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Identità della psicoanalisi, mito della neutralità, tecnica iatrogena e analisi del transfert.


Per Freud (1922) “psicoanalisi” significava una teoria metapsicologica, una tecnica terapeutica e un ambito di ricerca: tutti e tre aspetti della medesima disciplina strettamente legati tra loro e quindi non scindibili in senso autonomo.

Per lungo tempo la psicoanalisi volle sempre vedersi differenziata dalle altre psicoterapie, che si riteneva agissero per mera suggestione, siccome era convinzione comune che la psicoterapia manipolasse il transfert (cioè tramite interventi volte a indirizzare le emozioni del paziente), mentre la psicoanalisi si limitasse ad analizzarlo (Glover, 1955). Col tempo la psicoanalisi subì varie frammentazioni con la formazioni di numerose scuole di pensiero sviluppando dibattiti, conflitti e “dissidenti”, spesso a causa di differenze tecniche e istituzionali, piuttosto che teoriche. Celebre fu il dibattito critico con Alexander (1946), secondo cui era necessario un intervento attivo sul setting analitico allo scopo di fornire una “esperienza emozionale correttiva” per il paziente (cioè il terapeuta deve avere un atteggiamento intenzionalmente diverso da quello assegnato transferalmente dal paziente). Finì che col tempo le correnti più ortodosse stabilirono dei “criteri intrinseci” ed “estrinseci” (Gill, 1954) per definire cosa distinguesse la psicoanalisi dalle psicoterapie: ossia la centralità dell’analisi del transfert, la neutralità tecnica dell’analista, l’induzione di una nevrosi di transfert regressiva, l’uso dell’interpretazione come principale strumento terapeutico (per quanto riguarda i primi criteri) e gli elementi del setting come l’uso del lettino, la frequenza delle sedute e la selezione dei pazienti (per quanto riguarda i secondi).


Questi dissidi nacquero proprio nei momenti in cui la psicoanalisi non veniva più impiegata coi “classici nevrotici”, ma iniziava ad essere sperimentata per diverse forme cliniche (Sullivan che lavorò principalmente con psicotici, la Klein con i bambini, Kohut e Kernberg con disturbi di personalità gravi…). Spesso accadeva infatti che fossero la sola tecnica, il giusto “setting”, le corrette regole di comportamento a definire cosa fosse la psicoanalisi e cosa no, rendendola sempre più una pratica ritualizzata tramandata ciecamente di generazione in generazione. Divenne quindi più spesso la sola “tecnica” a discriminare cosa fosse la psicoanalisi e cosa no, tanto che Eissler (1953) introdusse il concetto di “parametro”: egli teorizzò un “modello di tecnica di base” ideale, e tutte le modificazioni a questo modello come parametri tecnici (come la rassicurazione, la posizione vis-a-vis, il consiglio, la prescrizione di un determinato comportamento…). Tale tecnica poteva ancora dirsi psicoanalitica se l’introduzione del parametro (introdotto solamente nel caso la tecnica di base non si fosse dimostrata sufficiente), avesse condotto alla sua autoeliminazione col tempo e senza ripercussioni sul transfert tali da non poter più essere analizzabile. Non c’è da stupirsi se tale “giustificazione” razionale per differenziare la psicoanalisi dalla psicoterapia portò ulteriori problemi e questioni, piuttosto che soluzioni soddisfacenti (come decidere quando introdurre un parametro e quando farne a meno, fino a che punto si riesce a stabilire il confine esatto tra il senso del parametro e vere modificazione del setting, il rischio continuo che la resistenza venga alla fine accantonata senza essere stata analizzata…).


La svolta di M.Gill con “l’analisi del transfert” (1982)

A distanza di quasi trent’anni dalla sua prima posizione, M.Gill (1982) rivide completamente il proprio pensiero, considerando non solo la marginalità d’importanza dei criteri estrinseci, ma ritenendo la psicoanalisi spendibile nelle più diverse situazioni e in una gamma molto più ampia di pazienti di quanto non si credesse, sovrapponendo praticamente la concezione di psicoanalisi “pura” alla psicoterapia psicoanalitica o cosiddetta psicodinamica.

