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La manifestazione dell'inconscio nel comico e nei suoi derivati, in analogia col gioco del bambino


Come riportato da Freud (1905), il comico può rappresentare l’arena perfetta per le manifestazioni creative dell’inconscio e un mezzo privilegiato per fornire piacere alla persona attraverso il riso.


Per Freud il riso scoppia quando una certa quantità di energia psichica, prima imbrigliata dalla forza della censura o dalla rimozione, trova improvvisamente sbocco dirompente alla coscienza: ridendo, tutta l’energia psichica si riflette immediatamente sul corpo che trova una modalità d’espressione irruente e vistosa in nome del principio del piacere.

Diverso è il sorriso, che se in un primo tempo denotava la gaia sazietà del neonato appagato, diventa poi “espressione di un amichevole contatto psicologico in generale” (p.225), e forse il più importante segno universale con cui l’essere umano stabilisce un rapporto con l’altro. Il sorriso infatti, al contrario del riso, coinvolge soltanto gli angoli della bocca e non si ripercuote su tutte le altri parti del viso.


Kris (1952) ha osservato come il riso, attraverso la fisionomia caratteristica della bocca aperta, racchiuda in sé anche un altro significato oltre a quello seduttivo: l’esibizione dei denti conserva altresì il suo significato minaccioso e aggressivo per la sua primordiale funzione biologica (come si osserva anche in alcune maschere tribali).


Diverso è il caso della smorfia che, similmente a un atto mancato, è una deformazione del viso provocata da un’irruzione emotiva che non si è riuscita a controllare, un improvviso scompiglio causata da un impulso represso non celato del tutto.

Tra i prodotti del comico, il motto di spirito gode di una posizione privilegiata, dato che offre la possibilità per l’uomo di recuperare il piacere a cui ha dovuto rinunciare a causa dell’opera di rimozione imposta dall’educazione alla civiltà. Caratteristica fondamentale del motto è la presenza di tre soggetti: chi lo inventa (che rimane tuttalpiù compiaciuto), l’oggetto del motto e l’ascoltatore (che gode dell’effetto di piacere del motto). Il motto costituisce un piacere solo in chi trova in esso la possibilità di un soddisfacimento di una tendenza che altrimenti sarebbe rimasta inappagata: con l’ausilio del motto l’inibizione interiore viene superata.

Direi che il riso sorge quando un ammontare di energia psichica prima usato per investire certe vie psichiche è diventato inimpiegabile, così che può sfogarsi in una libera scarica. (p.170)

Secondo Freud, quando non è innocente, il motto o è osceno (al servizio della “denudazione”) o è ostile (al servizio dell’aggressività), ossia è funzionale soddisfacimento di una pulsione aggirando un ostacolo che vi si frappone. Nel primo caso, sostituendo l’azione con la vista, “costringe la persona aggredita a rappresentarsi la parte del corpo o l’apparato di cui è menzione e le indica che anche l’aggressore si sta rappresentando la stessa cosa.” (p.122) Attraverso la scurrilità che cerca di rompere le barriere del pudore, il motto osceno chiama in causa la componente sadica della pulsione sessuale verso un tentativo di seduzione affinchè possa “portare anche la donna a un eccitamento corrispondente e risvegliare in lei l’inclinazione all’esibizione passiva.” (p. 123)

Nel secondo caso, il motto ostile cerca di accattivarsi l’ascoltatore contro l’avversario: “dipingendo il nostro nemico come un essere meschino, vile, spregevole, ridicolo, ci procuriamo per via indiretta il godimento della sua sconfitta” (p.127) Sostituendosi di nuovo all’azione, il motto colpisce senza pericolo per mezzo della sua forma spiritosa: facendo uso di altre strumenti, il motto contro il nemico sottrae alla critica l’argomento del contendere che altrimenti avrebbe dovuto sottoporre a verifica. Dallo stesso principio attinge la caricatura, il motto cinico (critico/blasfemo) e quello scettico: tutti creati con l’intento di demolire, smascherare e assalire certezze, istituzioni e autorità.

