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Uno sguardo analitico sul film “Il filo nascosto” (2017) di P.T. Anderson


Qual è quell'elemento misterioso, incomprensibile, magico, ossia il "filo nascosto" in grado di tenere uniti un uomo e una donna per il resto della loro vita?



Dopo l'eterno "Scene di un matrimonio" di Bergman (1973) e il provocatorio "Luna di fiele" di Polanski (1993), nel rispondere a questa complessa domanda, ci riprova il regista P.T. Anderson (scegliendo l'attore garanzia assoluta D.D.Lewis) col suo ultimo capolavoro, un film sottile e penetrante che sussurra al simbolico: "Il filo nascosto" (2017).



[Attenzione spoiler!] Il film, ambientato in una Londra anni '50, parla del ricco e rinomato stilista e sarto Reynolds J. Woodcock: personalità estremamente carismatica, narcisistisca e ossessiva, autoritaria, raffinata e con un savoir-faire irresistibile. A scandire la routine maniacale tutta improntata sul lavoro di questo "scapolo impenitente" (come si definisce lo stesso Reynolds), sono le tante donne che, come orpelli ornamentali di pura funzione estetica, di volta in volta vengono fagocitate nella vita dell'artista come appendici, ombre sempre a disposizione pronte a soddisfarne capricci in ogni momento della giornata. La dinamica sembra essere sempre la medesima: lui le seduce assumendole come indossatrici (degli abiti che le donne dell'alta società bramano per ogni occasione, sognando addirittura di venire sepolte con uno di essi al termine della loro vita), e queste "privilegiate" iniziano a far parte della sua vita sontuosa come spettatrici completamente passive, senza alcun potere decisionale. Prendere o lasciare: chi non rispetta le regole viene cacciato, sotto delega, dalla sorella arcigna e seriosa, luogotenente fidato, factotum e coscienza morale della casa, che non manca di accompagnare il fratello dovunque, come fossero siamesi. Sono gli abiti creati da Reynolds a far esistere queste donne trasparenti, come una seconda pelle che le rende visibili e valorizzate a se stesse e agli occhi degli altri. Come un Dio onnipotente, prima le crea eppoi le distrugge, una volta che si stanca di loro.



Finchè... finchè non incontra Alma, una cameriera di umili origini, che vede per caso nel bar in cui lavora. Bastano pochi sguardi, qualche salace battuta e un invito sprezzante a cena, che subito Alma rimane ammaliata fin dal primo momento dal fascino di quell'elegante signore seduto in un angolo che continua a sorriderle e incuriosirla. Rimane emblematico già il primo appuntamento in cui, come da norma, dopo una cena alquanto eccentrica, la accoglie in casa e, una volta spogliata, invece che lasciarsi andare in passionali effusioni, le prende le misure per decidere di farle subito un vestito, come fosse un manichino... mentre la sorella, quasi come entrando in scena al momento giusto, si annota le misure che le vengono dettate, comodamente sul divano dinanzi a loro. Non manca molto affinchè anche la neo arrivata stia per essere sostituita con la prossima fiamma. Un giorno però Alma si accorge che il grande e vigoroso Reynolds, al termine delle sue sfarzose sfilate e dei suoi capolavori di cucito, è solito cadere in uno di quei periodi di latenza depressiva, in cui, demotivato e svuotato, rimane a letto per giorni interi. Ed è solo in quei momenti di fragilità che Alma, facendo uscire la crocerossina che è in lei, riesce ad avvicinarsi a lui e averlo tutto per sè senza nessuno tra i piedi. E’ in quei momenti di totale vulnerabilità che Reynolds si accorge davvero di lei e dell’importanza di averla lì, al suo capezzale, pronta per assisterlo e prendersi cura di lui come una madre con il proprio infante. Perchè sì, la scena edipica viene dichiarata esplicitamente senza sottili fraintendimenti dallo stesso regista, prima attraverso l’ammissione di Reynolds che racconta - a cena! - di avere cucito nella fodera della giacca una ciocca dei capelli della madre per tenerla sempre sul cuore, e più tardi - sotto l’effetto di funghi psicotropi - attraverso una vera e propria allucinazione della madre in abito da sposa (uguale alla foto incorniciata mostrata ad Alma in quel fatidico appuntamento), che gli appare in camera da letto una volta moribondo.

