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Dott. Stefano Andreoli

Genio e follia: relazione tra creatività e aspetti psicopatologici.

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Salvador Dalì, L'aurora, 1948


Introduzione

Vengo da una razza nota per la forza della fantasia e l'ardore della passione. Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell'intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell'intelletto in generale. Coloro che sognano di giorno sono consapevoli di molte cose che sfuggono a coloro che sognano solo di notte. E.A. Poe, Eleonora


L’equazione genialità e follia rappresenta ormai un luogo comune che si perde nei tempi, e in letteratura si incontra spesso una certa correlazione tra psicopatologia e attività artistica. Già Freud (1905) aveva notato come molto spesso i grandi motteggiatori mostrassero “una personalità scissa, con predisposizione alle malattie nervose.” (p. 165), e O. Rank (1907) quando scriveva che “solo l’artista va ancora barcollando sull’abisso della nevrosi” (p. 93).


Ma perché un uomo sceglie la via dell’arte invece che sviluppare un sintomo qualsiasi? E in che modo attività artistica e conflitti interiori si influenzano reciprocamente? La psicopatologia è causa o ostacolo alla genialità?


A tal proposito occorre precisare che Freud (1931) non equiparò mai direttamente la genialità alla malattia, constatando come, similmente per ogni attività umana, la genialità fosse presente sia in individui tendenzialmente “normali” che in quelli con aspetti marcatamente patologici.


In ogni epoca della storia dell’umanità sono esistiti matti, visionari, folli, nevrotici gravi e individui che la psichiatria definirebbe malati di mente, i quali hanno svolto funzioni importantissime, e non solo quando a causa della loro origine erano accidentalmente investiti dei pieni poteri. Perlopiù, ma non sempre, essi sono stati forieri di sventure. Persone di questo tipo hanno lasciato un’impronta profonda sugli uomini del loro tempo e dei tempi avvenire, hanno dato impulso a movimenti culturali importanti, hanno fatto grandi invenzioni e scoperte. Da una parte, queste sono state realizzazioni della componente integra della personalità; vale a dire, sono state compiute nonostante la malattia. Non si puo’ negare d’altra parte che spesso proprio gli attributi patologici della loro natura, gli orientamenti unilaterali del loro sviluppo, l’abnorme intensificarsi di alcuni moti di desiderio, la definizione acritica e sfrenata a un’unica causa hanno dato loro la forza di trascinare con sé altri uomini e di superare le resistenze del mondo esterno. Accade tanto spesso che un’opera grande corrisponda a una personalità psichicamente anormale che si è tentati di credere che la prima sia inseparabile dalla seconda; contro tale ipotesi sta l’eloquenza del fatto che in ogni capo dell’attività umana esistono grandi uomini che rispondono perfettamente ai requisiti della normalità. (p. 201)


E’ importante ricordare tuttavia che l’accostamento della malattia alla personalità geniale, può essere anche dovuto al forte senso di estraneità e di alterità che è in grado di suscitare il genio nel proprio contesto socioculturale. Infatti, come dimostrato dalla ricostruzione storica della figura dell’artista (Kris E., Kurz O.,1934), la sorte del genio è sempre stata quella di venire idealizzato fino a diventare oggetto di culto, oppure venire svalutato come il mero risultato di elementi patologici, come una sorta di scherzo della natura. Nel folklore popolare il genio viene considerato come dotato di un’aurea magica e sacrilega, spesso accostato allo stregone: le leggende più diffuse narrano infatti che l’artista abbia acquisito le sue doti attraverso un patto col Diavolo o che uccida i propri modelli per ritrarne più fedelmente l’espressione facciale (come si vedrà più avanti con i busti di Messerschmidt).