Scopo del motto tendenzioso è “liberare piacere sbarazzando inibizioni” (p.149), ma è attraverso l’arguzia, che si adopera come piacere preliminare (e quindi come veste estetica), che è possibile suscitare maggior ilarità: “Il motto lo si crea, il comico lo si scopre” (p.203)

Ruolo dell’arguzia è proprio quello di rivelare qualcosa di segreto o nascosto, causando nel pubblico quello scoppio di risate improvvise il cui effetto è tanto più intenso quanto più “mira all’espressione più breve possibile per offrire all’attenzione il minor numero di appigli” (p.175), oltre che dover essere di facile intelligibilità (richiedendo pochi ragionamenti secondari)

Ogni motto richiede quindi un proprio pubblico, e ridere degli stessi motti è prova di una vasta concordanza psichica. (p.174)

Nel motto forma, contenuto concettuale e arguzia devono rimanere strettamente connessi se si vuole sortire effetto: quando tecnica e intento si fondono adeguatamente, l’ascoltatore diventa incapace nel risalire alla causa specifica del suo effetto piacevole.

L’ironia, imparentata all’arguzia, consiste nell’affermare volontariamente il contrario di ciò che si intende comunicare all’altro: nonostante possa essere esposta alla possibilità di non venire capita, essa suscita piacere comico nell’ascoltatore perché viene riconosciuto subito superfluo un dispendio psichico contraddittorio. Mentre nello scherzociò che più conta è la soddisfazione di aver reso possibile ciò che la critica vieta” (p.153) in modo per così dire innocente (ossia unicamente per generare piacere),

Lo scherzo infatti rappresenta il mezzo per esprimere e controllare l’ambivalenza verso la persona a cui è rivolto: non a caso prende di mira gli stessi oggetti che culturalmente sono rappresentanti del Super-Io.

Kris (1952) ha osservato tuttavia che “il piacere comico presuppone un sentimento di completa sicurezza dal pericolo” (p.206): solo quando l’ascoltatore possiede già un certo controllo dell’angoscia, è in grado di abbandonarsi al sentimento di piacere suscitato dal comico secondo la formula “il motto di spirito porta la libertà, la libertà il motto di spirito” (p. 210). Ecco perché ogni fenomeno comico può avere un risvolto a doppio taglio: il fallimento nell’evocare una risposta comica nell’ambiente può produrre un rovesciamento del suo effetto piacevole atteso recando un senso di disagio.

Se ci identifichiamo con la persona derisa, non proviamo piacere ma disagio. L’impressione ricevuta non è comica ma penosa. A volte è come se la nostra vecchia paura, il cui superamento rappresenta una condizione preliminare del comico, si facesse improvvisamente tanto forte da sopraffare l’esperienza reale. (p. 212)

Inoltre, condizione perché si possa produrre l’effetto piacevole del comico attraverso il riso, è che la differenza tra due dispendi psichici sia inutilizzabile, cioè pronta per essere scaricata (un’altra attività mentale o una condizione affettiva particolare che occupa il soggetto nello medesimo istante, disturba il piacere del comico):

Di rado il professore di ginnastica o di ballo fa attenzione ai movimenti comici dei suoi allievi; al predicatore sfugge totalmente quanto c’è di comico nei difetti di carattere degli uomini, difetti che il commediografo sa mettere in risalto con tanta efficacia. Il processo comico è incompatibile cioè con il sovrainvestimento operato dall’attenzione, deve potersi svolgere totalmente inosservato, del tutto simile in ciò, del resto, al motto. (Freud, 1905, p.242)


Il motto dunque utilizza gli stessi processi del processo primario: condensazione e spostamento, la presenza di contrari e opposti, giochi di doppi senso e assurdi, capovolgimenti di sensi, allusioni (figurazione indiretta), ragionamenti erronei, controsensi, rappresentazione mediante il contrario, il ricorso all’assurdo… come il bambino che nel gioco trattava le parole come cose, godendo nel “sottrarsi alla pressione esercitata dalla ragione critica” (p.150), ossia dalla ricerca obbligata di un senso logico. Allo stesso modo si riscontra una similitudine tra la tecnica dell’arguzia e il lavoro onirico che gratifica il desiderio pur eludendo dalla censura: “l’arguzia è per così dire il contributo apportato alla comicità dalla sfera dell’inconscio” (p.230)

Secondo Freud qualsiasi forma di comico deve recare con sé l’atteggiamento del gioco tipico del mondo infantile: attraverso il comico si torna al piacere dell’infanzia sospendendo le imposizioni del processo secondario che esige logica, ordine, coerenza. Tale piacere non è esclusivo del comico ma lo si osserva anche quando l’Io rinuncia a tale funzione, ossia anche nel sogno e nel sintomo psicopatologico, o in stati fisiologici particolari come nell’ebrezza.

