«Ancora le stelle. Come l’ho viste la notte scorsa e tante altre notti. Notti, giorni, amori, avvenimenti… ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. E quelle future? Che sia per questo? Per non sentire il peso di tutto questo che continuo a non prendere nulla sul serio? Oppure, che abbia ragione mio figlio? […] Però è stata una bella giornata; bella, libera, stupida. Come quando s’era ragazzi. Chissà quando ne capiterà un’altra…”» Il "Perozzi" (Pilippe Noiret)
Fingere che tutta la vita sia solo un gioco, fuggendo, fuggendo sempre come bambini che dimostrano la loro onnipotenza distaccandosi dal mondo e dalle incombenze del principio di realtà, a favore delle gratificazioni immediate del principio di piacere, detta con la terminologia freudiana. E' questo il ritratto dell'immortale trilogia di "Amici miei" (condotta prima dal grande Monicelli, eppoi da N.Loy, ma ideata dalla mente di Pietro Germi): un ballo cameratesco di risate e scherzi goliardici, che procede via via in crescendo verso un'allegria sempre più disperata, cinica, patetica, spietata, autodistruttiva.
La leggerezza del vivere cavalcato da un umorismo senza compromessi e scrupoli mostra ben presto però le sue falle, attraverso l'inadeguatezza del vivere da parte del carattere infantile e narcisistico dei 5 personaggi: la fuga dalla famiglia (concepita solo come prigione), la funzione della donna in qualità di amante o serva, il peso dell'educazione dei figli considerati come un intralcio da cui doversi liberare, gli scherzi sempre più crudeli e rischiosi... tutta la vita è concepita solo come un amaro dovere, un'inutile fatica alienante da raggirare il prima possibile per poter ritornare dalla combricola di amici e riprendere così il gioco, quasi come fosse una dipendenza, l’unico modo di sopportare una vita intollerabile.
Perchè il vero nemico di questo gruppo di amici, il fantasma che illusoriamente tentano continuamente di fugare, altro non è che la noia. Una noia sempre in agguato dietro l'angolo, sempre affamata all'inverosimile di stimoli, di novità, di un "genio" creativo che inevitabilmente arriverà ad esaurirsi nel suo parossismo. Insomma il gioco come scappatoia all'angoscia del non sapere come valorizzare la vita, come strumento per non impegnarsi in relazioni profonde e durature, come corazza per non rimanere feriti da una vita da cui i cinque toscanacci restano refrattari, incapaci di coglierne bellezza e gioia, se non attraverso la burla.
Finchè alla fine non sopraggiunge l'ineluttabile morte che ricorda ai guasconi che il gioco è finito e che bisogna pur ritornare alla truce realtà con le sue difficoltà e responsabilità quotidiane, che non si puo' continuare a fare gli "eterni zingari" tutta la vita, e che prima o poi bisogna tornare a fare i conti - sempre e comunque - con la necessità di dare un senso ai giorni rimasti. Eppure, neanche la morte sembra capace di smorzare l'irriducibile spirito di questi burloni, che riescono a burlarsi del prete con una "supercazzola" anche prima di esalare l'ultimo respiro, e a ridere anche durante la marcia al camposanto per il funerale del Perozzi deceduto, dimostrando ancora una volta, quasi eroicamente, l'incapacità di crescere, o detta ancora alla Freud, il fallimento evolutivo nel passare dal narcisismo primario all'amore oggettuale.
"... prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi e se, in conseguenza di una frustrazione, si diventa incapaci di amare, inevitabilmente ci si ammala." S.Freud, Introduzione al narcisismo.
Tuttavia bisogna ammetterlo, le gesta di questi burloni sono talmente geniali ed esilaranti, da diventare arte: zona di confine in cui tutto è permesso e l’ossessione del gioco puo’ così trovare giustificazione e senso, e dove le leggi della psicoanalisi possiedono poco o nessun valore.
“La necessità non è un desiderio ma è appunto una forza, un'ispirazione cui si è costretti ad obbedire rinunciando ad ogni altro interesse che non sia quell'ossessione. Ed è questo che fa grande un artista e designa un genio.“ E.Scalfari - Per l’alto mare aperto