Attività artistica, opera e malattia

Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore. M. Proust


Tuttavia, che sia lo stesso conflitto a rappresentare lo stimolo essenziale per dare avvio all’attività artistica e come questa possa rappresentare una compensazione a squilibri psichici anche gravi, è oramai cosa nota: l’arte può fungere da strumento per far fronte a fenomeni iniziali quali la disgregazione del pensiero e la perdita del controllo della ragione che minacciano di distruggere la personalità. J. Chasseguet-Smirgel (1971) osservava infatti come l’arte nasca dal tentativo di riparare e riorganizzare un Sé con deficit narcisistici, ossia per colmare le falle originate durante lo sviluppo maturativo e tentare così una sorta di integrazione, di completezza dell’Io: “in questo senso la creazione è autocreazione e l’atto creativo trae il proprio impulso profondo dal desiderio di mitigare con mezzi propri le mancanze provocate da altri” (p.114) (per approfondimenti...)

Tesi già affrontata altrove da Adler (1933) nella sua “teoria compensativa della creatività” e ancor prima da Jaspers (1922) nella celebre metafora dell’ostrica che produce la perla come protezione per il granello di sabbia che si introduce come corpo estraneo.


Lo spirito creativo dell’artista, pur condizionato dall’evolversi di una malattia, è al di là dell’opposizione tra normale e anormale e puo’ essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell’opera non peniamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita. (K. Jaspers, p.12)


Quindi se la psicopatologia costituisce il movente iniziale dell’attività artistica, in corso d’opera essa può interagire con l’attività artistica in modo complesso, a volte inibendola, altre volte (raramente) rafforzando l’effetto finale dell’opera e accrescendone l’intensità. E dunque è possibile che il decorso della psicopatologia della personalità geniale possa riflettersi nei mutamenti cronologici delle sue opere dal punto di vista stilistico e tematico, in veste di disturbo, inibizione o corroborante dell’attività creativa. Il mondo dell’arte diviene cioè la rappresentazione del mondo interno in cui l’artista si dibatte tra sanità e follia, mostrandone di volta in volta il decorso.

Infatti, soprattutto nelle fasi iniziali di un episodio psicotico (o di un episodio maniacale), le capacità creative tendono ad intensificarsi e le opere d’arte di questo periodo diventano particolarmente significative per il pubblico (come accade durante il periodo espressionista). Ad esempio, senza una sintomatologia francamente psicotica, si può ipotizzare che difficilmente Van Gogh avrebbe potuto rappresentare i colori con un tale grado di brillantezza e intensità (alcuni hanno sostenuto addirittura che tale uso del colore fosse dovuto alla stessa percezione alterata del pittore).

D’altro canto, durante le fasi più avanzate della patologia dell’artista, la produzione può diventare sempre più criptica e personale. Ossia man mano che la malattia peggiora l’opera del malato diventa sempre più incomprensibile quanto la sua comunicazione: l’Io perde sempre più quella capacità formale e sintetica che permette di fornire il giusto equilibrio con l’Es. In quest’ottica, l’arte, secondo le intenzioni inconsce dell’artista, non servirebbe più a gettare un ponte comunicativo con il mondo esterno, ma a ricrearlo in modo magico senza più l’esame “dall’esterno” da parte dell’Io.


La schizofrenia non è creativa in sé: infatti, ci sono pochi schizofrenici come Holderlin o Van Gogh. La personalità, il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. In queste personalità la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano a queste profondità. (Jaspers, 1922, p.154)


C.G. Carus, Faust in his study (1852)

Dal canto suo, N. McWilliams (2011) ha sottolineato come il genio creativo disponga quasi sempre di tratti marcatamente schizoidi. Persone con questo tipo di carattere prevalente sembrerebbero maggiormente inclini alla ricerca filosofica e scientifica, alle discipline spirituali o alle arti creative, e sarebbero accumunati da alcuni aspetti personologici: eccentricità, un’elevatissima sensibilità già nell’infanzia, intensi conflitti a livello orale, tendenza all’isolamento, ingenti difficoltà all’adattamento sociale, un atteggiamento distaccato, evitante e sprezzante, la spiccata tendenza al ritiro nel mondo interiore dell’immaginazione…