Iniziando dai fattori “estrinseci”, cioè quelli relativi all’importanza del setting, Gill fece un’acuta osservazione: l’insistenza da parte dell’analista di una certa frequenza delle sedute (su cui tra l’altro, non esistono studi controllati o prove empiriche che ne dimostrino una frequenza ottimale), l’uso “forzato” del lettino (giustificato, come è risaputo, da una difesa controtransferale di Freud che non voleva essere fissato per otto ore al giorno), non sono forse anche queste (se non analizzate nelle loro ripercussioni transferali), forme di manipolazioni del transfert simili di cui fu accusato Alexander? D’altronde, ai clinici con esperienza oramai è ben noto che l’uso del lettino (che alcuni trovano elemento indispensabile e inscindibile dalla psicoanalisi), puo’ essere esso stesso fonte di resistenza per tutta quella gamma di pazienti che provano un desiderio eccessivo di sprofondarvisi (Migone, 2010) o che a loro volta preferiscono evitare il contatto visivo diretto con l’analista (aspetti che di rado vengono analizzati, perché facenti parte delle regole “standard” che l’analista si aspetta dal paziente).


Il mito della neutralità analitica

Le posizioni più ortodosse sostenevano che l’analista potesse rimanere completamente al di fuori del campo relazionale senza influenzare minimamente il transfert del paziente, mentre in realtà, le manifestazioni del transfert non sono solo il frutto di una pura ripetizione del passato, ma una delle tante possibili risposte al comportamento “reale” e presente dell’analista. In stanza d’analisi si è dinanzi ad una commistione quasi inestricabile tra transfert e atteggiamenti realistici dell’analista: esiste sempre e comunque uno stimolo “reale”, attuale, che funge da punto di attacco del transfert. Senza contare il fatto che, come aveva già fatto notare Sandler (1976) con la “risonanza di ruolo” e più tardi Ogden (1982) con l’analisi della dinamica innescata dall’identificazione proiettiva, il paziente inconsciamente induce l’analista a conformarsi al ruolo richiesto dal transfert e le sue proiezioni, stimolando cioè continuamente il suo controtransfert,


Dunque dato che l’influenza dell’analista è inevitabile, tanto vale diventarne coscienti in ogni sua forma e considerare anch’essa come materiale d’analizzare (anche tramite domande dirette cercando di esplorare nel qui e ora i significati e le emozioni del paziente, ciò che Gill definisce come “interpretazione della resistenza alla consapevolezza del transfert”), affinchè non si operi involontariamente una manipolazione del transfert, convinti di fare, con ironia, invece che psicoanalisi, proprio quella psicoterapia tanto temuta basata su suggestione.


In tale ottica inoltre il ruolo del silenzio nelle libere associazioni (che col tempo era diventato una tecnica aprioristica per caratterizzare l’assoluta neutralità psicoanalitica) si inserisce comunque in una concezione “bipersonale” e “sociale” della coppia analitica (Hoffman, 1998). Se il silenzio, ad esempio, oltre a rappresentare l’atteggiamento dell’analista in ”attenzione liberamente fluttuante” o come intervento per permettere all’analizzando di “ascoltarsi”, diviene a monte una strategia tecnica costante (a duplice scopo: nella convinzione di non influenzare il transfert e di produrre – quindi manipolativamente – una nevrosi di transfert), allora puo’ addirittura inficiare il transfert e la neutralità, anziché promuoverli. Ovviamente, come accade spesso coi kleiniani o i lacaniani, anche interpretazioni precipitose e interventi eccessivi possono avere un peso importante sugli atteggiamenti del paziente: in ogni caso, l’analista non puo’ esimersi dalla relazione. Già Janet, al 17° Congresso di medicina a Londra del 1913 criticava il metodo delle libere associazioni poiché accusava il terapeuta, senza accorgersene, di influenzare il corso delle associazioni


Dunque è impossibile non interagire col paziente cosicchè “l’analisi è sempre una conversazione, mai un soliloquio” (Migone, 2010). Ciò che intende quindi sottolineare Gill è che un’analisi che pone come esclusiva priorità il passato del paziente rischia di subire gli influssi suggestivi dell’interazione presente con l’analista: negare o evitare di soffermarsi sull’influenza inevitabile dell’analista non farà altro che permettere al transfert di esercitare i suoi effetti in maniera implicita, indiretta. Non si puo’ impedire quindi che la situazione reale impatti sul transfert, anche se questo non contrasta, come già affermava Freud, con l’intento di ridurre al minimo gli stimoli esterni affinchè il transfert possa essere maggiormente visibile e districabile e al fine di fornire una certa sicurezza di setting che permetta al paziente di muoversi liberamente in ogni sua espressione.


