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Spunti generali di pedagogia psicoanalitica: l’educazione del bambino secondo la psicoanalisi.

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Pedagogia psicoanalitica
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"I mestieri più difficili in assoluto sono nell'ordine il genitore, l'insegnante e lo psicologo." S. Freud


Introduzione


Non esistono regole fisse nell’educare, sia perché non esistono due bambini uguali, sia perché resta comunque l’educatore a rimanere l’autorità più affidabile in quanto osservatore diretto, scopritore partecipe e unico vero potenziale conoscitore del proprio figlio. Rivolgersi all’educatore con ricette o prescrizioni rigide non farebbe altro che porlo nello stesso atteggiamento di passività e soggezione reverenziale dinanzi all’autorità che il bambino ha dovuto assumere di fronte ai propri genitori.


Altra questione invece è familiarizzare con la cultura e con lo “spirito” psicoanalitico, fornendo cioè all’educatore maggiori strumenti per poter essere consapevole e poter esplorare con curiosità e maggiori conoscenze quel mondo tanto affascinante quanto misterioso che è il bambino. Si tratta quindi di fornire informazioni più che consigli sulla natura stessa dei problemi e sul funzionamento psichico del bambino nelle sue varie fasi evolutive affinchè gli educatori possano diventare maggiormente consapevoli di ciò che solitamente sono soliti fare d’intuito.


Infatti da sempre la pedagogia e la psicoanalisi infantile hanno cercato di capire quali fossero le condizioni migliori perché un bambino possa crescere psichicamente sano e in che modo si possa contribuire attivamente per agevolare tali condizioni. Per cui se è pur vero che un atteggiamento spontaneo e l’intramontabile “buon senso” da parte dell’educatore sono sempre consigliati in casi d’incertezza o di dubbio (infatti un comportamento prescritto che non sia stato compreso e introiettato contribuisce solo a creare confusione nel momento in cui l’educatore si trova a dover agire), giova comunque sempre ricordare l’espressione divenuta oramai celebre di B. Bettelheim (1950), ossia che per crescere un figlio “l’amore non basta” .


La prima cosa da prendere in esame è che cosa s’intende qui per sostegno psicoanalitico all’educazione. E’ l’aiuto offerto perché il bambino, quando incorre in difficoltà interne (forte pressione pulsionale in presenza di un io ancora immaturo) o esterne (rivalità tra fratelli, divieti di genitori), possa superarle senza che si diano in lui formazione di sintomi, stati d’angoscia, deformazioni del carattere e restrizioni della creatività” (Cremerius, 1975, p.24).


Educazione pulsionale e intellettiva


Lo si dimentica sempre, ma i bambini non sono degli adulti con cui interagire alla pari, dato che hanno bisogno di molto tempo per dotarsi dei medesimi strumenti procedendo per stadi o linee evolutive, ognuna delle quali è caratterizzata da specifici atteggiamenti e processi: sono dotati di una logica propria che solo gradualmente con la crescita si avvicinerà sempre più alla ragione (debolezza dei processi secondari); sviluppano un legame affettivo (relazione con l’oggetto) diversificato e particolare durante ogni fase; soffrono più degli adulti per le tensioni e i disagi a cui sono esposti.


Ma soprattutto il bambino è un essere fortemente pulsionale: quando Freud (1913)[1] parla delle pulsioni come di “preziose fonti di energia” fa intendere che esse sono la linfa vitale che sosterrà l’uomo per tutta la vita, ma che bisogna far sì che il bambino impari gradualmente a conoscerle e disciplinarle senza tuttavia sacrificarle: “nell’educazione del fanciullo badiamo soprattutto a essere lasciati in pace, a non avere difficoltà; insomma a fare di lui un ‘bambino bene educato’, curandoci assai poco di sapere se la disciplina a cui l’assoggettiamo gravi anche a lui oppure no.” (p.3)


Se le pulsioni del bambino subiscono una sorte troppo avversa, ossia se il piacere connesso alle varie esperienze di soddisfacimento nelle varie fasi si trasforma in dispiacere (per esempio a causa di un’educazione troppo rigida e repressiva), il rischio sarà quello di limitarne fortemente la capacità di godere e di gioire (aspetti nevrotici) o se va peggio l’insorgenza della sintomatologia più variegata. A differenza di ciò che si aspetta l’adulto, è proprio in presenza di bambini poco vivaci, docili, remissivi, troppo “buoni” e ubbidienti che si sospetta la presenza di aspetti patogeni.