Secondo la McWilliams, sarebbe il tratto schizoide (quando non pervade la personalità minacciandone una rottura psicotica) a permettere al genio di uscire dalle convenzioni sociali e apportare la propria soggettività generando innovazioni (spesso diventando un outsider). Per la sua indifferenza al conformismo, alla tradizione, alle norme sociali e ai giudizi altrui, il Sé schizoide cercherebbe nella propria opera la dimostrazione creativa della propria soggettività, originalità e unicità. Infatti se è pur vero che nella sua forma più acuta, il tratto schizoide è tipico della personalità psicotica, tuttavia, come per ogni altro nucleo psicopatologico dell’uomo, esso puo’ collocarsi lungo una vasta gamma di livelli, dal paziente ospedalizzato (a basso funzionamento), alle personalità dello spettro autistico (sindrome di Asperger o le personalità savants), al genio creativo (ad alto funzionamento).


Infine che l’attività creativa sia sempre in ultima istanza associata a nuclei depressivi è un fenomeno ben noto in letteratura (Fedida, 2002): H. Segal (1955) osservava infatti come tutta la creatività sia motivata dalla necessità di ri-creare qualcosa di perduto, e quindi come l'opera artistica rappresenti un tentativo di riparazione, di riconnessione, di ri-presentazione dell'oggetto interno (buono) perduto. In tal senso l’artista non sarebbe altro che un potenziale nevrotico che è riuscito a trasformare le proprie angosce depressive in un’opera senza dover sviluppare sintomi invalidanti (sebbene le tipiche inibizioni creative durante il processo creativo dimostrino quanto la linea di demarcazione tra i due sia estremamente sottile). (per approfondimenti...)


Dunque, se è vero che la malattia mentale è in grado di assottigliare il confine con il mondo ricco e caotico dell’inconscio, l’attività artistica ha sempre bisogno di un Io relativamente saldo per rendere un’opera comprensibile, cioè non totalmente criptica verso i significati inconsci dell’artista. Ad esempio, pensando ad alcuni grandi artisti gravemente disturbati che nonostante le difficoltà e le interruzioni sono comunque riusciti a continuare la loro attività creativa (come ad esempio H. Ibsen o Van Gogh), è possibile ipotizzare che il caos e la follia con cui continuamente dovevano lottare, non siano mai riusciti a pervadere e travolgere tutta la loro personalità. Lo dimostra il fatto che, nonostante la presenza di una sintomatologia invalidante (spesso molto grave, come episodi psicotici con sintomi positivi), questa rara tipologia di artisti spesso continui ad avere consapevolezza della propria malattia senza mai perdere cognizioni di spazio e di tempo, ossia intavolando con la follia “una resistenza disperata che s’oppone alle forze disgregatrici che avanzano lentamente.” (Jaspers 1922, p.167) L’attività artistica sembra infatti diventare a volte l’unico mezzo che permette loro di conservare il controllo, mantenere l’integrità e la costante tensione per non abbandonarsi a ciò che percepiscono come una sensazione perenne di crollo e di frammentazione improvvisa: non a caso Kris (1952) ha definito la creazione come “un momento e un sintomo di un tentativo di reintegrazione” (p.340).


Van Gogh, Autoritratto con orecchio bendato, 1889

Creatività e psicosi: il caso Messerschmidt (Kris, 1952)

Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare. R. M. Rilke


Kris (1952) ha descritto come, ad un certo punto della malattia, alcuni psicotici (sebbene una percentuale molto ridotta) inizino a dedicarsi intensamente e quasi ossessivamente ad attività creative:


Si manifesta un chiaro impulso a creare, utilizzando i materiali e gli strumenti più diversi. Qualsiasi pezzo di carta, le pareti o il pavimento vengono usati per disegnarci sopra; qualsiasi penna o stecca di legno può servire da strumento; la mollica di pane può servire a modellare figure; ogni pezzo di legno po’ diventare una scultura, incisa con pezzi di vetro rotto usati come coltelli. (p.83)


