopravvivere senza aiuto esterno (l'apporto costante del genitore), rivela nella sua accezione biologica ed esistenziale un feroce bisogno di essere amato che non abbandonerà mai più l'uomo, il cui primo soddisfacimento imprimerà un ricordo nostalgico permanente che verrà ricercato ardentemente per tutto il resto della vita.
Come si vedrà in seguito, la condizione depressiva può essere considerata come lo svelamento più macroscopico di una "ferita fondamentale" dell'essere umano, da cui, nel tentativo di farvi fronte, scaturisce tutta l'esperienza simbolica dell'arte, della cultura, della religione... e, in modo un pò maldestro, ogni malattia mentale. Insomma "una mancanza che si apre su una dimensione inquietante e però forse universale della nostra mente" (Jervis, 2002, p.8), dotata di un significato ben preciso che necessita di un ascolto attento e di una risposta essenziale, ben diversa da quella proposta dalla nostra cultura che, continuando a pensare alla depressione come ad un batterio patogeno esterno che invade un organismo totalmente passivo, tenta goffamente di scacciarla attraverso le sue inefficaci "pillole della felicità" (per approfondimenti...).
Indice:
- La risposta depressiva e gli affetti annessi
- Considerazioni biologiche
- Aspetti evolutivi
- Il lutto, analogie etologiche e depressione
- Le sfaccettature della sindrome depressiva nei suoi risvolti psicopatologici
- Il suicidio
- Eziopatogenesi
- La condizione esistenziale dell'"Homo nostalgicus"
- Riferimenti bibliografici
- Suggerimenti filmografici
La risposta depressiva e gli affetti annessi
"Il tedio... pensare senza che si pensi, con la stanchezza di pensare; sentire senza che si senta, con l'angoscia del sentire; non volere senza che si voglia, con la nausea di non volere: tutto questo sta nel tedio senza che ciò sia il tedio, e del tedio è soltanto una parafrasi o una traslazione. Consiste in una sensazione diretta, come se sopra il fossato del castello dell'anima si alzasse il ponte levatoio e fra il castello e le terre circostanti restasse il poterle guardare senza poterle percorrere. E' un isolamento di noi in noi stessi, ma un isolamento dove ciò che separa è stagnante come lo siamo noi: acqua sporca che circonda la nostra impossibilità di capire." F. Pessoa (1982), Il libro dell'inquietudine
La reazione depressiva è una risposta al dolore caratterizzata da uno stato di impotenza riguardo alla capacità di far fronte all'esperienza della perdita, che riguardi un oggetto amato (il lutto), un particolare aspetto di sè o del mondo esterno di alto valore narcisistico.
Come sottolineato da Minkowski (1933) [14], la depressione è la "malattia del tempo" in cui la persona, immobile nel tempo congelato del passato, diventa incapace di percepire l'orizzonte di un futuro dove, senza più alcuna speranza, la perdita subita viene avvertita come definitiva e irrecuperabile.
Com'è risaputo, da un punto di vista clinico la risposta depressiva può manifestarsi con alterazioni timiche (umorali), libidiche (incapacità di investire il mondo oggettuale), affettive (anedonia, abulia, apatia), energetiche (astenia), cognitive (distorsioni delle rappresentazioni di sè e degli oggetti), comportamentali (inibizione e inattività), vegetative (disturbi del sonno - soprattutto sul finire della notte -, anomalie del comportamento alimentare), somatiche (costrizioni cervicali e toraciche, cefalee, vertigini, disturbi del ritmo cardiaco o gastroenterici, dolori diffusi...), e in certi casi, percettive (depersonalizzazione e derealizzazione). Di solito gli aspetti più vistosi del quadro depressivo sono gli affetti depressivi che si declinano attorno alla tristezza (nostalgia, noia, anestesia affettiva, rimorso, disinteresse, vuoto...) e il rallentamento motorio e ideico (nell'andatura, nel pensiero, nei movimenti, nella mimica...).
Per quanto anche in situazioni normali l'umore sia soggetto a fluttuazioni temporanee derivanti dalle più svariate cause, la sua marcata e persistente alterazione è la tinta "nera" che colora in modo uniforme percezioni, pensieri e azioni, così forte da riuscire a cambiare le rappresentazioni di Sè e del mondo circostante (trasferendo cioè la qualità dell'esperienza emotiva su tutti gli oggetti e le esperienze esterne): "quanto più è grave la patologia dell'umore, tanto più sono limitate e scarsamente variate la gamma affettiva e le gradazioni emotive" (Jacobson, 1971, p. 97).
Se la costellazione degli affetti depressivi è variegata e descritta come "dispiacere, afflizione, desolazione, tormento, pena, tristezza e poi noia, fatica, stanchezza, tetraggine, spleen, languore, nostalgia, vuoto, disgusto, disperazione, malinconia" (Haynal, 1976, p.29), ovviamente la sola tristezza, che rappresenta una delle diverse risposte emotive dinanzi al dolore, per quanto possa avere un effetto depressiogeno, non equivale affatto alla depressione, benchè questa possa comprenderla largamente: possono infatti esistere grandi dolori, intense frustrazioni e momenti di scoramento senza tuttavia essere seguiti da risposte depressive.
Da un punto di vista psicodinamico, si potrebbe descrivere la risposta depressiva come l'impossibilità da parte della persona di investire le proprie pulsioni (libidiche e aggressive) sul mondo circostante: ossia "l'incapacità di potere amare" (Abraham, 1912) e di potere rivolgere l'aggressività al di fuori del proprio mondo interno. Come se tra la persona e il mondo circostante avvenisse "una rottura, una faglia, una profonda carenza del legame con il mondo e al tempo stessa una insostenibile solitudine: è il dolore del desiderio ormai irrealizzabile [...]" (Kaes, 2005, p.185)
La reazione depressiva, che "ci fa provare nel suo punto più alto il dramma di essere privi di risorse" (Kaes, 2005, p.182), rappresenta in ultima istanza la riacutizzazione di una ferita narcisistica passata mai rimarginata, così che ogni evento simbolicamente associato continua a conservare il pericolo (l'angoscia depressiva) che possa ripresentarsi lo stesso dolore della perdita originaria.
"Piccole delusioni, perdite, o avvenimenti accidentali, che portano il paziente all'autoaccusa, alla colpa o alla depressione grave, sono in realtà dei simboli di una delusione più precoce e più grande, o di una delusione di tutta la vita." (Arieti, 1978, p. 177)
Considerazioni biologiche
"In principio si dipende dalla madre in modo assoluto, poi, sino alla tomba, in modo relativo." M. Mahler
La risposta depressiva è parte del repertorio biologico delle risposte innate a disposizione dell'essere umano e si presenta primariamente durante l'esperienza di assenza o di separazione nella relazione con l'oggetto materno.
Spitz (1958), durante l'attività clinica in orfanotrofio, ha osservato in modo clamoroso gli effetti della deprivazione precoce nel momento in cui il neonato non ha più a disposizione la presenza della madre durante il primo anno di vita: se inizialmente i bambini opponevano alla mancanza un comportamento fortemente concitato e piagnucoloso (con la tendenza a mettere in bocca qualsiasi cosa e tenervela), gradualmente essi giungevano ad un ritiro (schizoide) sempre più intenso rispetto al mondo esterno ("pianti muti" con lacrime, disinteresse e rifiuto di partecipazione agli stimoli offerti), fino ad arrivare ad una perdita progressiva delle funzioni cognitive (ritardi o idiozie agitate), fisiologiche (perdita di appetito e di peso, insonnia, maggiore vulnerabilità a malattie fisiche), espressive (catatonia stuporosa accompagnato in alcuni casi da attività autoerotiche), e, nelle forme più gravi, giungendo alla morte (di origine cachettica). Tuttavia, se l'oggetto (la madre) ritornava (o veniva sostituita da un adeguato caregiver) entro un periodo di tre mesi al massimo, i bambini recuperavano (se non totalmente) una buona parte del funzionamento normale antecedente alla separazione. Spitz raggruppò questa serie di manifestazioni nel bambino sotto il nome di "depressione anaclitica", in opposizione al tipo di depressione - introiettiva - dell'adulto.
