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Introduzione
Nonostante le varie speculazioni teoriche che cominciarono a farsi strada a partire soprattutto dagli anni ‘20, per Ferenczi la teoria doveva sempre essere subordinata alla pratica clinica, e lo testimonia la tipologia di pazienti che era solito prendere in carico: spesso erano quelli rifiutati o senza esiti terapeutici di altri analisti, pazienti con disturbi di personalità gravi, a volte anche psicotici. Insomma, pazienti al di là della classica indicazione della teoria psicoanalitica su cui si poteva intervenire dal punto di vista terapeutico; dal momento in cui il paziente mostrava di voler proseguire il trattamento, secondo F. spettava all’analista trovare le tecniche adatte per venirgli in aiuto, quali che fossero le difficoltà che questa richiesta comportava. F. non a caso costituiva spesso “l’ultima risorsa di casi considerati disperati, che i colleghi indirizzavano a lui da ogni punto sulla terra” (J. Dupont in Diario clinico, 2002; p.33).
Nella pratica clinica infatti Ferenczi sperimentò ed esplorò la tecnica analitica fino a toccarne gli estremi limiti (spingendola ad absurdum come dirà Freud), sviluppando tutta una serie di accorgimenti e di modifiche in grado di ampliare gli ambiti d’intervento dal punto di vista terapeutico. L’attenta analisi pedagogica delle dinamiche famigliari sul bambino, le revisioni tecniche con i pazienti gravi, la descrizione dei processi dell’impatto del trauma sullo sviluppo psichico della persona, l’importanza cruciale del ruolo del controtransfert… sono tutti problemi e questioni che F. andò sempre più a sviluppare negli ultimi anni della sua vita e che tuttora rimangono al centro dell’attenzione della psicoanalisi contemporanea.
“Una specie di fede fanatica nelle risorse della psicologia del profondo mi ha sempre indotto a considerare gli occasionali insuccessi come conseguenze della nostra personale inettitudine piuttosto che di una ‘incurabilità’ del paziente, sicchè di fronte ai casi difficili, quelli che non potevano essere risolti con la tecnica abituale, mi sono trovato nella necessità di modificare la tecnica stessa.” (2002; p.67)
Il trauma e il ruolo dell’ambiente esterno
Come dimostrano gli scritti “riesumati” da Masson[1] (1984), Freud, al contrario dei suoi successori, non prese mai posizioni definitive contro una teoria della seduzione (“gli atti di seduzione [in età infantile] hanno conservato un certo ruolo, seppure più modesto, nell’eziologia delle nevrosi”, 1924)[2]. Anche se, come notarono più tardi gli interpersonali come E. Fromm[3] (1979), Freud sembrò sottovalutare il ruolo attivo da parte dei genitori nella responsabilità delle psiconevrosi nel bambino: basti pensare i comportamenti ambigui dei genitori del piccolo Hans, l’atteggiamento manipolatorio e ingannevole del padre di Dora o ancor peggio al sadismo del padre persecutore del Presidente Schreber.
La riscoperta del senso del trauma in F. non è la semplice ripetizione degli studi di Freud durante il suo primo lavoro con l’isteria, bensì l’esplorazione accurata dell’effetto e delle ripercussioni psichiche dell’azione violenta del trauma sull’intero Sé del bambino (sconvolgendone il mondo interno e rappresentazionale).
Fu Ferenczi ad esplorare maggiormente l’influenza della seduzione sul bambino (intesa in senso attivo, ossia come atto di deviare, pervertire da parte dell’adulto), cercando di comprendere i processi e le dinamiche in grado di disturbarne lo sviluppo evolutivo (cosa che mancò di fare adeguatamente Freud). F. infatti sottolineò più in generale come il trauma non sia conseguente ad un’innata predisposizione del bambino, ma, quasi sempre, la conseguenza di un trattamento inadeguato, se non crudele, da parte dei genitori (posizione che sarà ripresa più tardi in modo anche radicale dalla scuola indipendente britannica). In altre parole, il conflitto intrapsichico dell’adulto rappresenterebbe quindi il conflitto originario del bambino con la realtà.