L’espressione artistica spontanea degli schizofrenici tuttavia è assai esigua e quando avviene in forma grafica si avvicina molto a quella del bambino, che tende alla stereotipia e a riempire tutto lo spazio vuoto con ipertrofia simbolica. L’autore ha spiegato tale fenomeno come un tentativo ripetuto da parte del malato di cercare di reinvestire gli oggetti esterni a causa dell’allentarsi sempre più marcato del rapporto col mondo esterno: l’aumento della produttività creativa sembrerebbe quindi manifestarsi in prossimità di una minaccia di sconvolgimento interiore.


Kris ha descritto diversi possibili scenari riguardo all’influenza della malattia sulla capacità artistica del malato: la capacità artistica può rimanere inalterata (non viene intaccata dal processo morboso); l’attività artistica può venire inibita dalla malattia per poi riprendere coi primi miglioramenti del malato; il disordine patologico può influenzare lo stile specifico dell’artista (attraverso cui è possibile scorgere tendenzialmente il decorso della malattia). In tal caso l’artista oscillerebbe incessantemente tra due tendenze: da una parte quella di attribuire alle figure rappresentate la sua stessa esperienza psichica e corporea, dall’altra quella di opporsi a questa inclinazione cercando di riprodurre un modello ideale di normalità “in un tentativo più complesso di ricostruzione psichica” (p.108).


E’ il caso dello studio condotto da Kris (1952) su F.X. Messerschmidt (1736 – 1784): un grande scultore che soffriva di una forma di psicosi paranoidea caratterizzata principalmente dall’idea delirante che alcuni demoni lo stessero perseguitando perché invidiosi della sua estrema abilità artistica.

Il fatto curioso è che in corrispondenza al primo episodio psicotico dello scultore (a circa 35 anni), si verificò un marcato mutamento di stile oltre che di interesse tematico nella sua opera: da quel momento Messerschmidt rifiutò ogni lavoro su commissione per dedicarsi esclusivamente ad una serie di busti in marmo o in piombo a grandezza naturale (più di 60 rinvenuti alla sua morte giunta 12 anni dopo). Ogni busto è stato creato (e intitolato) con l’intento di riprodurre la fisionomia facciale delle emozioni; ciò che però risalta subito all’occhio è che nella maggior parte dei casi i nomi attribuiti alle emozioni dei busti non corrispondono affatto a quelle suggerite dall’opera. Kris infatti, osservando i busti, notava la giusta presenza di una pervasiva rigidità e di una generale vuotezza delle espressioni, riprodotte molto spesso da una lampante tensione dei muscoli facciali quasi come tendenti ad espressioni esasperate, simili a smorfie. Infatti, per creare l’espressione del viso da riprodurre, lo scultore usava l’immagine del proprio volto riflesso in uno specchio: è possibile che la sua stessa espressione facciale venisse disturbata in modo ricorrente da intensi moti emotivi che insorgevano d’improvviso e in modo incontrollato.

Sorge spontaneo dunque supporre che attraverso l’attività artistica Messerschmidt tentasse di auto guarirsi: ciò che egli andava tentando in queste sue ripetute attività era infatti la ricerca di un’espressione facciale spontanea, “uno sforzo frenetico, e vano, per rappresentare un volto normale” (p. 106), al fine di ritrovare un mondo emotivo interiore che andava sempre più a dissolversi. E questo tentativo di ristabilire una “normalità” per combattere intense angosce psicotiche, viene trasmesso allo spettatore attraverso un generale manierismo esasperato dell’opera, che ne dona il tipico carattere inquietante, bizzarro, angosciante.