"[il lattante] non può ancora distinguere la mancanza temporanea dalla perdita duratura; se una volta non riceve l'impressione del viso della madre, si comporta come se non dovesse rivederla mai più, e ha bisogno di ripetute esperienze rassicuranti per imparare che questo sparire della madre suole seguire la sua ricomparsa." (Freud, 1925, p. 314)
Da un punto di vista evoluzionistico la risposta depressiva possiede un forte aspetto comunicativo che implica una richiesta d'aiuto in grado di sollecitare nella madre reazioni immediate di cura (determinate biologicamente) atte a preservare l'attaccamento (e quindi la sopravvivenza del cucciolo). In tale prospettiva dunque l'angoscia e la risposta depressiva potrebbero rappresentare i corrispettivi psichici delle reazioni di lotta o fuga dinanzi al pericolo esterno: se l'angoscia (e il suo segnale-derivato, l'ansia) rispecchia una mobilitazione mentale (la lotta) immediata per far fronte alle tensioni e ai pericoli interni, il ripiegamento depressivo rappresenterebbe un meccanismo di protezione di ritirata (fuga) utilizzato quando la persona non dispone più delle energie per lottare ("quando ogni altro esito è precluso, l'animale al pari dell'uomo impara a ritirarsi invece di fuggire o di combattere", Kristeva, 1987, p. 38).
Nella depressione infatti "l'Io è paralizzato poichè si sente incapace di affrontare il pericolo" (Bibring, 1953 in Gayling 1968, p.124), sviluppando una sorta di difesa contro gli stimoli della "violenza del vivente" (Chabert, 2005, p.50): si può intendere la stessa paralisi psichica tipica della depressione come un meccanismo utilizzato per sottrarsi alle sollecitazioni eccessive dell'ambiente esterno e per richiamare quindi un abbisogno narcisistico attraverso uno stato di passività che crei "uno stato d'eccitazione da parte dell'altro" (ibid.).
Così, ai fini della sopravvivenza, la risposta depressiva rappresenta una reazione adattiva, un appello d'aiuto rivolto all'esterno, "un alto disperato grido d'amore" (Rado, in in Gaylin, 1968) per rimediare ad uno stato di assoluta necessità nella stessa maniera in cui il pianto e le grida del bambino richiamavano in soccorso la madre nel momento del bisogno.
Inoltre si può ipotizzare che la stessa natura fragile e bisognosa dell'essere umano (di cui l'affetto depressivo ne è il portavoce) costituisca anche una forte spinta alla coesione sociale e alla formazione di gruppi in grado di fornire maggiore fitness e sicurezza alla specie (a partire dal clan, la tribù, la famiglia), oltre a rappresentare generalmente la base del sentimento di solidarietà.
Aspetti evolutivi
"Dal momento che il cambiamento esterno e la perdita di stati interiori successivi fanno necessariamente parte del processo di ogni evoluzione, la disperazione non accompagna forse sempre e comunque la maturazione dell'uomo?" A. Haynal (1976, p. 117)
Tutta la crescita del bambino è costituita da una serie di amare perdite e di graduali delusioni che possono venire affrontate solo grazie all'amore, alla sicurezza e alla fiducia verso i genitori che, attraverso l'educazione, alimentano la promessa e la speranza che quello che egli guadagnerà in futuro potrà compensare le rinunce, la fatica e i sacrifici compiuti. Infatti la spinta verso l'indipendenza (e quindi l'acquisizione di abilità, funzioni e risorse) è biologicamente primaria quanto quella rivolta alla dipendenza: tale processo è inoltre facilitato dall'insieme di introiezioni degli aspetti oggettuali "buoni" che permettono al bambino di ridurre gradualmente la dipendenza dai genitori. Come ha sottolineato più volte Freud, è dunque per mezzo dell'identificazione (una modalità relazionale narcisistica) che il bambino è in grado di superare la perdita e "fare propri" gli oggetti esterni trasformandoli in parti costituenti di sè nella formazione della propria identità. Se dunque tutto il processo della crescita implica inevitabilmente dei continui cambiamenti (e quindi altrettante perdite), si può intendere il grado di sanità o di psicopatologia futura come l'esito complessivo dell'elaborazione di tali lutti affrontati, in cui la personalità dell'adulto costituirà in buona parte il "precipitato degli oggetti abbandonati interiorizzati" (Haynal, 1976, p.62). Tutto lo sviluppo dell'essere umano si basa di fatto su ciò che Hegel [19] chiamava un "lavoro del negativo": il mancato compimento delle varie frustrazioni evolutive (differenziazione, separazione, castrazione...) necessarie all'individuazione graduale del bambino accompagnerà l'adulto nelle sue forme psicopatologiche.
"Vivere implica necessariamente passare attraverso una successione di lutti. La crescita di per se stessa, il passaggio da una fase all'altra, comportano la perdita di certi atteggiamenti, modalità e relazioni che, pur venendo sostituiti da altri, più maturi, colpiscono l'Io come processi di lutto che non sempre sono sufficientemente elaborati." (Grinberg, 1971, p. 184)
Allo stesso modo, i grandi momenti di cambiamento nella vita che costituiscono un periodo transizionale dello sviluppo (l'adolescenza, la mezza età, l'anzianità, l'insorgere di una grave malattia, la genitorialità...) rappresentano sempre momenti di crisi (in cui inevitabilmente è in gioco una perdita narcisistica importante) in grado di mobilitare affetti depressivi latenti e innescare quindi deviazioni psicopatologìche (le cosiddette depressioni reattive). Infatti la base inconscia in questi momenti di crisi ha a che fare con il problema della propria identità e con la perdita di tutto ciò che la persona non potrà più avere o vivere con l'entrata nella nuova "fase": soprattutto la crisi di mezza età (e più tardi il periodo della senescenza) pone alla persona il problema della morte (e quindi la limitatezza del tempo che obbliga a fare un bilancio tra le occasioni perdute e quelle ancora possibili) come un fatto personale e reale e non soltanto come una mera astrazione del possibile (Yalom, 1980 [23]).
Inoltre qualsiasi cambiamento in grado di minacciare la sicurezza di un legame oggettuale (per quanto precario, patologico o illusorio possa essere) o qualcosa d'importante del proprio Sè, è in grado di mobilitare angosce depressive onnipresenti che rappresentano tra i più forti fattori di omeostasi psichica nella conservazione di aspetti e modalità relazionali dell'Io (coazione a ripetere): la stessa psicoterapia psicoanalitica, che permette la possibilità di una riorganizzazione strutturale della persona, si scontra continuamente con fortissime resistenze al cambiamento (per quanto le vecchie configurazioni possano essere disfunzionali, nocive e distruttive per lo stesso individuo).
"Un determinato progetto che non si realizza, un sogno che non si ricorda, un'aspirazione insoddisfatta, un'incomprensione, un viaggio, un cambiamento, ogni genere di frustrazione in cui può essere coinvolto un aspetto del Sè, sono alcuni dei molteplici fattori che quotidianamente scatenano microreazioni depressive, così come anche passeggere minacce allo stato d'identità. La loro favorevole risoluzione, come processi lievi, o la loro trasformazione in più gravi depressioni, dipenderà dal mondo in cui sono state risolte le depressioni equivalenti nei primi stadi della vita." (Grinberg, 1971, p. 211)
Il lutto, analogie etologiche e depressione
"Ciò che non possiamo sopportare in realtà non è insopportabile di per sè. Ciò che non possiamo sopportare è che ci venga strappato via l'oggetto esterno. Rimasti denudati vediamo l'intollerabile abisso di noi stessi" S. Kierkegaard, "La malattia mortale" (1849)
Il lutto è l'esempio più eclatante della risposta depressiva "semplice" (una depressione in forma compensata, una malattia nella sua forma benigna) in seguito alla perdita di una persona amata o di "un'astrazione che ne ha preso il posto" (Freud, 1917, p. 103), in cui il soggetto si trova dinanzi ad un conflitto psichico che è fonte di dolore: l'illusione che l'oggetto sussista ancora e la realtà della sua scomparsa.