Nel celebre Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino (1932), originariamente intitolato Le passioni degli adulti e la loro influenza sullo sviluppo sessuale e caratteriale dei bambini, F. introdusse quelli che diverranno temi centrali per i futuri psicoanalisti: “l’identificazione con l’aggressore” (ripreso successivamente da A. Freud nel ‘36[4]), “l’introiezione del senso di colpa dell’adulto” (che fa apparire qualcosa di colpevole e biasimabile un’azione ritenuta innocente o legittima) e “l’ipocrisia professionale” (da cui deriverà l’odierna “self-disclosure”) contrapposta alla sincerità dell’analista.
Secondo F. il carattere specifico del trauma nel bambino non consiste nell’accaduto in sé ma nel diniego da parte del genitore, “ovvero l’affermazione che non è successo niente, che non si sente alcun male, o quando, in seguito al blocco traumatico dell’attività intellettiva e motoria, si è stati percossi o sgridati: è soprattutto questo che rende il trauma patogeno. Si ha inoltre l’impressione che traumi anche gravi possano venir superati, senza produrre amnesie o effetti nevrotici, quando la madre è presente con tutta la sua comprensione, la sua tenerezza, e cosa più rara, con un atteggiamento di totale sincerità.” (2002, p. 75)
Nella genesi del trauma, F. enunciò, oltre all’amore passionale (quello che perverte il bambino) e alle punizioni passionali (misure punitive eccessive connotate da violenza o attacchi di rabbia), anche “il terrorismo della sofferenza”: “i bambini sono costretti ad appianare ogni tipo di conflitto familiare e portano sulle loro fragili spalle il peso di tutti gli altri membri della famiglia. Naturalmente non lo fanno per puro altruismo, ma per poter nuovamente godere della tranquillità perduta e della tenerezza che ne deriva”. (2002, p.99).
F. sosteneva che il trauma reca sempre con sé spavento e di conseguenza un accenno di scissione di personalità: quando il bambino diventa impotente, ossia non riesce a modificare la causa ambientale del disturbo (reazione alloplastica), un modo che dispone per allontanare l’angoscia è quello di dissociarsi, sviluppando frammenti di sé che faticano a comunicare tra loro (“atomizzazione”). In questo processo di dissociazione, una parte del Sé subisce un arresto, mentre un‘altra è esposta ad una precoce maturazione che F. definisce “progressione traumatica”: il bambino diventa emotivamente capace, in poco tempo, di riorganizzarsi e di sopravvivere restando indifferente all‘esperienza traumatica. “Egli stacca da sé una parte che, sotto forma di persona che lo assiste con amore e sollecitudine, perlopiù materna, compiange la residua parte dell‘individuo, si occupa di lui, decide per lui, e tutto questo con la massima saggezza e con penetrante intelligenza. Questa persona è l‘intelligenza e la bontà stessa, per così dire un angelo custode” (2002, p. 108). La dissociazione diventa perciò l‘esito principale di esperienze di abuso nel corso dello sviluppo, in cui non vi è più distinzione tra intrapsichico e interpersonale a causa dell‘identificazione con l‘aggressore o dell‘adattamento acquiescente che il trauma cumulativo può comportare. Introiettati, sia l‘evento traumatico che il traumatizzante scompaiono come realtà esterna, e da extrapsichici divengono intrapsichici e inconsci.
