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Il problema esistenziale secondo S. Freud


Qual è il senso della vita?

Anche Freud non poteva non dire la sua facendolo alla sua solita maniera, ovvero con estrema chiarezza, senza girarci troppo attorno: l’uomo ha il diritto di respingere questa eterna domanda, in quanto essa sussiste e cade solamente in presenza di un sistema filosofico o religioso. Perché? Semplice, perché la risposta è talmente ovvia da esser stata dimenticata o camuffata nelle più svariate forme: l’uomo non fa che tendere alla felicità, non vuole che diventare e rimanere felice. Ma che cos’è la felicità? Freud la descrive come un duplice desiderio: da un lato l’uomo mira ad evitare il dispiacere e il dolore, dall’altro invece cerca sentimenti intensi di piacere. In conformità a questa bipartizione l’attività degli uomini si sviluppa nel tentativo di cercare prevalentemente l’una o l’altra forma di felicità. Dunque è di nuovo il principio di piacere (1911) a dominare lo scopo della vita umana, sebbene questo sia in conflitto con il mondo esterno, tanto nella società in cui vive quanto nell’ambiente naturale in cui è nato, totalmente indifferente ai suoi bisogni. Ecco allora che per sua natura, la felicità non può che essere solo un fenomeno episodico, goduto soltanto nel contrasto con la sua assenza, in una condizione d’infelicità che minaccia costantemente da più parti: dai pericoli del mondo esterno (natura e società), dall’inevitabile sfacelo del corpo con la sua fragilità e dai sempiterni conflitti della psiche, soprattutto in rapporto con la relazione con gli altri. Non sorprende dunque che spesso l’uomo possa ritenersi felice anche solo scampando all’infelicità, sopportando la sofferenza laddove la direzione dell’evitare il dolore relega in secondo piano quella di procurarsi piacere. D’altronde la stessa nascita della civiltà, grazie alla tecnica della scienza, non ha fatto altro che perseguire questo obiettivo cercando di assoggettare la natura e i suoi costanti pericoli, alla volontà dell’uomo. Ma recando con sé un grande pegno da pagare.


Questo assoggettamento delle forze della natura che appaga un’aspirazione vecchia di migliaia di anni, non ha aumentato la quantità di piacevole soddisfacimento che si attendono dalla vita, non li ha resi, stando alle loro sensazioni, più felici” (1929, p.224) (…), “non dimentichiamo che l’uomo d’oggi, nella sua somiglianza a Dio, non si sente felice.” (p.228)


L’esistenzialismo non è mai sembrato così vicino alla prospettiva di Freud nel momento in cui asserisce che la vita, così piena di affanni, difficoltà ed enigmi, è troppo dura per non trovare qualche tipo di strategia per sopportarla e alleviarne il peso. “Diversivi, soddisfacimenti sostitutivi, qualcosa del genere è indispensabile.” (1929, p. 210) Nel 1915 scrive esplicitamente “sopportare la vita: questo è pur sempre il primo dovere d’ogni vivente. (…) Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte” (p.51).


L’opera in cui Freud si addentra maggiormente sulla questione è Il disagio della civiltà (1929), esponendo alcune modalità con cui l’uomo cerca di affrontare la vita.


L’intossicazione è il metodo più rozzo, in quanto agisce chimicamente, ma anche il più immediato per influire sull’individuo (curioso come Freud già ai tempi avesse ipotizzato l’importanza che in futuro la comunità avrebbe assegnato alle sostanze in grado di alleviare il disagio psichico, ossia gli psicofarmaci moderni, oggi tanto abusati). Ogni sostanza (a partire dall’alcol) diventa pertanto secondo l’espressione popolare tedesca, uno “scacciaffanni” capace di sottrare per un attimo l’individuo alla pressione della realtà per trovare riparo all’interno del mondo interno, fatto di sensazioni migliori.


Siccome la realtà diventa fonte di sofferenza nel momento in cui frustra i propri bisogni, un’altra soluzione proposta dagli uomini è quella di agire sui moti pulsionali interni: si mortificano le pulsioni per risparmiarsi il dolore di un mancato soddisfacimento (si pensi solo a certe pratiche buddiste, monastiche o all’antica filosofia degli stoici). In tale ottica prevale dunque il principio di realtà, la coloritura della vita ne viene fortemente sacrificata e si ritorna quindi alla felicità della quiete. Inutile dire che questa scelta comporta inevitabilmente una forte riduzione della possibilità di godimento: il senso di felicità infatti che deriva da soddisfacimento pulsionale diretto, sfrenato, non domato dall’Io, è così intenso che spiega molto bene il motivo dell’irresistibilità e il fascino proibito esercitato dagli impulsi perversi (1905).