Osservando le reazioni al lutto, Bowlby (1961, in Gaylin, 1968) ha descritto 3 fasi (non per forza lineari): la prima costituita da una forte protesta, una struggente ribellione (concentrata in negazione e collera) contro l'angoscia da separazione, la seconda da un'inconsolabile tristezza che sfocia in disperazione (una volta in cui sono svanite le speranze di riunione), e la terza dal distacco, il ritiro dell'investimento dall'oggetto perduto.
Anche nei suoi studi etologici Bowlby ha rilevato una forte congruenza tra le risposte umane e quelle osservate nelle scimmie antropoidi, in alcune specie di mammiferi inferiori (come nel cane) e in certi tipi di uccelli, a seguito della morte del "partner" o di un membro della prole: un pattern comportamentale disorganizzato costituito da sforzi forsennati nel tentativo di recuperare l'oggetto perduto, un incremento dell'ostilità e di atteggiamenti aggressivi, seguiti o accompagnati da ritiro, apatia, forte abbattimento, rifiuto di nuovi stimoli esterni. Che l'aggressività venga mobilitata all'inizio della percezione dell'impotenza (l'angoscia depressiva) è cosa evidente: nel cucciolo, quando l'oggetto materno minaccia la separazione a seguito di qualche pericolo esterno, il pianto rabbioso del bambino rappresenta uno sforzo atto a segnalare la propria presenza e conservare così il legame d'oggetto (aumentando quindi le possibilità di sopravvivenza).
Anche i vari esperimenti condotti da Harlow con le scimmie Rhesus sembrano confermare il fatto che la reazione depressiva giunga a seguito dell'impossibilità di riuscire a modificare una situazione particolarmente penosa e impossibile da risolvere, rendendo l'animale privo di "soluzioni": dopo infatti vari tentativi e le tipiche manifestazioni di protesta, gradualmente esso cessa di agire sul mondo esterno per ritirarsi inerte in se stesso.
Qual è allora la differenza tra lutto e depressione patologica?
Contrariamente ai risvolti patologici della depressione, il lutto solitamente possiede una "causa" facilmente rinvenibile e tende a seguire manifestazioni regolari: in altre parole il lutto di norma possiede una sua comprensibilità e si conclude con il passaggio (seppur a volte molto lento e faticoso) al piano dell'accettazione della realtà, in cui gradualmente la vita torna a suscitare di nuovo interesse. Dunque, diversamente dalla risposta depressiva patologica che ha qualcosa di eccessivo e di incongruo rispetto all'evento precipitante, il normale lutto, per quanto possa essere doloroso, talvolta anche dolorosissimo, possiede comunque una durata limitata.
Fenichel (1945) vedeva nel lutto un processo atto a proteggere la persona dall'eccessivo impatto affettivo, permettendo di vivere gradualmente l'elaborazione affettiva del trauma causato dalla perdita: d'altronde lo stesso Proust (1913) [15], con la sua opera magistrale, non ha fatto altro che sottolineare come nessuna esperienza umana evidenzi con tanta violenza il peso del tempo come il lento e faticoso lavoro del lutto.
Eppure, dato che "l'esperienza e il funzionamento della memoria umana sono legati all'introiezione" (Haynal, 1976, p. 109), anche il lutto verrà elaborato in buona parte grazie all'introiezione di alcuni aspetti dell'oggetto perduto (è solito infatti riscontrare nel vedovo comportamenti e atteggiamenti che erano tipici del coniuge deceduto). In altre parole, al termine del lutto la persona deceduta continua a vivere come una parte del Sè integrata al soggetto, permettendogli però di tornare a reinvestire nel mondo esterno (cosa che il melanconico non sarà capace di fare, instaurando internamente una continua lotta per conservare il legame con l'oggetto perduto).
Invece, se è vero che la depressione assomiglia per molti aspetti al normale processo di lutto, essa si differenzia per la sua durata indefinita, per la particolare carica d'aggressività di toni masochistici (attraverso le svalutazioni, le accuse e gli aspri rimproveri rivolti verso il proprio Sè) e per il fatto che "spesso egli [il depresso] sa quale oggetto ha perduto, ma non sa quel che perduto in tale oggetto" (Widlocher, 1973, p. 73), ossia l'esatta valenza (inconscia) della perdita subita (il suo valore simbolico). Lo stesso umore nel depresso il più delle volte non è appropriato alla realtà interna o esterna di quel dato momento o non viene riconosciuto come uno stato temporaneo a seguito di qualche evento concreto.
Inoltre solitamente nel normale lutto, nonostante la prostrazione, la persona conserva comunque, per quanto sbiaditi, desideri, risorse, piccoli surrogati, la capacità di godere di qualche minimo piacere e in generale la sensazione che la vita valga ancora la pena di essere vissuta: cosa che il vero depresso non è più in grado di fare, non vedendo più alcun motivo (interno o esterno) per risollevarsi in quanto assolutamente nulla sembra potergli donare il minimo sollievo.
Infine, per quanto l'ambivalenza (provare una certa quantità d'odio per la persona amata) sia una qualità irriducibile dell'essere umano, per cui non è raro constatare anche nel normale lutto una certa quota di colpevolezza, ambivalenza, conflitto e idealizzazione del sopravvissuto, tuttavia generalmente "la persona, sebbene affranta e infranta, conserva la sua unità nel dolore" (Lopez, 2003, p.18), ossia non manifesta regressioni strutturali.
Inoltre è da ricordare che maggiori erano le parti del Sè che venivano collocate nell'oggetto perduto (identificazione proiettiva), maggiori saranno le probabilità di scompenso e di risposte patologiche a seguito del lutto, in quanto la persona perderà, assieme all'oggetto, qualcosa di fondamentale importanza per il proprio Sè e la propria identità (il più delle volte inconscio, e quindi rendendo assai gravosa e complicata l'elaborazione del lutto).
"La persona in lutto si sente in colpa per essere sopravvissuta allo scomparso, per non avere impedito la sua morte, o più frequentemente perchè pensa di averla desiderata. Tale desiderio può essere stato soltanto inconscio, ma la tristezza è un'espiazione della colpa." (Arieti, 1978, p. 149)
Le sfaccettature della sindrome depressiva nei suoi risvolti psicopatologici
(...) Sono rimasto per tanti giorni, per tanti anni, seduto a non pensare a niente, o a tutto, sprofondato nell'infinito che volevo abbracciare, e che invece mi divorava! (...) Perchè mai, così giovane, c'è in me tanta amarezza? Chissà Forse era scritto nel mio destino che vivessi così, spossato prima ancora di aver portato il fardello, ansimante prima di aver corso." G. Flaubert - Memorie di un pazzo (1835)
In un certo senso tutta la psicopatologia si può considerare come l'esito di un insieme di lutti non elaborati, la cui entità si palesa attraverso gli effetti patologici sulla personalità e con le modalità più o meno primitive (difese antidepressive) con cui la persona ha imparato ad "affrontare" tali traumi. Ecco perchè la clinica della depressione comprende un vasto ventaglio di manifestazioni polimorfe che vanno dalla cosiddetta "normalità" (di cui il lutto ne è il diretto rappresentante) agli stati psicotici (unipolari o maniaco-depressivi, oggi denominati bipolari), attraversando forme lievi di depressione in cui la persona conserva comunque le sue funzioni professionali e le sue capacità relazionali, a forme molto gravi dove ha luogo una destrutturazione della mente e una paralisi delle funzioni della persona.
La depressione nella sua accezione psicopatologica è dunque una deviazione o un'esagerazione di una risposta depressiva alla perdita, che ha perso efficacia nel suo valore adattivo originario con l'ingresso nella cosiddetta vita adulta. Inoltre quanto più l'affetto depressivo non può essere adeguatamente elaborato e simbolizzato dalla mente tanto più vengono impiegate difese narcisistiche primitive che si rivelano distruttive per la psiche stessa come in una sorta di cortocircuito patologico.