Franz Xaver Messerschmidt: busti fisiognomici

Conclusioni

Soltanto coloro ci quali lasciano entrare la luce nelle proprie viscere riescono a tradurre quel che c'è nel cuore. Henry Miller


Detto questo, si evince che l’arte per potersi produrre dev’essere inevitabilmente legata all’integrità e alla forza dell’Io: tanto più l’artista ha acquistato sicurezza e abilità nelle funzioni dell’Io, ossia diventando sempre più “autonome” dal conflitto originario (Hartman, 1939), quanto più egli potrà abbandonarsi all’immersione del proprio inconscio per trarne i migliori tesori, senza tuttavia rimanerne sommerso (sviluppando sintomi morbosi). (per approfondimenti...)

L’artista infatti è soggetto ad una “temporanea, parziale e controllata regressione dell’Io” che gli permette di attingere abilmente nella ricchezza simbolopoietica dell’inconscio (Kris, 1952): questo tipo di regressione creativa è la stessa che Platone denominava “follia produttiva” in contrasto con la profonda regressione narcisistica, duratura e incontrollata, del processo patologico dello psicotico.


Ma la differenza è chiara sotto due aspetti: in primo luogo, l’artista normale non crea per trasformare il mondo esterno, ma per rappresentarlo di fronte ad altri ch’egli intende influenzare; in secondo luogo, lo scopo del suo lavoro ha un preciso significato nella realtà. L’artista procede per tentativi ed errori, imparando; e i suoi modi espressivi, o il suo stile, mutano. L’artista psicotico crea per trasformare invece il mondo reale; egli non cerca un pubblico e i suoi modi espressivi non mutano più, una volta che il processo psicotico abbia raggiunto una certa intensità. (Kris, 1952, p.165)


A tal proposito giova ricordare anche Ellenberger (1970) che ha illustrato dettagliatamente il fenomeno della “malattia creativa”, usando come modello l’esperienza di sciamani, mistici, religiosi, artisti o alcuni grandi pensatori.


Una malattia creativa segue a un periodo dominato da un’idea e dalla ricerca di una certa verità o soluzione. Si tratta di una condizione polimorfa che puo’ presentarsi in forma di depressione, di nevrosi, di sofferenze psicosomatiche, o anche di psicosi. Quali che siano i sintomi, essi vengono sentiti dal soggetto come penosi, se non tormentosi, con periodi alterni di sollievo e peggioramento. Nel corso della malattia il soggetto non perde mai il filo della sua preoccupazione dominante, che spesso è compatibile con una normale attività professionale e con la vita di famiglia. Ma anche se il soggetto mantiene le sue attività sociali, egli è quasi interamente assorbito da se stesso; soffre di sensazioni di isolamento assoluto, anche quando ha un mentore che lo guida attraverso le ordalie (come l’apprendista sciamano con il suo maestro). La conclusione spesso è rapida e segnata da una fase di buon umore. Il soggetto esce dalla sua ordalia trasformato permanentemente nella propria personalità e con la convinzione di aver scoperto una grande verità o un nuovo mondo spirituale. (p. 515 - 516)


Ciò che distingue la malattia creativa dalla nevrosi ossessiva è il suo carattere creativo, la sua “guarigione” spontanea e un senso di esaltazione quasi maniacale al suo termine: essa rappresenta una sorta di passaggio interiore obbligato prima che l’individuo possa condividere la propria “scoperta” con il mondo esterno. Di fatto lo stesso Freud, scandagliando il proprio inconscio spinto senza ombra di dubbio dalla necessità di farsi una autoterapia, gettò le fondamenta alla sua nuova disciplina (Anzieu [1975] elencò ben 116 nozioni o concetti teorici che, secondo l’autore, furono elaborati da Freud in questo fecondo periodo di autoanalisi). (per approfondimenti...)