Un’altra tecnica per evitare il dolore, anche se la più difficile da attuare, consiste nello scambiare le mete pulsionali del mondo esterno in virtù degli spostamenti della libido (il meccanismo della sublimazione). In altri termini, la capacità di gioire tramite il proprio lavoro e le proprie attività, che siano quelle di un artista nel creare e dar forma alle immagini della propria fantasia, o quelle del ricercatore che risolve problemi e cerca la verità. L’ovvia debolezza di questo metodo è che l’intensità pulsionale è smorzata in quanto non tocca la dimensione corporale, oltre al fatto che tale processo varia sensibilmente da individuo a individuo a seconda della sua predisposizione costituzionale. Tuttavia tale tecnica di condotta di vita acquisisce un’importanza cruciale per l’individuo in quanto consente di legarlo profondamente alla realtà inserendolo all’interno della comunità, e permettendogli inoltre di spostare una massiccia quantità di componenti libidiche, narcisistiche e aggressive (1920) sul lavoro professionale e sulle relazioni umane. Peccato, asserisce Freud, che “il lavoro come cammino verso la felicità è stimato poco dagli uomini. Non ci si rivolge ad esso come alle altre possibilità di soddisfacimento. La grande maggioranza degli uomini lavora solo se spinta dalla necessità, e da questa naturale avversione degli uomini al lavoro scaturiscono i più difficili problemi sociali.” (1929, p. 216).


Un altro modo di allentare la connessione dolorosa con la realtà ottenendo il soddisfacimento attraverso illusioni riconosciute come tali, è quello realizzabile tramite la vita fantastica, soprattutto in riferimento alla sua migliore realizzazione, l’arte e il suo godimento. Come un regno intermedio con la realtà, essa diviene fonte di grande piacere procurando consolazione al suo fruitore, ma, come accade coi sogni ad occhi aperti per il nevrotico, la sua lieve narcosi in cui trasferisce non è in grado di offrire più che un’evasione temporanea dagli affanni della vita (altro discorso invece appartiene al ruolo dell’artista vero e proprio – vedi Introduzione alla psicoanalisi, 1915-1917 lez. 23, e Il poeta e la fantasia, 1907). In particolari predisposizioni, c’è chi riesce anche ad erigere questo godimento estetico ovunque si presenti, riuscendo in buona misura addirittura a compensare la sofferenza della vita. Infatti “l’utilità della bellezza non è evidente, che sia necessaria alla civiltà non risulta a prima vista, eppure la civiltà non potrebbe farne a meno. La scienza dell’estetica studia le condizioni per cui il bello è sentito come tale, ma non è stata in grado di fornire alcuna spiegazione circa la natura e l’origine della bellezza.” (1929, p.218) Nell’arte l’uomo puo’ trovare ciò che manca alla propria realtà: “accade allora inevitabilmente che cerchiamo un sostituto a ciò a cui nella vita dobbiamo rinunciare, che lo cerchiamo nel mondo della finzione, nella letteratura, nel teatro. Là troviamo ancora uomini che sanno morire; sì, uomini anche capaci di uccidere. (…) Nel campo della finzione troviamo quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno.” (1915, p.38)

L’arte offre soddisfacimenti sostitutivi per le più antiche e tuttora più profondamente sentite rinunce imposte dalla civiltà e contribuisce perciò come null’altro a riconciliare l’uomo con i sacrifici da lui sostenuta per questa. Le creazione dell’arte promuovono d’altronde i sentimenti d’identificazione, di cui ogni ambito ha tanto bisogno, consentendo sensazioni vissute in comune e altamente apprezzate; giovano però anche al soddisfacimento narcisistico, allorché raffigurano le realizzazione di quella particolare civiltà e alludono in modo efficace ai suoi ideali.” (1927, p.25)