L’evoluzione della tecnica di Ferenczi
Dopo essere inevitabilmente passato per la tecnica cosiddetta ortodossa così come era stata suggerita negli scritti tecnici di Freud, F. mise in atto alcune variazioni. In un primo tempo, provò la cosiddetta “tecnica attiva”, consistente in interventi frequenti e diretti allo scopo di comprendere meglio e più velocemente il paziente, in prescrizioni di alcune regole di comportamento, o in modifiche al setting (come fissare un termine all’analisi): scopo della terapia era provocare artificialmente degli aumenti di tensione (e di regressione), affinchè il paziente ripetesse esperienze traumatiche. Osservata l’inutilità, oltre che alcune conseguenze iatrogene di tali tecniche, F. ne ammorbidì in seguito la partecipazione limitandosi a consigli e suggerimenti su richiesta del paziente. Infine abbandonò del tutto l’intervento attivo concentrandosi su ciò che il paziente si attendeva dall’analista attraverso un’attenta osservazione empatica. Sembra essere stato F. infatti ad usare per la prima volta in psicoanalisi il termine “empatia” (in L’elasticità della tecnica psicoanalitica, 1927): per F. la capacità empatica corrisponde al “tatto” dell’analista che gli permette di intervenire al momento giusto con le parole giuste, senza tuttavia perdere mai lucidità, ovvero senza mai “lasciarsi guidare unicamente dai propri sentimenti” (2002; p. 26).
Secondo F. è sempre la tecnica a doversi adattare al paziente e non viceversa: già F. denunciava i rischi di un atteggiamento esageratamente freddo e asettico da parte dell’analista che, con la sua artificiale mancanza di reazioni e rifiutandosi di adattarsi alla specificità della persona, puo' divenire lui stesso ostacolo alle libere associazioni del paziente, accusato poi di avere “resistenze insormontabili” una volta in cui le modalità dell’analista non avevano ottenuto alcun successo. Cremerius (1980) sottolinea come F. abbia intuito come l’atteggiamento esageratamente freddo e passivo dell’analista rigido possa riportare il paziente alle medesime condizioni traumaticamente rilevanti nella propria storia; se l’analista non si accorge dell’impatto del suo stesso atteggiamento nella relazione analitica, accusando il paziente di proiezione transferale, ripete l’insincerità dell’educatore nei confronti del bambino.
Asserzioni che anticipano e illuminano molte delle controversie tecniche che si svilupperanno negli anni a venire fino alla dirimente posizione di Gill (1982)[5]. [per approfondimenti, vedi qui].
F. inoltre insisteva sul detronizzare l’autoritarismo dell’analista onnisciente e onnipotente, in quanto l’analista (che si puo’ sempre sbagliare e che non deve vergognarsi a riconoscere francamente i propri errori), quando interpreta è bene che proponga proposte, piuttosto che asserzioni (come scrive anche Freud quando parla di “costruzioni”[6]); intervenendo con parsimonia, senza dire nulla di superfluo, con un atteggiamento costante di lealtà, correttezza e modestia che non fa parte di una posa affettata, ma che rappresenta “l’espressione della consapevolezza del nostro non sapere”. (ibidem, p.29)
In sostanza F. revisionò i principi dell’astinenza e della frustrazione, dando più spazio alla flessibilità e all’indulgenza: F. riteneva che, soprattutto con i pazienti più disturbati (ossia quelli che, per struttura dell’Io, hanno una scarsissima tolleranza alla frustrazione e quindi alla tensione sostenibile in analisi), fosse possibile un qualche vero cambiamento solo con una certa forma “umana” da parte dell’analista di pazienza, gentilezza, sincerità (mostrandosi cioè più come persona “reale”, nella propria soggettività). In Principio di rilassamento e neocatarsi (1929) F. sostiene ad esempio la necessità di affiancare al principio di frustrazione il “principio di concessione”, ossia una condizione che, contrariamente alla tensione fornita dalla frustrazione, conceda libertà, accoglienza, “rilassamento”. Scrive infatti:
“Giacchè resta pur sempre innegabile che anche la fredda oggettività del medico puo’ assumere forme tali da mettere senza necessità il paziente in situazioni difficili; e se ciò puo’ essere evitato, devono anche esistere mezzi e vie per far comprendere al paziente, durante la seduta, la nostra disposizione amichevole e benevola, senza per questo tralasciare l’analisi del materiale di transfert o cadere nell’errore di coloro che trattano il nevrotico con severità o amore simulati, anziché in modo analitico, vale a dire con assoluta sincerità.” (2002, p.57) […] Detto ciò io non sostengo affatto che in analisi sia possibile far soffrire il nevrotico, anzi dal punto di vista teorico è evidente che è proprio nell’analisi che il paziente deve imparare a sopportare le sofferenze che avevano causato la rimozione. Ci si puo’ solo chiedere se talvolta non si infliggano al paziente anche sofferenze non strettamente necessarie. Sceglierei perciò l’espressione economia della sofferenza” (p.58).