E dunque l’opera di genio non può essere mai considerata solo l’espressione sintomatica dei conflitti psicopatologici dell’autore in quanto essa rappresenta il frutto straordinario, proveniente in gran parte dalla soggettiva immersione nel proprio inconscio, di ciò che l’artista ha saputo fare della propria vita e dei propri conflitti per mezzo dei suoi talenti. Infatti “la conoscenza dei conflitti e delle fantasie inconsce di un artista non spiega a sufficienza perché la loro elaborazione diventa arte” (Hartmann, 1951, p. 238). Similmente scriveva Jung (1922): “La causalità personale ha con l’opera d’arte la medesima relazione che ha il terreno con la pianta che gli cresce sopra. […] La pianta non è semplicemente un prodotto della terra, essa è anche un processo che sta a sé, vivente e creatore, la cui essenza nulla ha a che vedere col carattere del terreno.” (p. 29-30)


Sappiamo, per esempio, che i problemi del Faust hanno perseguitato Goethe per tutta la vita; ancora ventunenne iniziò l’Urfaust e stava ancora lavorando alla seconda parte quando morì nel 1832. La produzione abituale di Flaubert era di una o due pagine al giorno; gli occorsero sette anni prima di terminare Madame Bovary. Vermeer e Giorgione lavoravano molto lentamente e tutto sommato lo stesso si può dire di Beethoven. Leonardo ha lavorato quindici anni alla Gioconda, e questo solo per ricordare alcuni “creatori”. Invece Mozart creava rapidamente (l’esempio più famoso è l’ouverture del Don Giovanni), così come Haydn e Bach. Balzac scriveva rapidamente, come Simenon, la cui produzione abituale era di un romanzo ogni quindici giorni. Gran parte delle opere di Van Gogh sono state dipinte in due anni. Possiamo ipotizzare che degli intensi conflitti a livello edipico possano accelerare o inibire la velocità del processo creativo, ma sembra che ciò che realmente conta, al di là e al di sopra di questi conflitti, sia l’organizzazione psichica dell’individuo e la struttura della sua area creativa. (Jamison, 1993, p. 147)



Bibliografia:


Adler A. (1933), Il senso della vita. Newton Compton, Roma, 1997.

Anzieu D. (1975), L’autoanalisi di Freud e la scoperta della psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 1978.

Chasseguet-Smirgel J. (1971), Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività. Raffaello Cortina Ed., Milano 1989

Ellenberger H.F. (1970), La scoperta dell’inconscio, 2 volumi, Bollati Boringhieri, Torino, 1976.

Fédida P (2002), Il buon uso della depressione, Einaudi, Torino, 2002.

Freud S. (1901), Frammento di un’analisi d’isteria, Opere Vol. 4, Boringhieri, Torino, 1967 – 1980.

Freud S. (1905), Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio. Opere Vol. 5, Boringhieri, Torino, 1967 – 1980.

Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. Opere, 7, Boringhieri, Torino, 1967 – 1980.

Freud S. (1931), Introduzione allo studio psicologico su Thomas Wilson, In Opere Vol. 11 Boringhieri, Torino, 1967 – 1980.

Hartmann H. (1939), Psicologia dell’Io e il problema dell’adattamento, Boringhieri, Torino 1966.

Hartmann H. (1951), Saggi sulla psicologia dell’Io, Boringhieri, Torino 1976.

Jaspers K. (1922), Genio e follia. Analisi patografica di Strinberg, Van Gogh, Swedemborg, Holderlin, Raffaello Cortina Ed., Milano 1990.

Jung C.G. (1922-1950). Psicologia e poesia. Bollati Boringhieri. Torino, 2000

Jamison K.R. (1993), Toccato dal fuoco: temperamento artistico e depressione. TEA, Milano, 2004.

Kris E. (1952), Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino, 1962.

Kris E. e Kurz O. (1934), La leggenda dell’artista. Un saggio storico, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

McWilliams N. (2011), La diagnosi psicoanalitica, Astrolabio, Roma 2012.

Rank O. (1907), L’artista. Approccio a una psicologia sessuale, SugarCo, Milano, 1986.

Segal H. (1955), Un approccio psicoanalitico all’estetica, in: Nuove vie della psicoanalisi, Il Saggiatore, Milano, 1971.

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