Ciò che rende educabile il bambino nella sua condizione di profonda e lunga dipendenza è infatti la paura di perdere l’amore dei genitori unita al timore della punizione. Il bambino è costretto ad adattarsi al clima famigliare, acquisendo regole e codici di comportamento per non perdere il loro amore: Ferenczi (1927) suggeriva che i genitori dovrebbero insegnare al bambino a gestire (e non unicamente a mortificare) il suo mondo pulsionale, offrendogli sia momenti di scarica che possibilità sublimatorie (attraverso altre attività sostitutive), prima di reprimerlo in toto di primo acchito.


Se trattiamo il bambino con prudenza, lasciando che, da un lato, egli segua sino a un certo punto i suoi impulsi e offrendogli dall’altro la possibilità di sublimarli, allora il cammino gli sarà molto più facile ed egli imparerà a dirigere i suoi bisogni primitivi sulla via della loro utilizzazione. Sono quei bisogni che gli educatori, troppo spesso, tentano di soffocare come se fossero qualcosa di cattivo in sé, e non quelle importanti fonti di energia a cui prima abbiamo accennato.” (Ferenczi, 2002a, p.7)


Ogni tipo di educazione dovrebbe avere come base i bisogni e gli interessi del bambino e soltanto in un secondo tempo porsi il problema di quali accorgimenti adottare affinchè, secondo un esame critico che scremi il superfluo dal necessario, possa integrarsi all’interno della società e le sue norme.


M. Klein (1919)[2] invece metteva in guardia da un atteggiamento che vede nella pulsionalità (nella sessualità come nell’aggressività) qualcosa di pericoloso, scabroso e di cui vergognarsi. In particolar modo il bisogno di rivolgere domande, così imperioso soprattutto quando riguarda il tema sessuale o altri argomenti delicati, rappresenta un momento cruciale per lo sviluppo intellettivo del bambino affinchè possa mantenere intatta anche in futuro la propria curiosità. Infatti ciò che il bambino percepisce nel genitore essere fonte di disagio, pericolo o vergogna, rischia di soggiacere a rimozione, ossia di venire amputato dalla coscienza e dalla personalità del bambino. Ma l’aspetto più importante della rimozione è che non vengono accantonate solo le emozioni e i pensieri inerenti al tema, ma in linea associativa anche tutte le idee connesse, portando ad un’inibizione intellettiva generale. Infatti per paura di imbattersi in qualcosa di proibito o peccaminoso, il bambino smette di continuare a rivolgersi al modo con la sua curiosità smaniosa di comprendere e andare a fondo sulle cose: l’impulso ad indagare viene etichettato come pericoloso e ogni tentativo di approfondimento verrà evitato.


Dunque, con un atteggiamento di onestà e franchezza (anche nell’ammissione dei propri errori o dell’ignoranza di certe informazioni), fornire risposte sugli argomenti in modo completamente veritiero e in una forma che, in base all’età, il bambino possa comprendere chiaramente, evita l’insorgere di rimozioni e la formazione di quei fraintendimenti che lo portano a colmare lacune con la propria fantasia (distorcendo la realtà). Il bambino dovrebbe disporre sempre di piena libertà nelle sue richieste e domande, così come in generale della massima possibilità d’espressione emotiva e creativa, pur sempre entro gli ovvi limiti della comune convivenza.



Espressione del Sé e rispecchiamento


“Quando osserviamo attentamente l’atteggiamento dei genitori affettuosi nei confronti dei loro bambini dobbiamo riconoscervi una reviviscenza e una riproduzione del loro stesso narcisismo, ormai da lungo tempo abbandonato… si dà così in loro una costrizione ad assegnare al bambino ogni perfezione, di cui un’osservazione spassionata non troverebbe motivo, e a celare e dimenticare ogni difetto – e rientra in questo contesto il diniego della sessualità infantile -. Ma si dà in loro anche una propensione a differire per il bambino il momento di tutte le acquisizioni culturali il cui riconoscimento è stato forzosamente imposto al loro narcisismo, e a rinnovare per lui la pretesa di quei privilegi ai quali essi hanno da lungo tempo rinunciato. Il bambino deve avere una vita migliore dei suoi genitori, non deve essere soggetto alla necessità che domina la vita. Malattia, morte, rinuncia al piacere, restrizioni della propria volontà non devono valere per il bambino; per lui le leggi della natura e della società devono essere sospese; egli deve tornare ad essere veramente il centro e il nucleo del creato. Deve essere His Majesty the Baby, come un tempo ci si è creduti. Sarà il bambino a esaudire i sogni di desideri irrealizzati dei genitori, il grand’uomo e l’eroe che si sostituirà al posto del padre, il principe che, a tardivo risarcimento, diventerà lo sposo della madre…” (S. Freud, 1914)[3]