Nonostante queste posizioni F. era comunque consapevole che questo duplice atteggiamento di frustrazione e concessione deve imporre un costante controllo del controtransfert e della controresistenza, infatti “nulla è più facile che sfogare i propri inconfessabili impulsi sadici su bambini e pazienti, spacciandoli per esigenze della frustrazione; ma anche forme e quantità smodate di affetto nei confronti di bambini e pazienti possono tornare a vantaggio di tendenze libidiche inconsce che delle persone affidate alle nostre cure.” (p.64).
In Analisi infantile con gli adulti (1931) F. anticipa le posizioni dei neobioniani[7] quando parla di “giocoanalisi”: accostando certe caratteristiche dell’analisi infantile all’analisi con gli adulti, secondo F. il terapeuta dev’essere sempre in grado di riuscire a parlare – e saper condividere, attingendo anche alle zone più remote di sé – il linguaggio del paziente, per quanto regredito o infantile possa mostrarsi, affinchè egli possa disporre sempre della massima libertà d’espressione. In L’influsso di Freud sulla medicina (1933) scrive:
“Ovviamente non pretendiamo che il futuro medico si prenda tute le malattie contagiose possibili e immaginabili al fine di poter meglio comprendere e curare ogni sorta di malati, eppure la psicoanalisi esige proprio qualcosa del genere quando si attende dal medico la capacità di immedesimarsi psichicamente nelle anomalie del paziente. La differenza tra le due situazioni consiste nel fatto che, secondo la psicoanalisi, ciascuno di noi puo’ attingere nel proprio inconscio gli elementi necessari a sviluppare questa particolare capacità” (2002, p.89).
Allo stesso tempo F. accosta l’aspetto pedagogico con le modalità di condurre l’analisi:
“L’influenzabilità del bambino, la sua tendenza ad appoggiarsi completamente a un ‘grande’ nei momenti di abbandono, la presenza quindi nella relazione tra adulti e bambini di un aspetto dell’ipnosi, è un fatto innegabile, a cui ci si deve rassegnare. Gli adulti però, anziché continuare a usare il grande potere che hanno sui bambini per imprimere nella malleabile psiche di questi ultimi le proprie rigide regole, come se si trattasse di introdurre qualcosa dall’esterno, potrebbero servirsene come di un mezzo per educarli a essere più indipendenti e coraggiosi.” (2002, p.72).
In senso generale F. vedeva la tecnica analitica come flessibile in base alla gravità paziente: più il paziente è regredito più il terapeuta deve adoperarsi affiancandolo nel lavoro di crescita che man mano deve imparare a svolgere autonomamente. Il valore dell’opera ferencziana consiste nell’avere analizzato molto più approfonditamente le dinamiche, i processi e i vari esperimenti tecnici nella concreta relazione analitica tra terapeuta e paziente nel suo “qui e ora”: se Freud nei suoi scritti tecnici aveva messo in guardia degli aspetti che potevano ostacolare l’analisi attraverso consigli principalmente a carattere negativo (“i consigli di Freud non volevano essere altro che suggerimenti per i principianti, affinchè evitassero di commettere gli errori più grossolani e clamorosi”), F. esplorò invece quel che di positivo puo’ fare l’analista (e quindi con il proprio “tatto” empatico, intuito e in generale con la sua specifica soggettività), senza tuttavia perdere le raccomandazioni di riferimento per mantenere equilibrata “un’oscillazione continua tra empatia, auto-osservazione e attività valutativa” (Opere IV, 2002, p.30).
La concezione del controtransfert
L’innovazione che F. introdusse fu quella di considerare le dinamiche controtransferali non come un inconveniente o un impedimento, ma come parte in causa del processo trasformativo. F. riteneva che quando un’analisi non procede o è in stallo, occorre cercare le ragioni nell’analista, più che nel paziente: all’analista spetta interrogarsi sulle proprie resistenze e superarle.