La sorella Cyril, Reynolds e Alma nel "sacro" momento della colazione

Il fatto curioso, il colpo di scena totalmente inaspettato, è che questa “scoperta” porta Alma ad una rivalsa, ad una sorta di ribellione sovversiva rispetto alle regole categoriche della casa e alla stessa figura autoritaria di Reynolds, attingendo la propria forza nel maelstrom creativo della follia, della perversione. Infatti l’apparente indifesa e innocua Alma, arriva ad avvelenare volontariamente l’amato, aggiungendo ai suoi pasti una minima dose di funghi velenosi accuratamente tritati, quanto basta per costringerlo a letto - e sul gabinetto - per qualche giorno, e riuscire così a vivere quell’intimità esclusiva e simbiotica, non raggiungibile altrimenti. Ecco che il vecchio leitmotiv ben conosciuto in letteratura che vede il narcisista (carnefice) trovare nel masochista (la vittima) il legame morboso perfetto, ben presto viene totalmente rovesciato da un’inversione di ruoli in cui è Alma ad avere il controllo e il potere sulla salute e sull’efficienza produttiva di Reynolds. La mossa sembra funzionare: Reynolds decide di sposarla e averla al suo fianco per il resto della sua vita.



Ma la vita coniugale si dimostra ben presto tutt’altro che facile: spodestato dal trono di tiranno assoluto, Reynolds si trova a dover fare i conti con tutti i compromessi, i sacrifici e lo smussamento degli spigoli caratteriali più acuti che la vita di coppia necessariamente impone per poter sopravvivere, in un susseguirsi di battibecchi, gelosie, rimorsi, nostalgie e qualche parola di troppo. Finchè la situazione non arriva al suo parossismo. Infatti quella che forse si puo’ definire la “scena madre” del film, ritrae Reynolds in cucina che, seduto a tavola per consumare la pietanza che Alma sta cucinando tanto amorevolmente, diviene consapevole dello scaltro “trucco” dei funghi. Ciononostante, durante un lungo silenzio fatto di sguardi, sorrisi, primi piani e lente carrellate sulle note di musica classica, Reynolds decide di ingoiare lo stesso quel pericoloso boccone, puntando minacciosamente la forchetta alla gola di Alma. “Non morirai. Ti voglio inerme. Sottomesso. Poi di nuovo forte ma eternamente mio“ dice Alma mentre lo guarda mangiare il pasto avvelenato. Lei che in effetti ha sempre fatto di tutto per averlo solo per sè, dopo litigi, gelosie e sorprese finite male. Il momento di crisi diviene - come al solito - il momento più propizio per far emergere la creatività e nuove soluzioni.



Il patto è stipulato, le carte di entrambi vengono scoperte per far spazio a questo gioco conturbante. E così fino alla fine, in questo particolare equilibrio nella relazione che vede ciclicamente altalenare periodi di “normalità” quotidiana e ruotinaria, a momenti di intossicazione alimentare in cui Alma ritorna ad indossare le vesti di zelante infermierina per il povero malato Reynolds.


La scena epica in cui Reynolds sta per addentare volontariamente il boccone avvelenato.

Quindi, cosa si puo’ trarre dal film? Alcuni hanno definito la pellicola di Anderson di stampo pessimistico (io dico realistico). Perchè dimostra come siano proprio i nuclei patologici irriducibili, residuali, transferali dei protagonisti che si accoppiano (matching) vicendevolmente come pezzi complementari di un tetris, a fornire quel quid irrinunciabile in grado di rendere l’altro “particolare e necessario”. E’ grazie a quella piccola perversione, che la coppia è in grado di rinsaldarsi durante i momenti di crisi (in una sorta di gioco di potere sadomasochistico). Chiaro, in una dialettica costante, perennemente faticosa e senza fine, che attraverso i vari tentativi di crescita da parte dell’individuo e quindi della coppia, punta a considerare l’altro sempre più come la persona che è, con le sue qualità e i suoi difetti (oggetto intero), e sempre meno come la persona che dovrebbe essere in base ai propri bisogni narcisistici (oggetto parziale). Ma fino ad un certo punto. Perchè l’uomo rimane sempre irriducibilmente e profondamente umano.