Questo estratto di Freud, per quanto oramai datato, dimostra ancora tutta la sua perspicacia grazie a quegli autori (vd. Winnicott, Miller, Sullivan, Bromberg…) che successivamente si sono soffermati in particolar modo sullo sviluppo del Sé (o dell’Io o del senso d’identità) del bambino. Infatti questi autori hanno più volte sottolineato come il Sé del bambino venga compromesso nel momento in cui viene educato non nella libertà espressiva dei propri sentimenti e “talenti” naturali, ma secondo un modello prestabilito dall’educatore o, come accade di solito, nel momento in cui viene “strumentalizzato” inconsciamente dai genitori per colmare certi bisogni di cui non hanno consapevolezza.


La genitorialità è infatti un evento in grado di risvegliare nell’educatore tutte quelle esperienze infantili che ha dimenticato: è quasi la norma osservare come l’educatore cerchi di risparmiare al proprio figlio tutto ciò che nell’infanzia aveva sperimentato come penoso o al contrario atteggiarsi nella medesima maniera dei propri genitori (se non superandoli in intensità). Nel primo caso l’educatore concede al figlio ciò che nell’infanzia gli era stato proibito (ossia rivive nel comportamento verso i figli i sentimenti di protesta e ribellione nei confronti dei propri genitori), mentre nel secondo caso l’educatore spinge il figlio nei medesimi conflitti verso l’autorità che aveva provato a suo tempo durante l’infanzia (costruendo quindi una specie di catena generazionale). In altri termini, a livello inconscio l’educatore si relaziona al figlio con modalità e atteggiamenti atti a far fronte ai conflitti irrisolti coi propri genitori d’infanzia: i “traumi” vissuti dal genitore, per quanto lievi, si perpetuano, attraverso la rimozione, nel rapporto con i figli.


Pertanto diviene la norma constatare come i valori e le basi su cui l’educatore costruisce il proprio agire educativo, in realtà rappresentino la giustificazione alla riedizione di personali traumi camuffati da una moltitudine di meccanismi di difesa: “non ho mai sofferto durante l’infanzia” (negazione), “faccio così perché serve… così impara…” (razionalizzazione), “è mio figlio che mi fa penare, non i miei genitori” (spostamento), “la sofferenza subita dai miei genitori è stata salutare” (idealizzazione), il rovesciamento di ciò che si aveva subito in comportamenti attivi sui figli (identificazione con l’aggressore).


Ognuno di noi ha dentro di sé un cantuccio, a lui stesso più o meno celato, in cui si trova l’apparato scenico del dramma della sua infanzia. Gli unici che con certezza avranno accesso a questo deposito saranno i nostri figli. Per mezzo loro, l’apparato scenico sarà vitalizzato: il dramma va avanti.” (A.Miller, 1996, p.31)


Infatti se il bambino per vivere un sentimento (dalla rabbia, la paura, la gelosia ad una vitalità non gradita) sente di rischiare di perdere l’amore dell’educatore, allora tale sentimento dovrà essere rimosso: per conservare il legame d’attaccamento col genitore il bambino dovrà sacrificare aspetti di sé non accettati, limitandosi ad apparire come ci si aspetta da lui, ossia sviluppando quello che Winnicott (1965) definiva un Falso Sé partorito dall’adattamento ai bisogni del genitore.


Dunque è importante sottolineare come i desideri di “rispecchiamento”, comprensione e considerazione del bambino rappresentino un bisogno fondamentale al pari del nutrimento e della protezione: il fatto cioè di essere visto nella propria unicità, alterità e soprattutto attraverso l’accettazione dell’intera gamma delle sue espressioni senza il timore o l’esagerata preoccupazione che per queste possa perdere l’affetto dei propri genitori. Quando il bambino non viene amato per quel che è, ma viene usato per colmare qualche lacuna o bisogno del genitore, allora impara ben presto quali sono le forme e i modi privilegiati per guadagnarsi il suo amore, cosicchè gran parte della sua spontaneità vitale e creativa riguardo a desideri, pensieri ed emozioni (soprattutto quelle spiacevoli come la tristezza, la rabbia, la gelosia, l’invidia, la vergogna, l’impotenza, la fragilità, la confusione…), rischia di venire irrimediabilmente accantonata anche per tutta la vita adulta.