In generale si potrebbe collegare proporzionalmente tutta la patologia depressiva con la gravità delle lacune narcisistiche della persona (fragilità di un Sè particolarmente bisognoso di nutrimento e di apporti narcisistici esterni - per approfondimenti...) e all'intensità dell'aggressività che, impossibilitata nel rivolgersi all'esterno, viene concentrata internamente contro lo stesso Sè: nelle forme nevrotiche (sotto l'influsso della severità e dei comandi del Super-Io) essa viene inibita o rimossa attraverso la tipica smania riparativa di tratti masochistici (a causa del senso di colpa depressivo); nelle forme narcisistiche (sotto l'influsso dell'Ideale dell'Io) svilisce un Sè inadeguato e vergognoso così lontano dalle immagini irraggiungibili di perfezione; nelle forme borderline viene massicciamente scissa e agita (in modo paranoideo) contro gli oggetti parziali "cattivi"; nelle forme psicotiche (melanconiche) viene totalmente rivolta in modo autodistruttivo verso il proprio Io, sotto la spinta di profonde colpe persecutorie (Super-Io arcaico)
LA DEPRESSIONE NEGLI STATI NEVROTICI (configurazioni distimiche/masochistiche; depressioni lievi introiettive)
Nella personalità nevrotica i temi depressivi più comuni riguardano vissuti di insufficienza e di esclusione, timore del rifiuto, conflitti e inibizioni pulsionali (soprattutto in situazioni di rivalità e competizione). L'angoscia depressiva deriva per lo più dal timore di perdita dell'amore dell'oggetto a causa della propria aggressività latente: perciò tali organizzazioni dimostrano spesso una sollecitudine eccessiva verso gli altri attraverso costanti atteggiamenti riparativi (spesso sopportando in modo stoico sofferenze e spendendosi in inutili sacrifici), in modo da allontanare i fantasmi d'aggressione che sono percepiti come pericolosi per la conservazione dell'amore dell'oggetto.
Motivo per cui lo stato depressivo (introiettivo) tipico del nevrotico è accompagnato da sensi di colpa come se soffrisse costantemente di "cattiva coscienza" (Freud, 1929), che si trasforma in angoscia di punizione (castrazione) da parte del proprio oggetto interno (il severo Super-Io), a cui l'Io dovrà sottomettersi attraverso continui patteggiamenti e restrizioni se non ne vuole perderne sicurezza, protezione e approvazione. Tali stili difensivi (come la rigida aderenza a regole e comportamenti autoimposti, le formazioni reattive e le moralizzazioni dell'ossessivo, l'evitamento di esperienze pericolose dell'isterofobico, l'inibizione e la rimozione degli aspetti pulsionali dell'isterico da conversione), possono affaticare talmente tanto il nevrotico da esaurirne l'energia mentale, lasciandolo in uno stato di affaticamento cronico e di incapacità nel riuscire a vivere la vita quotidiana con piacere e vitalità.
Come già aveva notato Freud (1919), Rado (1927, in Gaylin, 1968) ha sottolineato come i sensi di colpa rappresentino la via attraverso cui la persona spera di riconquistare l'amore dell'oggetto perduto (espiazione, riparazione, perdono e riconciliazione), in una modalità quindi prevalentemente masochistica (in cui il dolore viene erotizzato come speranza di legame).
Le personalità nevrotiche possono presentare periodi temporalmente limitati di depressione lieve (con un senso di colpevolezza diffuso, cosciente ed egodistonico) durante i quali, pur riuscendo a svolgere le attività quotidiane, "faticano a vivere", lamentando scarse energie e ruminazioni sul futuro (psicastenia). Oppure quando presentano una condizione imperitura di lieve e lineare umore depressivo (distimia), accompagnata o meno da atteggiamenti scontrosi, irritabili, "malumorosi" (distimia disforica), possono apparire come perennemente stizziti, insoddisfatti, ipercritici, talora permalosi e ipersensibili a tutto, con una visione tendenzialmente pessimistica su di sè e sul futuro.
A seguito di lutti essi "possono vedersi come carenti, pigri, impotenti e corresponsabili per la loro perdita, ma il sottofondo maligno della vera autosvalutazione (non il rimprovero apparente per manipolare gli altri) è abitualmente assente." (Arieti, 1978, p. 188)
LA DEPRESSIONE NEGLI STATI MARGINALI (configurazioni ciclotimiche; depressioni anaclitiche e "mascherate")
Come evidenziato da Bergeret (1996), probabilmente il filo rosso che attraversa tutte le organizzazioni marginali di personalità (più orientate nevroticamente, Kernberg, 2004 [12]) è il forte tema depressivo di fondo (affrontato da difese improntante prevalentemente sull'idealizzazione, la negazione, la grandiosità, l'identificazione proiettiva, la controdipendenza...), in cui l'angoscia abbandonica e le dinamiche di dipendenza (ovvero problematiche di separazione dall'oggetto) si manifestano nella loro forma più netta, ovvero quella anaclitica (Blatt, 1975 [3]), dove si palesano il vuoto, la fame e il bisogno d'oggetto (non a caso Fenichel [1945] definiva il depresso "una persona drogata d'amore").
Se il nevrotico mira (attraverso il controllo o la seduzione) a possedere o trattenere l'oggetto, il marginale vorrebbe non separarsi mai: questo perchè l'oggetto d'amore non è solo desiderato (e investito libidicamente), ma costituisce un mattone narcisistico essenziale per il buon funzionamento della persona. Come è stato mostrato ampiamente da Kohut (1971 [13]), l'altro costituisce per il marginale un Oggetto-Sè (un prolungamento, un'estensione del proprio Sè) affinchè egli possa negare una vera separazione con l'oggetto (e quindi dell'affetto depressivo). Ecco perchè da questo profondo bisogno narcisistico deriva una forte vulnerabilità depressiva alla perdita che costituisce sempre un pericolo significativo ("cade l'individuo oralmente dipendente quando mancano gli appoggi narcisistici", Fenichel, 1945, p. 372).
Nei registri narcisistici (per approfondimenti...) la depressione può essere innescata a seguito di un fallimento o di una delusione importante (ferita narcisistica) causata dallo scarto tra le aspettative ideali di come doveva andare e la realtà dei fatti (conflitto con l'Ideale dell'Io). Tali forme di depressione "vuote" più che dalla colpa sono caratterizzate da un sentimento diffuso di inadeguatezza e di vergogna, a cui fanno seguito tentativi di compensazione ipomaniacale sul Sè (controdipendenza) o rincorse verso oggetti salvifici idealizzati che, dimostrandosi alla fine deludenti (non conformi cioè all'irraggiungibilità dell'ideale) e quindi di conseguenza svalutati, riportano, come in un circolo vizioso, a sentimenti costanti di vuoto, distacco e noia. La Jacobson (1971) ha osservato che nel momento in cui l'Io narcisistico viene ostacolato nel raggiungimento dell'immagine del Sè Ideale, possa poi sorgere una forte rabbia (collera narcisistica) che, se non ha a disposizione oggetti esterni su cui scaricare la responsabilità del fallimento (identificazione proiettiva), si rivolge contro il proprio Sè inadeguato, incapace e svilito.
Altri tipi di personalità caratteropatiche (dipendente, sadomaso, istrionico...) invece mettono in campo le loro modalità relazionali e un Falso Sè protettivo (Winnicott, 1965 [26]) funzionali ad evitare in ogni modo la separazione dall'altro, e quindi per scongiurare le angosce depressive di fondo derivanti dalla possibile perdita dell'oggetto (depressioni latenti subcliniche); mentre negli stati psicosomatici o ipocondriaci (con deficit delle funzioni simbolizzanti) è solito osservare come gli affetti depressivi possano esprimersi attraverso il soma ("fame d'aria", "oppressione toracica", "fiato corto"), "mascherando" e occultando così tutta la corrispettiva dimensione psicologica della depressione.
"A volte la richiesta è immensa: sembra quasi che il paziente chieda, metaforicamente, latte o sangue. (...) Si può interpretare il suo atteggiamento principale come un rifiuto globale di tutto ciò che, se fosse ammesso, potrebbe determinare la depressione." (Arieti, 1978, p. 169)
In genere tali strutture presentano un Io fragile, altamente intollerante alle frustrazioni e alle ferite narcisistiche, e come aveva notato Abraham (1912), con reazioni depressive particolarmente associate all'oralità: le continue pretese esorbitanti di essere amati, curati e nutriti sono tali che, non potendo venire mai gratificate completamente, saranno inevitabilmente sempre accompagnate da forti delusioni e intensi moti aggressivi (ecco perchè essi non possono sfuggire da un costante sentimento d'odio per le persone da cui dipendono).