L’induzione della nevrosi di transfert

Uno degli esempi più eclatanti in letteratura classica è stata la posizione della Macalpine (1950) secondo cui determinati aspetti fissi del setting sono indispensabili per dare origine a quei fenomeni indispensabili al processo analitico, come la nevrosi di transfert. a tal proposito Gill osserva una forte contraddizione negli enunciati della tecnica classica: se il transfert viene concepito come spontaneo e intrinseco in ogni paziente, perché allora operare attraverso un setting specifico infantilizzante, che stimola cioè attivamente a regressione del paziente (attraverso ad esempio l’uso forzato del lettino, l’impossibilità di vedere direttamente l’analista, il silenzio precostituito imposto dall’analista…)? E tale regressione non sarebbe dunque il prodotto iatrogeno e manipolatorio del terapeuta, piuttosto che il fenomeno che si è sempre definito come una spontanea nevrosi transferale?


Già alcuni neofreudiani come E. Fromm e Frida Fromm Reichmann (1950), avevano osservato come non fosse necessario infantilizzare ulteriormente il paziente più di quanto non agisse già la sua psicopatologia, dato che nel lavoro clinico notarono come i risultati positivi della terapia avvenissero indipendentemente dalla nevrosi di transfert indotta dall’analista. Dunque proprio l’analista convinto di stare operando in modo da osservare i fenomeni in modo distaccato e neutrale (come uno blank screen), in realtà sta creando artificialmente dei fenomeni (senza andarli poi ad analizzare) illudendosi che poi avvengano spontaneamente. In tale ottica, l’analista ritirato, evitante, eccessivamente silenzioso, provoca nel paziente una regressione iatrogena, non una riattivazione del passato. Ad esempio colpisce ancora leggere le pagine di Racker (1968) riferendosi alla deformazione che ha subito col tempo la tecnica freudiana: “(…) Freud interpreta continuamente, dando interpretazioni dettagliate e, a volte, molto estese (parlando, più o meno quanto il paziente) e che la seduta è un dialogo aperto. Coloro che collegano il concetto di ‘tecnica classica’ alla predominanza di un monologo da parte del paziente con poche e, in genere, brevi interpretazioni da parte dell’analista, dovranno concludere, come ho detto, che Freud da questo punto di vista, non era un ‘analista classico’.” (p. 35)


Curioso il fatto che tale rigore tecnico andò formandosi nonostante lo stesso Freud decise fin dapprincipio di non codificare regole da seguire meccanicamente (ma parlò piuttosto di “consigli”): era sua convinzione infatti che non si potevano prescrivere comportamenti standardizzati in quanto la situazione analitica era talmente variabile ed eterogenea che gran parte spettava alla personalità del singolo analista.


Dunque la concezione psicoanalitica classica che riteneva di riuscire a far emergere un transfert “incontaminato” sembra essere altrettanto errata alla concezione delle psicoterapie secondo le quali il transfert possa essere gestito, controllato e diretto solamente con l’uso di tecniche specifiche o di modificazioni al setting (i famosi “criteri estrinseci”). Il concetto che la situazione analitica appartenga totalmente al passato o al presente, è una mera astrazione, così come considerare la figura dell’analista solo come presenza tecnica, professionale (esclusa nella relazione reale) o solo come presenza umana (nelle sue qualità personali e d empatiche).


Riferimenti bibliografici:

Eissler K. (1953). Effetti della struttura dell’Io sulla tecnica analitica. In: Genovese, Setting e processo analitico, Raffaello Cortina Ed., 1988.

Freud S. (1922). Due voci di enciclopedia: “Psicoanalisi”. 1. Psicoanalisi. Opere, 9. Torino, Boringhieri, 1977.

Fromm-Reichmann F. (1950), Principi di psicoterapia. Feltrinelli, Milano, 1981.

Gill, M.M. (1982), Teoria e tecnica del transfert, Astrolabio, Roma, 1985

Glover E. (1955), La tecnica della psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 1971.

Hoffman, I. (1998), Rituale e spontaneità nella situazione psicoanalitica. Astrolabio, Roma, 2000.

Macalpine (1950). Lo sviluppo della traslazione. In: Genovese, Setting e processo analitico, Raffaello Cortina Ed., 1988.

Migone P. (2010), Terapia psicoanalitica. Seminari. Milano: FancoAngeli, 2010.

Ogden T. (1982). L’identificazione proiettiva e la tecnica psicoterapeutica. Astrolabio, Roma. 1994.

Sandler J. (1976). Controtransfert e risonanza di ruolo. In Alberella e Donadio, Il Controtransfert, Liguori, Napoli 1986.

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