Solo conoscendo perfettamente il proprio controtransfert, secondo F. l’analista potrà rivolgersi al paziente con una “benevolenza costante, quali che siano la sua condotta, il suo comportamento e le sue parole”. Secondo F. ciò puo’ avvenire solo se l’analista tiene sorvegliate le proprie reazioni emotive e controllando costantemente il proprio narcisismo: seguendo il primo impulso l’analista rischia infatti di lasciarsi “guidare dal paziente, giacchè farsi cacciare è spesso lo scopo inconscio di un comportamento insopportabile” (2002; p.30). Condizione raggiunta solo a patto che l’analista abbia portato a termine su se stesso un’analisi adeguatamente lunga e approfondita.
La cosa interessante è che F. sembra anticipare le ricerche di Weiss & Sampson[8] (1993), quando afferma che “si potrebbe parlare di un tentativo inconscio dei pazienti di mettere alla prova, con coerenza e nei modi più diversi, la pazienza dell’analista su questo punto, e non una ma innumerevoli volte.” (2002, p.19): solo se l’analista, continuerà a sopportare questo test che “in certi casi esige uno sforzo quasi sovrumano“, senza mai perdere la pazienza, allora il paziente avrà modo di comprendere meglio la realtà, disconfermando le aspettative inconsce o le sue “convinzioni patogene” inferite dalle esperienze infantili, secondo la definizione di Weiss. La fiducia del paziente pertanto si acquisisce gradualmente superando le varie prove che sottopone il paziente.
Un altro aspetto centrale del pensiero di F. è quello che riguarda la considerazione e l’uso dei sentimenti dell’analista per il paziente in analisi: F. infatti evidenziò come i pazienti siano dotati di una raffinata sensibilità per ciò che riguarda i pensieri e le emozioni dell’analista, come fosse una forma di “chiaroveggenza”, anticipando quindi in buona parte anche Searles (1979)[9] e Langs (1985)[10]. Già nel 1924 Ferenczi parlando del rischio di un controtransfert narcisistico, descrisse la casistica in cui il paziente viene indotto, inconsciamente, dall’analista a portare il materiale a lui più gradito: l’analista, non accorgendosi di rafforzare i sentimenti inconsci di colpa del paziente, evita i suoi sentimenti ostili e quindi il nucleo dei propri complessi.
E quindi, essendo impossibile “ingannare” il paziente con un’affettata gentilezza o con una fredda riservatezza che serve solo a nascondere l’antipatia verso il paziente, F. suggeriva spontaneità e sincerità, comprendere cosa infastidisca controtransferalmente e soprattutto non lasciare nulla di implicito. Ciò che dunque risulta determinante è la continua presenza dell’analista nonostante le varie “prove” del paziente: avere la libertà di permettersi qualunque cosa in quanto a parole senza incorrere in qualche tipo di punizione da parte dell’analista; la possibilità di potersi affidare ad una presenza benevola e in grado di aiutare il paziente, che è sufficientemente forte da contenere eccessi pericolosi e riportarlo ad un esame di realtà.
“All’analista non rimane altro che riconoscere i propri veri sentimenti, ammettere per esempio che, oberato da problemi personali, spesso riesce con difficoltà a interessarsi di ciò che gli dice il paziente. [...] Può anche succedere che al paziente venga l’idea, o che debba essere incoraggiato ad averla, che la nostra difficoltà a metterci al suo posto e il nostro fastidio o incapacità a essere spettatori veri del dramma siano in parte provocati da complessi non ancora risolti, incontrollati o del tutto inconsci, presenti nell’analista. Infatti, noi analisti dobbiamo ammettere di dovere molto allo sguardo acutamente critico dei nostri pazienti, specialmente quando è da noi provocato, perché ci consente di cogliere le particolarità del nostro carattere o i suoi punti deboli.” (dal Diario Clinico, 2002, p. 64)
L’esperimento dell’analisi reciproca
L’intero Diario Clinico F. è una profonda critica alla rigidità del metodo analitico, alla tendenza da parte dell’analista a sfuggire il dolore e l’ignoto rifugiandosi nella teoria, affrontando un tema che già aveva toccato in Il problema del termine dell’analisi (1927), ossia il ruolo della menzogna e dell’ipocrisia dell’analista, così come era stato per il bambino con i propri educatori.