La diversità si riscontra soprattutto nei loro caratteri sociali: se il sogno è un prodotto psichico asociale e può sussistere solo se mascherato, il motto invece “è la più sociale di tutte le funzioni psichiche che mirano al profitto di piacere” (p.210) e deve essere costruito perché possa essere compreso.


L’elemento infantile è infatti la fonte dell’inconscio, i processi mentali inconsci non sono altri che quelli prodotti solo e unicamente nella seconda infanzia. Immergendosi nell’inconscio allo scopo di formare il motto, il pensiero non fa che cercarvi l’antico ricettacolo dei giuochi di parole di un tempo. Il pensiero viene riportato per un momento al grado infantile, per riprendere così possesso della fonte infantile di piacere. (p.192)

L’umorismo infine è il mezzo che permette di ricavare piacere anche a dispetto di un affetto penoso (compiendosi quindi in un’unica persona): “le specie dell’umorismo sono straordinariamente varie, secondo la natura dell’eccitazione del sentimento che, a favore dell’umorismo, viene risparmiata: pietà, collera, dolore, simpatia e via dicendo.” (p.254)

L’umorismo consiste quindi in una specie di distacco ironico rispetto alle sventure e conflitti rinvenendone il lato comico, ed è finalizzato alla mitigazione di una reazione emotiva eccessiva. Attraverso l’umorismo l’Io rovescia la sofferenza derivante dalle pene della realtà, trasformandole in occasioni per trarne piacere, comportandosi quindi nei confronti dei mali della vita “come l’adulto verso il bambino, in quanto riconosce l’inconsistenza degli interessi e dei tormenti che al bambino sembrano tanto grandi, e ne sorride”. (p.316)

Vero è che “l’umorismo è una dote rara e preziosa, e molte persone mancano addirittura della capacità di godere del piacere umoristico che viene loro comunicato” (p.319) e che “il piacere umoristico non raggiunge mai l’intensità del piacere nato dalla comicità o dal motto di spirito, che non si abbandona mai a una risata di gusto”. (p.318)

Non c’è dubbio che l’essenza dell’umorismo consiste nel fatto che ci si risparmia gli affetti ai quali la situazione offrirebbe il destro, e ci si libera con uno scherzo della possibilità di tale manifestazione del sentimento. (p.314)

L’impiego della comicità nell’adulto, come accadeva nel gioco infantile, nella maggioranza dei casi aiuta l’Io a ribadire la vittoria di passati conflitti probabilmente non ancora completamente superati. Ossia funziona come mezzo di difesa evoluto per affrontare e padroneggiare l’ansia, fino a sfociare nella sua forma patologica, la mania. Secondo Freud l’umorismo non svolge solo una funzione economica (come nel motto di spirito e nel comico), ma “s’inserisce nella grande schiera dei metodi costruiti dalla mente umana per sottrarsi alla costrizione della sofferenza, una schiera che comincia con la nevrosi, culmina nella follia, e nella quale sono compresi l’intossicazione, lo sprofondare in se stessi, l’estasi.” (p. 315-316)

Il piacere dell’arguzia ci è parso derivare dal dispendio inibitorio risparmiato, il piacere della comicità dal dispendio rappresentativo (o di investimento) risparmiato e il piacere dell’umorismo dal dispendio emotivo risparmiato. In tutti e tre i modi in cui lavora il nostro apparato psichico il piacere discende da un risparmio; tutti e tre concordano su un punto: sono metodi per riacquistare dall’attività psichica un piacere che a rigore è andato perduto solo per lo sviluppo di queste attività. Infatti l’euforia che ci sforziamo di ottenere per queste vie non è altro che lo stato d’animo di un’età nella quale eravamo soliti provvedere con poco dispendio nella nostra attività psichica, lo stato d’animo della nostra infanzia, nella quale non conoscevamo il comico, non eravamo capaci di motteggiare e non avevamo bisogno dell’umorismo per sentirci felici di vivere. (p.258)



Anche il gioco per il bambino racchiude funzioni molto simili: in una prima fase gli serve a sviluppare padronanza del proprio corpo e dell’ambiente esterno, serve cioè prevalentemente per strutturare l’Io. In una seconda fase il gioco è motivato dalla necessità di ripetere attivamente ciò che il bambino ha subito passivamente attraverso una drammatizzazione del “trauma” vissuto, affinchè riesca a vincere e controllarne l’angoscia. Questa è una delle più importanti funzioni del gioco sottolineato da Freud (1920), con la celebre scena del gioco del rocchetto, svolto dal proprio nipote di un anno e mezzo intento a padroneggiare l’angoscia da separazione materna:

Ora questo bravo bambino aveva l’abitudine – che talvolta disturbava le persone che lo circondavano – di scaraventare lontano da sé in un angolo della stanza, sotto un letto o altrove, tutti i piccoli oggetti di cui riusciva a impadronirsi, talchè cercare i suoi giocattoli e raccoglierli era talvolta un’impresa tutt’altro che facile. Nel fare questo emetteva un “o-o-o” forte e prolungato, accompagnato da un’espressione di interesse e soddisfazione; secondo il giudizio della madre, con il quale concordo, questo suono non era un’interiezione, ma significava “fort” [“via”]. Finalmente mi accorsi che questo era un giuoco, e che il bambino usava tutti i suoi giocattoli solo per giocare a “gettarli via”. Un giorno feci un’osservazione che confermò la mia ipotesi. Il bambino aveva un rocchetto di legno intorno a cui era avvolto del filo. Non gli venne mai in mente di tirarselo dietro per terra, per esempio, e di giocarci come se fosse una carrozza; tenendo il filo a cui era attaccato, gettava invece con grande abilità il rocchetto oltre la cortina del suo lettino in modo da farlo sparire, pronunciando al tempo stesso il suo espressivo “o-o-o”; poi tirava nuovamente il rocchetto fuori dal letto, e salutava la sua ricomparsa con un allegro “da” [“qui”]- Questo era dunque il giuoco completo – sparizione e riapparizione – del quale era dato assistere di norma solo al primo atto, ripetuto instancabilmente come giuoco a sé stante, anche se il piacere maggiore era legato indubbiamente al secondo atto. (p. 200-201)

Inoltre si puo’ osservare il bambino continuare a giocare ripetutamente anche quando ogni timore è vinto, manifestando godimento e vivacità nell’atto stesso del giocare: in tal senso il bambino gode del piacere che deriva dal senso di padronanza sperimentato ogni volta in cui dimostra a se stesso l’innocuità di ciò che prima era fonte di angoscia. Un piacere cioè, sempre più libero dalle spinte dell’Es, in grado di fornire soddisfazioni narcisistiche all’Io per il solo svolgimento dell’attività, ossia maggiormente vicino all'autonomia secondaria, libera da conflitti (Hartmann, 1939).

Secondo Freud una delle motivazioni principali dell’uso della finzione nel bambino proviene dal suo desiderio di diventare “grande”: infatti nel bambino si può osservare un passaggio dall’atto concreto e agito del giocare (come i giochi di assegnazione di ruoli ai membri famigliari o a pupazzi), ad un uso sempre più simbolico del gioco in cui l’atto del giocare viene gradualmente interiorizzato sotto forma di “fantasie” e immaginazione.

Secondo la Klein (1932) il gioco rappresenta quello spazio in cui il bambino può mettere in scena fantasie, desideri, conflitti, angosce in maniera simbolica e quindi costituendo, al pari dei sogni, una lastra rispetto alle problematiche che il bambino cerca di elaborare.

Mentre secondo Winnicott (1971) il gioco è il fenomeno cardine del periodo transizionale, momento cruciale dello sviluppo del bambino in cui diventa in grado di esprimere il proprio mondo interno e allo stesso tempo si confronta col mondo esterno attraverso il nuovo linguaggio del simbolico.

"Non so che impressione io possa fare al mondo; quanto a me, mi sembra d'essere stato solo un ragazzo intento a giocare in riva al mare, che si distrae con questo e con quello, che trova un ciottolo più levigato e una conchiglia più bella delle altre, mentre il grande oceano della verità giace inesplorato di fronte a me." I. Newton


Bibliografia:


Freud S. (1905), Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. Opere Vol. 5, Boringhieri, Torino, 1967 – 1980

Freud S. (1920), Al di là del principio di piacere. in Opere Vol. 9, Boringhieri, Torino, 1967 – 1980

Hartmann H. (1939), Psicologia dell’Io e il problema dell’adattamento, Boringhieri, Torino 1966

Klein M. (1932), La psicoanalisi dei bambini. Martinelli, Firenze, 1969

Kris E. (1952), Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino, 1962

Winnicott D.W. (1971), Gioco e realtà, Armando Ed., Roma, 1992

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