Anche nei lutti, l'intensa rabbia innescata sembra essere ancora rivolta all'oggetto amato, quasi come un'accusa rivolta alla persona morta ("perchè mi hai lasciato?"): lo stesso bambino, quando ha ritrovato la madre dopo una separazione seguita da pianti e grida, è solito arrabbiarsi con lei più o meno apertamente per rimproverarla di averlo lasciato. Inoltre se nella normale elaborazione del lutto avviene una graduale disidealizzazione dell'oggetto perduto, negli stati ipomaniacali reattivi il disinvestimento può essere accessibile solo attraverso la svalutazione della persona amata.
Motivo per cui oscillazioni ciclotimiche tra stati depressivi e temporanee risposte ipomaniacali sembrano la norma quotidiana in tali organizzazioni (umore capriccioso e fortemente altalenante, ma solitamente senza oscillazioni troppo esagerate).
LA DEPRESSIONE NEGLI STATI BORDER E PSICOTICI (configurazioni ipomaniacali, maniacali e melanconiche; depressioni gravi)
Rispetto alle strutture precedenti, ciò che contraddistingue le organizzazioni più orientate psicoticamente è il fatto che l'Io non dispone di sufficienti risorse compensatorie per investire narcisisticamente il Sè, e soprattutto che l'oggetto d'amore passato è stato vissuto in modo talmente negativo da essere stato assimilato come oggetto distruttivo, persecutorio, esageratamente sadico (Super-Io arcaico). L'aggressività brutale interiorizzata (non essendo stata mitigata e bilanciata da altrettante esperienze d'amore) acquista tonalità paranoidee e i fantasmi depressivi assumono caratteristiche di morte e di distruzione irreparabile recando quindi intense colpe persecutorie.
Nel border le difese utilizzate per far fronte a tali angosce sono per lo più di tipo schizoparanoide: profonde scissioni (atte a tenere separata l'aggressività distruttrice dall'oggetto buono idealizzato), ipomaniacalità, diniego, identificazione proiettiva, idealizzazione primitiva, identificazione con l'aggressore, onnipotenza. Nelle forme croniche di perversione è invece la pulsione (parziale) stessa a venire idealizzata per scampare l'affetto depressivo (per approfondimenti...): la clinica conosce da tempo la comparsa di un'erotomania momentanea o certe reazioni orgiastiche in chi ha appena subito un lutto o ha appena avuto notizia di una grave malattia. Ugualmente, nelle persistenti forme tossicomaniche è la sostanza stessa a venire idealizzata al pari di un feticcio autodistruttivo (anche se il meccanismo maniacale può essere innescato solo dalla sostanza); nello spettro psicopatico (narcisismo maligno, personalità psicopatica, antisociale...) l'affetto depressivo viene negato con l'onnipotenza e l'azione (l'acting-out); nei gravi disturbi ipocondriaci o psicosomatici, in assenza di altri oggetti proiettivi, è il corpo stesso a diventare il bersaglio delle tendenze interne distruttive; nei gravi disturbi alimentari l'oggetto viene equiparato oralmente agli alimenti, nella sua forma persecutoria da espellere (anoressia) o "buona e nutriente" da recuperare compulsivamente (bulimia).
In generale il terrore più grande delle organizzazioni psicotiche (o pre-psicotiche) è quello di perdere irrimediabilmente i propri oggetti interni "buoni", e quindi in definitiva la propria identità (angosce di frammentazione): ecco perchè solitamente le forme maniache-depressive, schizoidi (in cui viene tagliata la sfera delle relazioni oggettuali, Fairbairn, 1940 [4]) o paranoidee deliranti (dove l'intensa carica aggressiva viene proiettata all'esterno sotto forma di delirio di persecuzione) vengono considerate l'ultimo baluardo a disposizione prima della dissoluzione schizofrenica (per quanto gravi forme depressive possano essere affiancate da stati schizofrenici nella loro forma schizoaffettiva).
La più conosciuta tra le varie forme gravi di depressione è senz'altro la cosiddetta malinconia (oggi definita più o meno in modo analogo con "disturbo depressivo maggiore"). Fin da subito Freud (1917) tenne distinto il lutto normale dalla melanconia, in quanto rispetto al primo aveva notato nelle forme melanconiche "uno straordinario avvilimento del sentimento di sè, un enorme impoverimento dell'Io. Nel lutto il mondo si è impoverito, nella melanconia impoverito e svuotato è l'Io stesso." (p.106)
Il motivo di tale manifestazione psicopatologica è infatti da rintracciare nell'intensa carica aggressiva (completamente dissociata) nei confronti dell'oggetto perduto che, non essendo più a disposizione, viene incorporato dal soggetto assieme all'aggressività annessa, ora rivolta contro il Sè: "parlando a se stesso, il depresso parla all'altro" (Widlocher, 1973, p. 86), o, secondo la celebre espressione di Freud (1917), "l'ombra dell'oggetto ricade sull'Io".
"Se si ascoltano con pazienza le molteplici e svariate autoaccuse del melanconico, alla fine non ci si puo' sottrarre all'impressione che spesso le più intense di esse si attagliano pochissimo alla persona del malato e che, invece, con qualche insignificante variazione, si adattano perfettamente ad un'altra persona che il malato ama, ha amato o dovrebbe amare." (Freud, 1917)
L'Io si subissa di autoaccuse tali da sfociare in bisogni esasperati di punizione e in pericolosi comportamenti autodistruttivi: attraverso un'enorme quantità di sofferenza, il melanconico cerca di rendersi "degno" dinanzi all'oggetto perduto idealizzato (incorporato), nel tentativo di salvarlo dalla propria carica distruttiva, vessando e denigrando il proprio Sè. Dunque "l'immaginario cannibalico melanconico è una sconfessione della realtà della perdita e insieme della morte" (Kristeva, 1987, p.18): attraverso l'intensa colpa persecutoria (Grinberg, 1971) il melanconico continua a perseverare l'unione con l'oggetto (in maniera interamente intrapsichica), sperando in una redenzione masochistica (analogamente quindi al meccanismo nevrotico, ma con la differenza di una regressione totale che comporta un cambiamento nella struttura dell'Io).
Nelle forme malinconiche più gravi di tipo psicotico il conflitto può diventare talmente intenso da creare stati stuporosi (in cui la ruminazione diventa così dolorosa da non poter essere più comunicabile e il rallentamento si trasforma in una letterale paralisi catatonica), o franche forme deliranti in cui il malato può arrivare ad accusarsi di efferati delitti o addirittura immaginarsi morto (sindrome di Cotard) o espropriato dalla propria "anima".
"Un passato ipertrofizzato, iperbolico, che occupa tutte le dimensioni della continuità psichica. E questo attaccamento a una memoria senza domani è probabilmente anche un mezzo per capitalizzare l'oggetto narcisistico, di covarlo nel chiuso di una tomba personale senza vie d'uscita." (Kristeva, 1987, p. 57)
In tali organizzazioni la relazione con l'oggetto era caratterizzata da profonde scissioni rappresentative e da una necessità narcisistica quasi vitale, più di natura simbiotica che dipendente (Mahler, 1966 [18]), ossia con confini tra il Sè e l'oggetto non del tutto differenziati: a seguito del lutto, l'intensa avidità nei confronti dell'oggetto amato è responsabile degli intensi vissuti di colpa una volta in cui le fantasie d'incorporazione e di morte diventano realtà concreta.
Inoltre l'intenso sadismo latente del melanconico spesso è possibile continuarlo ad osservare attraverso le dinamiche relazionali nei confronti delle persone a lui vicine, in quanto "il depresso si assicura che gli altri siano colpiti dalla sua sofferenza" (Arieti, 1978, p. 60): la profonda sofferenza e le incessanti lamentele del melanconico diventano attacchi rivendicativi nei confronti degli altri come aspri rimproveri che instillano nell'ambiente familiare la sensazione di colpevolezza del suo male.