Qualche anno prima della sua morte, F. provò infatti ad analizzare quattro pazienti americane per un’ora, seguita da un’altra ora in cui avrebbe lasciato le pazienti analizzare lui. Gli appunti di tale esperimento furono scritti e raccolti nel Diario clinico (1932), che però vedrà la luce solo nel ’69 dopo la decifrazione del suo più caro allievo, M. Balint. L’invenzione di tale pratica, in realtà era stata di una sua paziente: Elisabeth Severn (indicata nel Diario con la sigla R.N.): una donna che soffriva profondamente e la cui variegata sintomatologia comprendeva stati depressivi, spinte suicide e allucinazioni.
All’inizio Ferenczi nutriva antipatia nei confronti della Severn, ma le proprie formazioni reattive lo portarono ad affrontare questi sentimenti di avversione e di stanchezza assumendo un atteggiamento condiscendente e esageratamente gentile. Inevitabilmente Elisabeth pensò di aver trovato in lui “l’amante ideale”, quindi spaventato dal misfatto, F. cercò di interpretare alla paziente i sentimenti negativi nei suoi confronti. A quel punto Elisabeth riuscì a smascherare F. replicando con identiche interpretazioni e facendolo confessare che l’atteggiamento gentile mantenuto fino ad allora era in realtà la copertura insincera di insofferenza e antipatia. Fu allora che F. decise di esprimere liberamente i suoi sentimenti, constatando che l’analisi, che da due anni si era arenata, cominciò a fare progressi. A partire da quel momento egli acconsentì a scambiare in forma sperimentale il suo ruolo di analista con quello di paziente, con doppie sedute, o sedute alternate.
In seguito, gradualmente, F. scoprì tutta una serie di ovvi problemi inerenti a questa tecnica: la discrezione nei confronti delle informazioni degli altri pazienti, il rischio che il paziente distolga l’attenzione da se stesso per cercare in maniera paranoide i complessi dell’analista, la necessità di preservare il paziente dalle problematiche personali dell’analista... F. stesso si rese ben presto conto che l’analisi reciproca poteva rappresentare solo un “accorgimento provvisorio”, se non una via percorribile solo in rarissimi casi. Infatti Elisabeth comincerà a sviluppare idee al limite del delirio riguardo alla loro analisi reciproca: iniziò ad essere convinta che senza di lei F. avrebbe perso tutte le sue capacità terapeutiche.
Furono proprio queste sperimentazioni di F. a smuovere le critiche di Freud che lo descrisse come un “godfather” che elargendo in modo eccessivo affetto materno accudendo i pazienti, avrebbe portato i giovani analisti su una strada pericolosa. Questione di cui già F. qualche anno prima si era reso conto, ben conscio dei rischi e delle conseguenze che avrebbe comportato un’analisi troppo “materna”. Riporta infatti in Analisi infantile con gli adulti (1931):
“E’ legittimo affermare che il procedimento da me usato con i pazienti consiste nel ‘viziarli’. (…) mi comporto come una madre, che la sera non va a letto se prima non ha parlato a lungo con il suo bambino e scacciato, tranquillizzandolo, tutte le sue preoccupazioni grandi e piccole, le sue paure, le cattive intenzioni, gli scrupoli di coscienza. (…) Ma questa relazione di tenerezza non puo’ durare in eterno, neppure nell’analisi. Il paziente ridiventato bambino si fa sempre più esigente. (…) Ovviamente, quanto più intenso e fecondo era stato il transfert, tanto più traumatiche saranno le conseguenze della decisione, che alla fine si deve pur prendere, di porre fine a questa situazione di assoluta libertà.”