E infine (Freud la lascia appositamente per ultima data l’importanza che riveste), esiste quella forma d’espressione che “si attiene all’anelito originario, appassionato verso una felicità positiva” (1929, p.217), in grado di giungere più vicino alla meta di quanto farebbe qualsiasi altra maniera, ossia “quell’indirizzo della vita che fa dell’amore il centro di tutto e si attende ogni soddisfazione dall’amare e dall’essere amati” (ibidem). Perché sì, a discapito di tutti i suoi critici e detrattori che ne hanno letto qua e là solo frammenti, spesso travisandola, l’opera freudiana non fa che parlare continuamente d’amore, secondo l’ottica di uno scienziato che ha preferito sostituirsi al poeta nella descrizione di tale enigmatico e complesso fenomeno che nel corso dei secoli non ha mai perso il posto privilegiato che occupa nella scala dei bisogni umani. “Che cosa c’è di più naturale del persistere a cercare la felicità su quella stessa via ove per la prima volta l’abbiamo incontrata?” (p.218) dichiara Freud. Tuttavia, continua, risulta evidente di come questa stessa via possa donare tanto piacere quanto dolore, perché “mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l’oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici.” (p.219)


Come ultima modalità adottata dall’individuo per far fronte alla vita, quando non ha trovato altre strade nel mondo esterno, c’è la fuga nella malattia, che sia quella nevrotica, acquisita durante le prime esperienze relazionali di vita, in grado di dare soddisfacimenti sostitutivi o attraverso la trasformazione delirante della realtà propria delle psicosi (1915-1917, lez.17). “Dal punto di vista genetico, la natura asociale della nevrosi deriva dalla sua tendenza originaria a sfuggire una realtà insoddisfacente per rifugiarsi in un mondo fantastico assai più attraente. In questo mondo reale, che il nevrotico evita, domina la società degli uomini e le istituzioni che essi hanno creato in comune. La fuga dalla realtà è al tempo stesso una fuga della comunità umana”. (1913, p.114)


Freud nei suoi scritti ha sempre considerato la religione l’errore più pericoloso, in quanto, sebbene riesca a risparmiare a molti la fuga nella malattia, pregiudica questo ventaglio di possibilità di scelta e di adattamento sminuendo la vita, l’intelligenza e deformando l’immagine del mondo reale. Essa infatti, imponendo indistintamente a tutti un modo uniforme per il raggiungimento della felicità e la protezione dalla sofferenza, non solo illude l’uomo non riuscendo probabilmente a mantenere le sue promesse, ma, fissandolo ad un infantilismo psichico a cui si chiede sottomissione incondizionata, finisce per assumere le caratteristiche di un vero e proprio delirio, di tipo collettivo.

In L’avvenire di un’illusione (1927) Freud vede nella religione un “sistema di dottrine e promesse che, da un lato, gli [all’uomo] spiega con invidiabile compiutezza gli enigmi di questo mondo, dall’altro gli garantisce che una Provvidenza sollecita veglierà sulla sua vita e in un’esistenza ultraterrena lo ripagherà di eventuali frustrazioni. L’uomo comune non puo’ rappresentarsi questa Provvidenza se non nella persona di un padre straordinariamente elevato. Soltanto un essere simile può comprendere i bisogni del figlio dell’uomo, venir impietosito dalle sue preghiere, placato dai segni del suo pentimento.” (p. 57) E il motivo per cui le religioni non sono mai completamente tramontate è che esse da sempre si annoverano tra i sistemi più abili nel risolvere un compito che l’intera storia dell’umanità da sempre ha cercato di risolvere nelle più svariate forme, ossia quello di fornire un senso alla vita. Secondo Freud infatti l’uomo fin dagli albori ha sempre cercato di trasformare le forze della natura in dèi donandogli il carattere del padre, di modo da assolvere a specifiche funzioni: proteggerlo dalle minacce della natura, riconciliarlo con la crudeltà del “fato” e risarcirlo nella morte per le sofferenze e le privazioni subite in vita. Continua infatti: “anche quando personifica le forze della natura, l’uomo si conforma a un modello infantile. Basandosi sulle persone del suo primo ambiente, ha appreso che il modo d’influire su di essere consiste nell’istituire con loro una relazione” (ibidem, p.37)