"Le incessanti lamentele ed autoaccuse del paziente melanconico, le sue manifestazioni di impotenza e la sua debolezza morale sono sia una negazione che una confessione di colpa: del delitto di aver distrutto il prezioso oggetto d'amore." (Jacobson, 1971, p. 270)
Se nel border e nelle configurazioni affini l'ipomania (il disturbo bipolare di tipo II) rappresenta il tentativo per denegare i profondi affetti depressivi (conservando però un generale stato di lucidità e senza comportamenti esageratamente disorganizzati), nelle forme più gravi è la mania ad essere utilizzata come "strategia" volta a rovesciare l'intenso senso di colpa e di disperazione nel suo opposto: l'umore euforico (sentirsi "su di giri"), atteggiamenti megalomanici (senso d'onnipotenza) un senso iperbolico di benessere e un'eccitazione globale (ridotto bisogno di dormire), accompagnati dalla tipica accelerazione del pensiero (incapacità d'attenzione focale, logorrea, fuga ideativa) e da comportamenti altamente pericolosi, impulsivi e disorganizzati. A questo alternarsi intermittente di gravi forme depressive e interruzioni maniacali (disturbo bipolare di tipo I), possono manifestarsi anche forme miste in cui i sintomi depressivi si sommano contemporaneamente a quelli maniacali come nelle cosiddette manie ansiose o nelle depressioni agitate.
Tale meccanismo psichico rappresenta il tentativo disperato dell'Io di liberarsi dall'oggetto interno persecutorio e vampirizzante, donando al Sè la temporanea illusione di onnipotenza e invulnerabilità ("un orgia di libertà" Abraham, 1912): "il depresso cerca tutte le vie d'uscita per liberarsi da un aggressore che è l'equivalente psicologico di un vero e proprio cancro." (Lopez, 2003, p. 214)
Il suicidio
"Il sonno viene come l’avanzare della marea. Opporsi è impossibile. È un sonno così profondo che né lo squillo del telefono né il rumore delle auto che passano fuori mi arrivano all’orecchio. Nessun dolore, nessuna tristezza laggiù: solo il mondo del sonno dove precipito con un tonfo." Banana Yoshimoto
Si stima che nei paesi occidentali dal 40% al 60% dei suicidi siano dovuti a depressione (Jervis, 2002): d'altronde "una persona gravemente depressa può trascurare di nutrirsi fino al punto di morire di fame; può essere così inattiva da essere incapace di accudire perfino ai bisogni più elementari; può pensare di aver ragione nel credere che non vi è più nulla di buono nella vita e che è meglio morire." (Arieti, 1978, p. 79)
In genere gli atti di suicidio non sono il prodotto di un'impulsività imprevedibile e repentina (se si escludono casi particolari come la comparsa di bouffèe deliranti): il più delle volte i frequenti pensieri suicidi prendono forma dopo ripetute ruminazioni fantastiche sulla loro realizzazione, fino ad arrivare gradualmente a concretizzarsi in un piano meticolosamente programmato in tutti i suoi particolari.
Infatti molti casi di suicidio sembrano accadere non quando il dolore melanconico arriva al culmine, ma in un momento di "tregua", quasi di temporanea remissione: Arieti (1978) ha ipotizzato che il suicida scelga la morte solo dopo aver constatato l'inutilità e l'inefficacia prolungata dei meccanismi melanconici (e maniacali) nel risollevarlo dal proprio senso di colpa (infatti nelle persone gravemente depresse è solito riscontrare un temporaneo ma intenso sollievo dopo un tentato suicidio).
Il tentato suicidio o i desideri di morte, nonostante le svariate accezioni, possiedono generalmente una forte impronta narcisistica ed aggressiva. Essi diventano l'unico mezzo a disposizione della persona per esprimere i propri sentimenti di dolore e comunicarli all'esterno come una richiesta estrema e disperata per attirare l'attenzione e ottenere l'aiuto necessario (finchè non arrivano a concretizzarsi come vendetta agita per punire chi rimane in vita). Infatti il suicidio è l'ultimo strumento a disposizione da parte del malato che non trova più alcun senso nel mondo, oramai totalmente incapace di "simbolizzare, pensare, assumere la sofferenza." (Kristeva, 1987, p. 160)
Il suicidio puo' rappresentare paradossalmente un trionfo narcisistico sulla morte, ossia l'unica soluzione per disfarsi dell'oggetto interno persecutorio, anche se a costo della propria vita (proprio come accade nel Dorian Gray di O. Wilde) o, in una prospettiva complementare, per espirare completamente la propria malvagità distruggendo una volta per tutte il proprio "Sè cattivo" e conservare quindi solo il buono "dell'anima immortale".
Inoltre per il suicida la morte viene spesso vista come la forma più efficace per donare tutta la quiete perduta al povero Sè martoriato dal dolore : ossia un ritorno ad uno stato elazionale in cui si fa coincidere la morte con il grembo materno (Grunberger, 1971), affinchè, restituendo il corpo mortale alla Madre Terra (la "silenziosa dea della morte", Freud, 1913), egli possa realizzare il proprio desiderio speranzoso di rinascita, ossia "un desiderio di riunione, attraverso la morte, con immagini buone e idealizzate dei genitori che si trovano nell'aldilà" (Grinberg, 1971, p. 141)
"Il suicidio è un ritorno ad un amore intero, senza macchie nè barriere o limiti, con la madre ideale, oggetto perduto o sommerso da' aggressività, ma ritrovato e completamente 'bonificato' attraverso il suicidio; egli si uccide per amare ed essere amato e il suo fantasma è quello del nirvana" (Nacht e Racamier, 1959, p.114 [21])
Eziopatogenesi
"Non si può sperare di mollare la propria pena in qualche angolo di strada. E' come una donna mostruosa la Pena, e tu te la sei sposata. Forse è ancora meglio finire per amarla un pò invece di dannarsi a picchiarla tutta la vita. Perchè è chiaro che non la puoi accoppare." L. F. Cèline, Viaggio al termine della notte (1932)
Per quanto l'ereditarietà giochi un peso notevole nello sviluppo di alcune forme depressive (le cosiddette depressioni ritenute endogene), Freud (1917), Abraham (1912), Fenichel (1945) e Jacobson (1971) hanno evidenziato l'ipotesi che delusioni precoci (preedipiche) possano produrre lacune narcisistiche (la mancanza della "fiducia di base", Erikson, 1950 [1], o di una "base sicura", Bowlby, 1951 [2]), predisponenti a vulnerabilità depressive. Genitori precocemente deludenti non permettono una buona dose di riserva narcisistica (per introiezione) da utilizzare per investire adeguatamente il mondo oggettuale, lasciando una continua "fame" oggettuale (avidità orale) e un costante bisogno di apporti narcisistici dall'esterno (la necessità di essere continuamente curati e nutriti dal punto di vista affettivo).
Infatti il bambino, quando si sente sicuro della disponibilità del genitore anche nei momenti di regressione, è naturalmente portato a cercare la separazione e l'autonomia, per cui sarà in larga parte la risposta del genitore (più o meno angosciato per la crescita del figlio durante la fase di separazione) a determinarne principalmente il buon esito del processo di separazione-individuazione (Mahler, 1975 [18]).
"Il bambino è in uno stato esistenziale di dipendenza. Se coloro da cui dipende sono persone inaffidabili o male intenzionate, può soltanto scegliere se accettare quella realtà oppure negarla. Se la accetta, la generalizzazione che ne potrebbe conseguire è che la vita è vuota, priva di significato, non influenzabile, e così viene lasciato con un senso cronico di incompletezza, vuoto, desiderio, futilità e disperazione esistenziale. Questa è la versione anaclitica della sofferenza depressiva. Se invece nega che le persone da cui dipende sono inaffidabili (perchè non riesce a tollerare di vivere nella paura) potrebbe convincersi che la fonte dell'infelicità sia dentro di lui, preservando in tal modo l'idea che un proprio miglioramento potrà cambiare la situazione. Se solo sarà capace di diventare sufficientemente buono, di sollevarsi dal proprio egoismo e dalla persona distruttiva che sa di essere, la vita migliorerà. Questa è la dinamica introiettiva. " (McWilliams, 2012, p. 275)
Se è vero che separazioni nei primissimi anni d'età sarebbero particolarmente traumatizzanti per l'infante (ancora sguarnito di strumenti psichici adeguati per elaborare il lutto), le perdite subite conservano sempre una componente prettamente psicologica, come può accadere nel caso di un bambino che sia costretto a rinunciare a comportamenti di dipendenza oggettuale prima che sia evolutivamente pronto per farlo.