Conclusioni
Nonostante le innovazioni teoriche e tecniche che sviluppò F., sorge spontaneo sottoporre ad esame analitico la possibile origine e le eventuali motivazioni latenti delle stesse idee e della sua straordinaria dote empatica che lo hanno reso tanto amato e contestato negli anni fino a farlo marchiare addirittura come “pazzo” o eretico (come fece E. Jones[11]). E’ infatti oramai risaputo come il Diario clinico sia nato dopo la rottura ufficiale con Freud verso cui F. si dimostrò profondamente amareggiato per il modo con cui aveva condotto la sua analisi didattica (accusandolo in una lettera del 1930, tra le varie cose, di non aver analizzato il suo transfert negativo). Si puo’ dunque intendere il Diario anche come un modo per risolvere il proprio transfert nei confronti di Freud, di cui ne critica anche la tecnica impersonale, eccessivamente pedagogica e autoritaria, inevitabilmente fonte di sentimenti edipici di sottomissione o sfida. [per approfondimenti vedi qui].
F. d’altronde combatterà tutta la vita con una sorta di bisogno insaziabile d’amore: l’idealizzazione nei confronti del suo mentore aveva sprigionato in lui un ardente desiderio d’intimità con Freud che, deluso dal legame con Fliess, non volle più concedere. Più volte infatti Freud dovette cercare di ridimensionare le intenzioni di Ferenczi di trasformalo in un padre amorevole (come durante il celebre viaggio assieme in Sicilia nel 1910): Freud, che non amava affatto i suoi toni adulatori e filiali (cercando quindi di essere più un amico che una guida), compiaciuto e onorato dalla sua persona e dai suoi brillanti lavori, alla fine cedette alle pressioni (nelle lettere si rivolgerà a lui come “caro figlio” o firmandosi con “paterni saluti”)… fino al momento della rottura in cui Freud voltò definitivamente le spalle a quel figlio tanto amato quanto sopportato.
Questa dinamica con Freud sembra essersi trascinata nell’esperimento dell’analisi reciproca dimostrando confusione tra il suo stesso bisogno di “essere curato” e quello delle sue gravi pazienti, come d’altronde lui stesso riporta: “Anche la nostra psiche è più o meno frammentata e, specialmente dopo aver dispensato quantità notevoli di libido senza alcun ritorno, ha bisogno di simili contraccambi da parte di pazienti ben disposti, guariti o sul punto di esserlo”. F. mise in atto quasi certamente la sua insufficiente capacità di contenimento utilizzando inconsciamente i pazienti come contenitore delle sue emozioni.
Un’altra manifestazione di questo residuo nevrotico di F. si puo’ notare d’altronde nel furor sanandi verso quei pazienti che per gravità, nessun altro analista voleva prendere in carico: egli era intenzionato a riparare il danno causato da importanti traumi o abusi sessuali (presunti reali), a volte incarnando quasi concretamente il ruolo di “madre affettuosa” che bacia e abbraccia i suoi bambini sofferenti. E in effetti le biografie su F. mettono tutte in luce un rapporto problematico proprio con la madre: F. era cresciuto in una famiglia con altri dieci fratelli, il padre era morto giovane e la madre, oltre alla prole, doveva occuparsi della libreria-editoria di famiglia. F. raccontava come la madre fosse sempre stato con lui fredda ed esageratamente severa, lamentandosi quindi di non aver ricevuto l’amore e il riconoscimento che desiderava. Lou Salomè, che lo conosceva bene, scrisse nel suo diario: “Da bambino ha patito perché ciò che faceva non veniva adeguatamente apprezzato.” L’associazione a questo punto giunge automatica: molto probabilmente F. tentava di dare ai suoi pazienti proprio ciò che non aveva ricevuto da fanciullo.