Osserviamo ad esempio la figura di Reynolds divinamente interpretata (D.D. Lewis si sarebbe meritato il suo 4° Oscar), attraverso le sue varie sfumature. All’inizio si presenta distaccato, anaffettivo, totalmente immerso nella sua attività lavorativa fatta di spilli, merletti e ricami, più legato ai defunti che al mondo dei vivi, trattati per lo più in modo puramente narcisistico. Non c’è mai un’allusione sessuale o sensoriale, è tutto angosciosamente candido, puramente estetico, astratto, minimalista (come la scena in cui Reynolds alla prima cena con Alma, le toglie il rossetto dalle labbra con una goccia di vino). E’ Alma che lo farà scontrare con la realtà in carne ed ossa, costringendolo a fare i conti con le inevitabili fattezze ambivalenti della vita in quanto tale. E paradossalmente, ci riuscirà utilizzando come chiave di accesso il passato (il transfert materno), e poter così costruire, con fatica, l’unicità e l’intimità richieste dalla relazione presente.


E come accade spesso nel mondo del cinema, è il cibo stesso (simbolo per antonomasia del desiderio - “9 settimane e ½” di A.Lyne -, dell’Eros - “Choccolat” di L. Hallstrom -, di unione e umanità - “Il pranzo di Babette” di G.Axel -, ma anche di morte - “La grande abbuffata” di M.Ferreri -), a riassumere ancora sul piano simbolico i vari aspetti della relazione: una volta assume pura e sterile funzione estetica (la crema deve sempre esserci, come se il candore non potesse mancare nemmeno a tavola), poi gustoso e indigesto nutrimento (gli asparagi intrisi di burro proposti provocatoriamente da Alma), campo di battaglia e sfida (le colazioni “rumorose” di Alma)... fino a diventare l’anello di congiunzione a connotazione ambivalente (i funghi velenosi) tra passato e presente, esteriorità (mondo reale) e interiorità (mondo fantasmatico), relazione transferale e relazione reale.

Alma che riabbraccia il suo Reynolds dopo essergli sfuggita per andare a ballare.

Dunque, è vero che il transfert e la corrispondente coazione a ripetere (da cui Freud teorizzò l’istinto di morte nel 1920 col suo “Al di là del principio del piacere”) - ossia il ricercare nella vita adulta relazioni simili a quelle avute in infanzia, per quanto negative o autodistruttive possano essere -, rappresentano un forte limite alla relazione e la crescita stessa della persona, affondando radici nella gratificazione/riparazione di antiche relazioni infantili mediante quelle presenti (per cui la persona reale della vita adulta viene deformata dalle “lenti” proiettive che si ostinano a vederne solo la figura di attaccamento del passato). Ma è anche vero che è proprio questo aspetto a rappresentare nella relazione quel “filo nascosto” (lo stesso che Reynolds usa per lasciare messaggi nascosti nei suoi vestiti), in grado di tenere unito in una sorta di precario equilibrio, il contenuto delle sue allucinazioni (la cara adorata madre) alla donna che le ha provocate, salvando una relazione sul punto della fine. Come se questo rappresentasse quindi non solo un elemento imprescindibile, ma addirittura necessario e importante per la vita della relazione stessa.



D’altronde è la stessa letteratura (Pfeffer, 1963; Buckley, 1981) a mostrare come il transfert, anche se potenzialmente meglio gestito e compreso dopo anni, anni, e anni di analisi personale, persista anche al termine della terapia come qualcosa di ineliminabile alla radice. Anche Jung (1935) sosteneva come fosse la stessa imperfezione umana a rappresentare il ponte e lo stimolo per avvicinarsi e avere necessità dell’altro: perfetti e senza Ombra (ovviamente in una condizione ideale, inesistente sul piano reale), saremmo completamente autarchici dal punto di vista relazionale. E infine, è stato lo stesso Freud, come sempre, ad averlo già detto da tempo: “il transfert è un clichè che perdura tutta la vita” (1912).



“L'amore è un potere attivo dell'uomo; un potere che annulla le pareti che lo separano dai suoi simili, che gli fa superare il senso d'isolamento e di separazione, e tuttavia gli permette di essere sé stesso e di conservare la propria integrità. Sembra un paradosso, ma nell'amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due. 
(...) L'amore immaturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo. 
(...) Dare significa fare anche dell'altra persona un essere che dà, ed entrambi dividono la gioia di sentirsi vivi. Nell'atto di dare qualcosa nasce, e un senso di mutua gratitudine per la vita che è nata in loro unisce entrambe. Ciò significa che l'amore è una forza che produce amore.” 


Erich Fromm
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