Arieti (1978) ha osservato come il tratto comune delle famiglie con un bambino con prodromi depressivi sia l'imposizione, in un'età troppo precoce, di responsabilità emotive che non gli competono: le atmosfere di queste famiglie sono spesso intrise di una serietà mortifera e mancano totalmente di spontaneità e di risate, anche se al loro interno esiste una rete di forte interdipendenza in cui il benessere psichico degli altri diventa un carico emotivo eccessivo nel bambino. Egli si pone così il compito di rallegrare le loro vite, provando un senso di colpa e di slealtà quando si diverte o gode nella realizzazione di piaceri e di desideri che non riguardino anche la famiglia; si sente obbligato ad investire le proprie energie per soddisfare il genitore che non esprime affetto se non nei momenti di sottomissione e obbedienza.
Tuttavia il bambino, per quanto possa già manifestare sintomi depressivi (comunque in maniera differente rispetto all'adulto), non avendo ancora modalità cristallizzate di relazioni interiorizzate (cosa che ha luogo a partire dalla preadolescenza), reagisce ancora bene e con una certa flessibilità agli eventuali cambiamenti correttivi e migliorativi che possono verificarsi nel proprio ambiente famigliare.
"I vissuti di perdita di persone significative, di separazioni ripetute, oppure di interazioni genitori/bambino in età prescolare tali da produrre danni cronici all'autostima, contribuiscono alla psicogenesi dei disturbi di tipo depressivo, che nella maggior parte dei casi sono di tipo subclinico." (Espasa, 2003, p.59)
La Klein (1940) ha descritto gli effetti dell'introiezione di un oggetto (il genitore) danneggiato dall'aggressività del bambino che, in seguito a ripetute delusioni e frustrazioni traumatiche, non ha potuto adeguatamente mitigarla da altrettante esperienze d'amore "buone". Sono quest'ultime infatti che donano al bambino la fiducia nelle proprie capacità riparative e quindi la sicurezza di poter affrontare separazioni con la speranza che l'oggetto alla fine possa ritornare "sano e salvo". In altre parole, il bambino associa la perdita alla conseguenza dei propri moti d'aggressività (sempre onnipresenti nelle fantasie d'incorporazione orale, di controllo anale e di competizione fallica), sentendosi direttamente responsabile (e quindi colpevole) della "fine" del legame con l'oggetto.
Inoltre l'aggressività rimossa o dissociata (per la salvaguardia della relazione oggettuale) causata da un ambiente particolarmente frustrante e inadeguato ai bisogni del bambino, va inevitabilmente a rinforzare gli oggetti interni delle istanze morali e della colpa depressiva (come nel Super-Io del nevrotico), della speranza compensatoria dell'idealizzazione primitiva (l'Ideale del marginale verso il Sè o l'oggetto idealizzato), o della colpa persecutoria (come nelle forme melanconiche).
"Questa delusione impedisce che duri abbastanza a lungo la fede del bambino nell'onnipotenza della madre, della quale egli ha bisogno per sviluppare la sua stima di sè. Il bambino mostra una perdita dell'aspettativa fiduciosa da parte degli adulti importanti e subisce quindi una diminuzione della stima di sè, che riduce la capacità di neutralizzare l'aggressione, cosa che successivamente sarà responsabile dei sintomi depressivi" (Arieti, 1978, p. 113)
Inoltre, per quanto sia abbastanza diffuso un breve periodo di lieve depressione puerperale o post-partum (che solitamente dura da qualche giorno a una o due settimane), in generale la depressione della madre ha profonde ripercussioni sul bambino durante tutta il processo di crescita. Non a caso Green (1980 [10]) ha coniato il concetto di "madre morta" - confermato successivamente dagli studi dell'Infant Research (Tronick, 1989 [11]) -, dove la depressione della madre (fisicamente presente ma emotivamente assente) pone il bambino di fronte ad un oggetto inanimato e incapace d'amore che, a causa della mancanza o del massiccio impoverimento di comunicazione nonostante i vari tentativi attuati per provocarla, verrà introiettato successivamente come un "oggetto mortifero" deleterio per il proprio sviluppo. Di fatto la madre depressa rende impossibile una reale separazione e crea predisposizioni introiettive di intensa colpa persecutoria (il bambino ha la sensazione di essere stato il colpevole della depressione materna e della sua mancanza d'amore): egli può sentirsi in colpa anche quando esprime normali e banali richieste, fino ad arrivare a credere che solo il fatto stesso di esistere possa essere stato una maledizione per la madre.
Anche la Jacobson (1971) ha sottolineato il carattere intensamente rifiutante e carico d'aggressività che il bambino può avere introiettato (rappresentazione di Sè distruttiva) nell'interazione con una madre depressa, che può ripetersi successivamente attraverso una distruttività masochistica in ogni relazione oggettuale futura, fino ad arrivare, nei casi più gravi, a quel ritiro degli investimenti sul mondo oggettuale (schizoidia) che sancisce la fine di ogni curiosità, la noia mortifera, un disinteresse generale verso la vita.
La condizione esistenziale dell' "Homo Nostalgicus"
"Gli uomini, con tutta la loro indiscutibile intelligenza, prendono questa commedia per una cosa sera. E proprio in ciò sta la loro tragedia." F. Dostoevskij - I fratelli Karamazov (1880)
In fondo l'intero messaggio della psicoanalisi si può riassumere asserendo che il compito evolutivo dell'essere umano consiste nella rinuncia all'unione originaria della madre: benchè durante i primi mesi di vita il neonato continui a vivere uno stato di simbiosi in cui quasi non conosce alcuna privazione o frustrazione (ogni bisogno viene immediatamente soddisfatto da un seno "illimitato" anche nella sua forma allucinatoria), a partire dal trauma della nascita (Rank, 1924 [6]) il bambino perderà irrimediabilmente lo stato elazionale della vita intrauterina (la quiete assoluta del "Nirvana", Grunberger, 1971), anche se verrà poi ricercato disperatamente per tutta la crescita attraverso il ricongiungimento con la madre (i suoi derivati simbolici e gli spostamenti libidici verso il padre). E' questo d'altronde ciò che ci ha voluto comunicare Freud con il mito di Edipo che, nel suo normale superamento, sancisce per il bambino la rinuncia, la disillusione, l'impotenza dinanzi all'inevitabile perdita: ossia il riconoscimento che l'oggetto agognato non è più raggiungibile.
Tuttavia giova ricordare che tale desiderio sarebbe impossibile da realizzarsi anche sul piano biologico a causa della neotenia della specie umana: l'impossibilità nel bambino di poter soddisfare le proprie pulsioni a causa della sua prolungata insufficienza riproduttiva (contrariamente al resto del mondo animale), unita al bisogno duraturo di dipendenza dai propri genitori per la propria sopravvivenza, crea una ferita narcisistica (una faglia nel senso del Sè) che sarà tanto più profonda quanto più è venuta meno l'interdizione paterna all'incesto (ovvero quanto più il bambino ha fatto esperienza diretta della propria insufficienza – e dell’illusione di potersi ricongiungere con la madre -, piuttosto che scontrarsi contro la presenza normativa ed esemplare del padre con cui identificarsi per accedere, da adulto, agli stessi privilegi, Chasseguet-Smirgel, 1984 [28]).