Di fatto F. non riuscì mai a liberarsi dall’intenso legame dipendente con Freud dai toni profondamente ambivalenti: c’è chi sostenne (come lo stesso Freud) che il conflitto in F. fu tale (una volta in cui cercò di “emanciparsi” seguendo senza briglie i voli pindarici della sua fantasia teorica), da averlo poi gradualmente somatizzato attraverso la patologia che svilupperà. F. infatti, che soffriva della sindrome neuro-anemica del morbo di Biermer (malattia molto dolorosa e incurabile prima della scoperta della vitamina B12), morirà nel maggio del 1933 a seguito di complicazioni dovute a mielite ascendente (degenerazione al midollo spinale).
Dunque sotto questa prospettiva, gli esperimenti tecnici di F. vanno contestualizzati e inserite all’interno della pratica clinica con la giusta cautela e attenzione, dato che, come ricorda anche A. Freud (1976)[12], pensare di riuscire a ripristinare in analisi realmente la relazione precoce madre-bambino, è un mito.
”In quale misura si trattava allora di un’esperienza legittima e in quale misura invece era solo un sintomo dell’immenso desiderio d’amore e di aggetto che Ferenczi portava in sé? E’ impossibile stabilirlo, dal momento che è morto prima di aver portato a termine le proprie ricerche” (M. Balint, Introduzione al volume Opere IV, 2002, p.XXIII)
Tuttavia, rimane indiscusso come F. abbia trasformato la psicoanalisi in un’esperienza relazionale continuamente co-costruita dalla coppia analista-analizzando: F. capì che incoraggiando un particolare stile di ascolto e di coinvolgimento terapeutico si puo’ raggiungere col paziente un’interazione collaborativa e un’acquisizione di consapevolezza che si puo’ sviluppare solo con la particolare presenza dell’analista, che rimane sempre e comunque coinvolto nelle dinamiche della relazione analitica e nell’accadere della traslazione in ogni sua forma.
“Ferenczi osa sentire e osa esprimere sentimenti, idee, intuizioni, sensazioni che, generalmente, hanno difficoltà ad aprirsi un varco fino alla coscienza e difficoltà ancora maggiori a lasciarsi esprimere con parole. […] La lettura del Diario fa ipotizzare che Ferenczi, sia in veste di analista che di analizzando, abbia sperimentato l’inadeguatezza delle cosiddette tecniche classiche di fronte ad un certo tipo di problemi.” (J. Dupont)
Bibliografia
Cremerius, J. (1985), Il mestiere dell'analista, Torino: Boringhieri, 1985,
Ferenczi S., O. Rank (1923), Prospettive di sviluppo della psicoanalisi. Sull’interdipendenzatra teoria e pratica, in «Psicoterapia e Scienze Umane», 2012, XLVI, 4
Ferenczi S. (1927-1933), Opere Volume Quarto, Milano, Raffaello Cortina, 2002.
Ferenczi S. (1932), Diario Clinico, Milano, Raffaello Cortina, 2002.
Note
[1] Masson J., (1984), Assalto alla verità, Mondadori Ed., 1984
[2] Freud S. (1924), Autobiografia. OSF, vol 10, Torino, Bollati Boringhieri
[3] Fromm E., Grandezza e Limiti del Pensiero di Freud, Milano, A. Mondadori, 1979.
[4] A. Freud (1936), L’io e i meccanismi di difesa, Giunti Ed. 2012
[5] Gill, M.M. (1982), Teoria e tecnica del transfert, Astrolabio, Roma, 1985
[6] S. Freud (1937) . Analisi terminabile e interminabile e Costruzioni nell'analisi. Torino, Bollati Boringhieri.
[7] Ferro A., Pensieri di uno psicoanalista irriverente, Raffaello Cortina Ed., 2017
[8] Weiss J. (1993), Come funziona la psicoterapia. Torino: Bollati Boringhieri, 1999
[9] Searles H. (1979), Il controtransfert. Torino: Bollati Boringhieri, 1994
[10] Langs R. (1985). Follia e cura. Torino: Bollati Boringhieri, 1988
[11]Jones E. (1953), Vita e opere di Freud, Il Saggiatore, 2000
[12]Freud A. (1976), Intervento al Convegno “Cambiamenti nella pratica ed esperienza psicoanalitica”, Int. J. PsychoAnalysis, vol. 57
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