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Dott. Stefano Andreoli

Setting e funzione analitica


Scopo del setting analitico è quello di assicurare un’atmosfera di sicurezza per il paziente: egli deve poter avere uno spazio in cui poter regredire, abbassare le difese, affrontare temi spinosi, esprimere sentimenti o pensieri inaccettabili e sperimentarsi lasciando spazio all’inconscio, senza timore di giudizi o attacchi da parte del terapeuta. R.Langs (1985) parla di due tipologie di costanti per garantire tale sicurezza al paziente: una inerente al setting stesso (assenza di contatto fisico, frequenza, tariffa, orario e luogo delle sedute…), l’altra riguardante l’atteggiamento dell’analista (riservato, non giudicante, con la disposizione alla libera associazione…). D’altronde, sono proprio le caratteristiche di questo setting diverso da tutte le altre interazioni sociali del paziente, a permettergli la libertà di poter sperimentare qualcosa di nuovo, atipico, sconosciuto.


Tuttavia, come sottolineato dallo stesso Freud in una lettera a Ferenczi del 1927, quando per garantirsi tale sicurezza, la tecnica analitica viene praticata troppo rigidamente conservando eccessivamente i confini all’interno della relazione, il paziente puo’ avvertire la sensazione di esagerata freddezza, affettazione e inflessibilità da parte del terapeuta. Dunque il timore che una qualsiasi forma di manifestazione di calore e di vicinanza possa inevitabilmente portare ad una violazione del setting, è tale che l’analista diventa reattivamente una copia pietosa del fantomatico “chirurgo” obiettivo, dove la regola dell’astinenza diventa automatica e ritualizzata.

Considerando invece l’altra faccia della medaglia, negli anni Cinquanta sono nati interventi come l’esperienza emozionale correttiva (Alexander, 1950), che riguardava l’interpretazione attiva di un ruolo consciamente progettato allo scopo di prescrivere il comportamento dell’analista come opposto rispetto a quello dei genitori del paziente. Oppure altri, come Loewald (1960), hanno considerato il rapporto analitico come una riproduzione esatta del rapporto genitoriale, in cui l’analista diventa il “genitore buono” ideale che sostituisce il “genitore cattivo”, compensando il trauma passato.


Gabbard (2017) invece fa notare come il processo mutativo della psicoanalisi (che solo in tal senso è indirettamente “correttivo” per l’esperienza intrinseca della psicoanalisi), include sia il raggiungimento dell’insight attraverso l’interpretazione, sia l’interiorizzazione della relazione con l’analista. Quindi l’analista rappresenterebbe sia l’oggetto vecchio (transferale), sia il soggetto di lavoro bipersonale e infine il nuovo oggetto interiorizzato attraverso la relazione. E’ ciò che Ogden (1997) chiama “terzo analitico” come prodotto nuovo dell’intersoggettività tra paziente e analista. Inoltre Gabbard (2017) e Kohut (1986) concordano sul fatto che sia fortemente rischioso prendere alla lettera i desideri transferali del paziente cercando di gratificarli incondizionatamente, in quanto il paziente ha bisogno di sperimentare l’oggetto vecchio nell’analista come è stato originariamente, in modo da elaborare l’antico trauma attraverso l’analisi di tali desideri e richieste assieme all’analista (analisi del transfert).


Hoffman (1998) parla di un delicato e costante equilibrio tra spontaneità e ritualità nel rapporto analitico, sottolineando come la partecipazione e la presenza soggettiva di ogni analista influenzi continuamente e inevitabilmente, spesso in modo inconscio, ogni momento del processo psicoanalitico (assunto dimostrato anche dalla letteratura contemporanea: Cooper, 2015). In tal senso dunque le caratteristiche del setting analitico sono sempre e comunque condizionate dalle caratteristiche soggettive – e quindi anche dai limiti– dell’analista.

Mitchell (2016) infine descrive la necessità di un setting analitico flessibile che si adatti in modo variabile da paziente a paziente, in modo che egli possa vivere la relazione con l’analista come arricchimento e non come esperienza invalidante. Già Bion (2005) sottolineava l’importanza di non ridurre mai l’unicità del paziente a qualche teoria o tecnica come su un letto di Procuste, ma di attenersi sempre all’osservazione clinica diretta all’interno della cornice analitica.


Riferimenti:

Bion W. (1983), Seminari italiani, Borla, Roma, 2005.

Gabbard G., Violazioni del setting, Azzate, Raffaello Cortina, 2017

Hoffman I. (1998), Rituale e spontaneità in psicoanalisi. Astrolabio 2000

Kohut H. (1984). La cura psicoanalitica. Torino: Boringhieri, 1986

Langs R., La tecnica della psicoterapia psicoanalitica, Torino, Boringhieri, 1985

Mitchell S., Teora e clinica psicoanalitica. Cortina Raffaello, 2016

Ogden T.H. (1997). Rêverie e interpretazione. Roma, Astrolabio, 1999.

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