"I cambiamenti esteriori rappresentano un'esigenza di cambiamento interiore. E' questo il senso del lavoro interiore del lutto, che si rende necessario sin dal principio della vita." (Haynal, 1976, p.16)
Eppure, il graduale distacco dalla madre imprimerà nell'adulto una ferita mai del tutto cicatrizzata, una sorta di mancanza, di "permanente anelito verso un perfetto stato irraggiungibile" (Klein, 1959. [22]) di nostalgia perenne ad un passato beato, ben sedimentata profondamente al di là della memoria cosciente, ossia nell'inconscio arcaico preverbale. E' questo il sentimento misterioso ed enigmatico che fin dagli albori dei tempi poeti, scrittori e artisti hanno lungamente descritto e rappresentato nelle loro opere, spesso arrivando ad erotizzare questo dolore nostalgico attraverso l'idealizzazione di un passato lontano e irraggiungibile - come nelle ideologie passatiste tipiche del romanticismo (Weltschmerz, Sehnsucht, Fernweh...) -, o svelando l'inconscia ambivalenza (l'attrazione del tormento) per tale disagio esistenziale attraverso concetti come il tedio (Ennui), il male di vivere (Spleen - dal greco splèn, ossia la milza, sede della bile nera). Non a caso Freud, proprio per questa incapacità di continuare a desiderare ciò che non potrà mai raggiungere, ha definito l'uomo un "invalido della vita" (lettera del giugno giungo 1910 di Freud a O. Pfister [27].
In un certo senso tutta la psicopatologia si potrebbe definire come l'acutizzazione di una nostalgia dello stato originario (e ciò che vi è annesso, quindi onnipotenza, immortalità, perfezione, pace assoluta), una rincorsa regressiva verso l'antico desiderio utopistico della quiete "inorganica" (Thanatos, ovvero l'istinto di Morte, Freud, 1920); già Kant (1798 [9]) aveva argutamente osservato che la nostalgia è figlia delle sensazioni della propria infanzia perduta.
In tal senso si può intendere il nucleo della depressione come il frutto conseguente a tale perdita e al crollo della megalomania originaria, svelando inevitabilmente sia l'assoluto stato di impotenza e di fragilità dell'essere umano sia l'impossibilità di accettare la vita con tale perdita. Già Schopenhauer (1819 [20]) scriveva come la tragedia stessa fosse il riflesso del "dolore indicibile, il lamento dell'umanità, il trionfo del male, il dominio sprezzante del caso, e la caduta irrimediabile del giusto e dell'innocente" (p. 271), ossia una forma d'espressione di protesta da parte dell'uomo che inevitabilmente soccombe al proprio destino ineluttabile.
E dato che l'esperienza clinica dimostra con chiarezza la propensione umana a preferire qualsiasi tipo di sofferenza più irrazionale all'accettazione della propria impotenza, si può intendere ogni forma psicopatologica come una sorta di malsana soluzione di scambio (do ut des) per cercare di scampare dall'affetto depressivo fondamentale che ci accompagna fin dalla nascita.
"Illuminando il contrasto con il passato felice e dipingendo con colori cupi la realtà che promette e poi non mantiene, la ricerca frustrata della felicità perduta rende il mondo arido e vuoto, e il Sè svuotato e impoverito." (Jacobson, 1971, p.100)
Ecco dunque che la domanda fondamentale non è tanto "perchè si diventa depressi?", ma piuttosto "come non precipitare nella depressione?"
Nonostante il "Paradiso perduto" (Grunberger, 1971) non possa mai più essere raggiunto, Freud (1907) ha ricordato però come "nulla è più difficile per un uomo della rinuncia ad un piacere già provato una volta. In realtà, non possiamo mai rinunciare a qualcosa, possiamo solo sostituire una cosa ad un'altra.” Ossia, la nostalgia che può fare ammalare (nella direzione regressiva della psicopatologia), paradossalmente è la stessa che sprona tutto l'agire umano: "i trionfi della vita adulta sono veramente il 'Paradiso riconquistato', il ritrovamento della situazione infantile a un altro livello" (Roheim, 1943, p. 50 [5]), ossia altre vie per una ricongiunzione simbolica (ovviamente temporanea e parziale) al grembo materno (Loewald, 1988 [7]).
Con l'importante differenza che l'uomo che ha superato il proprio lutto edipico, può fare affidamento su un sano e solido narcisismo (per approfondimenti...), sulle pulsioni (la libido e l'aggressività al suo servizio) al loro stadio genitale (che integra quelli precedenti) e sulla sublimazione (la trasformazione delle pulsioni in attività lavorative, sociali e culturali), ovvero può agire sotto la spinta dell'Eros (o istinto di Vita, Freud, 1920) che lega e tiene unite tutte le cose.
Soluzioni che se da una parte richiedono all'uomo la consapevolezza esistenziale di uno stato di permanente desiderio inestinguibile che conviva necessariamente col limite, l'impotenza, l'imperfezione, la morte (il principio di realtà - e qui si potrebbero far rientrare anche tutte le varie correnti filosofiche dell'Esistenzialismo -), dall'altra esse continuano a conservare indirettamente le antiche pretese infantili di immortalità, illimitatezza, completezza (l'amplesso che, originando la prole, perpetua la specie; la tenerezza che consente ai rapporti di durare e non esaurirsi dopo l'amplesso; l'opera artistica che trasforma la finitudine della realtà in eternità...).
Ossia, in altri termini, la natura intrinseca dell'essere umano non fa che ribadire la necessità di conservare nell'adulto il gioco (il "come-se", il "far finta"), la creatività e l'umorismo propri del bambino che, continuando a costruire castelli di sabbia in riva al mare seppur conscio della loro prossima distruzione (Nietzsche, 1870 [24]), sa come ribaltare - e quindi beffare - lo stato d'impotenza, di mortalità e di fragilità della propria condizione esistenziale (per approfondimenti...).
La Segal (1955 [25]) ha infatti osservato come tutta la creatività sia motivata dalla necessità di ri-creare qualcosa andato perduto, e quindi come l'opera creativa rappresenti un tentativo di riparazione, di riconnessione, di ri-presentazione dell'oggetto perduto: ecco perchè da sempre si riconosce l'intima la relazione tra psicopatologia e creatività, nuclei depressivi e attività artistica (Fedida, 2002), genio e follia (per approfondimenti...).
Lo stesso simbolo (e la capacità di simbolizzazione) è il prodotto di un lutto (la rinuncia edipica) e l'attività artistica (e in generale la sublimazione) il mezzo con cui l'adulto gioca a colmare la mancanza di qualcosa che non c'è più e che stavolta potrà vivere in eterno, ossia "la via regia attraverso la quale l'uomo trascende il dolore di essere separato" (Kristeva, 1987, p. 89). Non a caso Proust (1913 [15]) affermava che la motivazione primaria che spinge l'artista a creare è proprio la necessità di recuperare "il passato perduto", mentre Wagner (1851 [17]) considerava l'arte come la più grande confessione d'impotenza dell'essere umano.
D'altronde, come dimostrato ampiamente da Anzieu (1975 [8]), la stessa psicoanalisi è il prodotto creativo originato dal parto doloroso di Freud per elaborare il lutto della morte del padre (e più in generale per curare la propria depressione nevrotica - per approfondimenti...).
Per questo la psicoanalisi, che è "lo studio della mancanza" (Haynal, 1976), una strutturata "metapsicologia della perdita" (Chabert, 2005, p. 21), consente la cicatrizzazione di antiche ferite mai rimarginate: di fatto essa non fa altro che cercare di riavviare il processo di crescita interrotto nell'adulto, aiutandolo nel lavoro di elaborazione dei "lutti" infantili ancora pendenti nel presente (dove "il tempo necessario all'elaborazione sarebbe in funzione del lutto da compiere", ibid., p.74), affinchè egli, attraverso il prezioso ausilio dell'inconscio (per approfondimenti...) e della feconda relazione con l'analista, possa imparare a ricominciare a giocare nuovamente con la vita (per approfondimenti...).
"La cura psicoanalitica ci ha mostrato che siamo costretti a vivere con l'ombra della disperazione. I nostri demoni non possono essere nè espulsi nè soffocati: essi sono per noi preziosi, sono un attributo dell'esistenza umana. Se sapremo vivere con loro, finiranno per aiutarci, nel senso di un equilibrio psichico." (Haynal, 1976, p.120)
Bibliografia consultata:
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Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere. OSF IX, Bollati Boringhieri, Torino,1967 - 1980.
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