Nel 1931 inoltre Freud cerca di sviluppare una sintesi (come fece a suo modo anche Jung con Tipi psicologici, 1921) alle diverse connotazioni della moltitudine sulla base degli stati libidici individuali, distinguendo quindi tre tipologie: il tipo erotico, narcisistico e ossessivo, che si ritrovano ovviamente molto più spesso in forma mista piuttosto che pura. Il primo tipo, quello erotico, volge l’interesse esistenziale prevalentemente sulla vita amorosa: amare ed essere amati è l’aspetto più importante, per cui l’angoscia di perdere l’amore, in diversa intensità, lo rende particolarmente dipendente dagli altri (tipologia che ricorda il tipo “ocnofilo” teorizzato da Fairbairn, 1952). Il secondo tipo, quello ossessivo, avvertendo tendenzialmente una forte tensione da parte del Super-Io, è più propenso alle attività sociali, all’azione e all’autonomia, e quindi dimostra più una dipendenza interna che esterna, essendo più dominato dall’angoscia morale che da quella di perdere l’amore. Il terzo tipo, quello narcisistico, ha come obiettivo la mera conservazione di se stesso: indipendente (“filobate”, ritornando ai profili di Fairbairn), capace di attingere all’aggressività rivolta in un gran numero di attività, con la tendenza di amare piuttosto che essere amato, si ritrova spesso nel ruolo di capo o di “personalità” sociale. Freud ipotizza, (pur ammettendo di non avere sufficienti dati per approfondire le proprie argomentazioni), che ogni tipologia abbia proprie modalità di adattamento all’ambiente e specifiche vulnerabilità, e quindi probabili propensioni a sviluppare una forma psicopatologica piuttosto che un’altra. Freud vede nel tipo misto erotico-ossessivo-narcisistico un’armonia ideale, una sorta di equilibrio psichico-libidico in cui un aspetto non prevale eccessivamente sugli altri.


Nonostante Freud sia consapevole dell’incompiutezza e dello scarso approfondimento di una tematica tanto complessa, fornisce alla fine una bella restituzione personale che vale la pena riportare per intero:


Il programma impostoci dal principio di piacere: diventar felici, non puo’ essere adempiuto; tuttavia non dobbiamo, anzi non possiamo, desistere dagli sforzi di approssimarne in qualche modo l’adempimento [prospettiva questa richiama anche le conclusioni a cui giunse anche Nietzsche]. Si possono prendere molte strade diverse in questa direzione; o mettere innanzi il contenuto positivo della meta: conseguire il piacere, oppure il contenuto negativo: evitare il dispiacere. Per nessuna di queste strade possiamo ottenere tutto ciò che desideriamo. La felicità, in quell’accezione ridotta in cui è considerata possibile, è un problema dell’economia libidica individuale. Non vi è qui un consiglio che valga per tutti; ognuno deve trovare da sé il modo particolare in cui può essere felice. Fattori i più vari contribuiranno a indicare la via della sua scelta. Questa dipende da quanto reale soddisfacimento egli può aspettarsi dal mondo esterno e fino a che punto egli è disposto a rendersi indipendente da esso; infine anche, da quanta forza crede di avere per modificarlo secondo i propri desideri. In questo riguardo la costituzione psichica dell’individuo, al di là delle condizioni esterne, sarà decisiva L’uomo prevalentemente erotico metterà innanzi a tutto le relazioni emotive con gli altri; il narcisista, che è più incline all’autosufficienza, cercherà i soddisfacimenti essenziali nei suoi processi psichici interni; l’uomo d’azione non abbandonerà mai il mondo esterno su cui può saggiare la sua forza. (…) Ogni scelta portata agli estremi finisce col punirsi da sé, perché espone l’individuo ai pericoli che una tecnica di vita adottata in maniera esclusiva reca inevitabilmente con sé, proprio per la sua inadeguatezza. Come il commerciante prudente evita d’investire tutto il suo capitale in una sola impresa, così, forse, anche la saggezza che nasce dalla vita ci consiglierà di non attenderci tutto il soddisfacimento da una sola aspirazione.” (1929, p.219)


Bibliografia

Fairbairn R. (1952). Studi psicoanalitici sulla personalità. Torino: Boringhieri, 1977.

Freud S. (1905). Tre saggi sulla sessualità. Torino: Boringhieri, 1974.

Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. In Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio Torino: Boringhieri, 1969.

Freud S. (1911). Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico. Opere, Torino: Boringhieri, 1974.

Freud S. (1913). Totem e tabù. Torino: Boringhieri, 1976.

Freud S. (1915). Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte in Perché la guerra. Torino: Boringhieri, 1975.

Freud S. (1916-17). Introduzione alla psicoanalisi. Parte III: Teoria generale delle nevrosi. Freud Opere, 8: 407-419. Torino: Boringhieri, 1976.

Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. Torino: Boringhieri, 1977.

Freud S. (1927). L’avvenire di un’illusione. Torino: Boringhieri, 1971.

Freud S. (1929), Il disagio della civiltà, Torino: Boringhieri, 1971

Freud S. (1931), Tipi libidici, in La vita sessuale Torino: Boringhieri, 2012.

Freud S. (1932), Introduzione alla psicoanalisi, Freud Opere, 11: 497-535. Torino: Boringhieri, 1979.


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