Se il bambino si sente vissuto come una “proprietà” priva di rispetto su cui realizzare scopi, bisogni, proiezioni personali e non come entità separata a sé stante, allora lo sviluppo del suo Sé ne verrà fortemente indebolito per lasciar spazio al bambino mite, docile e somigliante alla rappresentazione ideale del genitore. Ossia accade il fenomeno a cui Freud si riferiva semplicemente in senso generale con il termine “nevrosi”, in cui al posto degli originari desideri e degli autentici sentimenti che sono stati rinnegati, il senso di colpa diventa l’unico vero sentimento dominante,.


A che cosa tende la nostra azione educativa? Noi ci impegniamo affinchè il bambino conquisti gradualmente un senso di sicurezza. Deve formarsi, nell’intimo di ogni bambino piccolo, una fede in qualcosa; non solo in qualcosa che sua buono, ma in qualcosa su cui possa contare e che resista, oppure che, se offeso o lasciato perire, risorga.” (Winnicott, 1993, p.82)



Tra gratificazione e frustrazione


Se è vero che soprattutto nei primi due anni di vita il bambino deve percepire chiaramente il calore e la sicurezza del genitore accudente, è altrettanto vero che un appagamento senza riserve che rifugga da ogni disciplina, regola e contenimento pulsionale rappresenta un atteggiamento tanto irragionevole quanto malsano per il suo sviluppo. Infatti una certa dose di frustrazioni è indispensabile per lo stesso sviluppo sano del bambino: “se le madri fanno bene il loro mestiere, finiscono inevitabilmente per rappresentare le istanze del mondo, che è duro ed esigente, e tocco a loro far conoscere ai figli la realtà, che spesso è in contrasto con gli istinti.” (Winnicott, 1993, p.8)


Spitz (1957), in accordo con Freud, affermava che è proprio l’esperienza della frustrazione che, se adeguata e non esageratamente angosciante, permette all’Io di crescere e di evolvere. Infatti se è vero che il bambino necessita di stimoli, gratificazioni e sollecitazioni conformi all’età, è fondamentale che impari anche l’importanza della capacità di saper sopportare le tensioni pulsionali, ossia che sperimenti l’esperienza dell’attesa (la procrastinazione del soddisfacimento). Insegnargli gradualmente che ci sono anche delle regole, dei limiti e delle norme di condotta per quanto minime e basilari, che non si puo’ avere tutto ciò che si desidera, che ogni compenso si ottiene con fatica e con pazienza e che esiste anche un mondo con bisogni e desideri esterni da sè (la realtà che contrasta il senso d’onnipotenza)… favorisce invece che nuocere lo sviluppo del bambino quando ha sufficiente fiducia nell’attaccamento sicuro con l’educatore. Crescendo, al bambino verrà richiesto sempre più di adattarsi alla realtà della vita e se non lo si ha aiutato in tale compito quando era il momento giusto, allora diverrà per lui molto più faticoso e frustrante riuscire ad adattarsi quando gli verrà richiesto un inserimento sociale più attivo.


Non vorrei però essere frainteso. Io non sono dell’opinione che la nota fondamentale o l’aspetto principale del rapporto con il lattante, o con il bambino in generale, debba essere costituito dalla frustrazione. Sono lontanissimo da un’idea del genere. Al contrario ritengo fermamente che la base del rapporto con il bambino debba consistere nell’amore; il rapporto d’amore con il bambino è indispensabile, è la premessa fondamentale. Tuttavia perché il bambino possa percorrere felicemente il cammino per farsi uomo e acquisire un’adeguata maturità, deve aver luogo un adattamento alla realtà. E la realtà della nostra civiltà occidentale è dura.” (R. Spitz, in Cremerius 1975, p. 272)


A. Balint (1932) [4] consigliava di tenere sempre a mente il duplice obiettivo nell’educazione al bambino: da una parte insegnargli “l’efficienza pratica” data la necessità di adattamento alla realtà e alla propria comunità, dall’altra la capacità di poter provare piacere e conservare la propria vitalità. Di fatto l’educazione dovrebbe essere per il bambino “un surrogato della realtà nel quale egli puo’ esercitarsi e formarsi. (…) In un periodo in cui il bambino è ancora amato e curato incondizionatamente lo si prepara gradualmente a vivere in un ambiente in cui amore e protezione non gli saranno mai offerti incondizionatamente.” (in Cremerius, 1975, p.110)


M. Balint (1939)[5] ha fornito invece un’interessante distinzione tra frustrazioni basate su imposizioni morali e valoriali specifici dell’educatore (superegoiche), e frustrazioni basate invece sulla basilare disciplina e il necessario contenimento delle pulsioni del bambino (egoiche), atte all’unico scopo di rendere l’Io sempre più capace di tollerare, procrastinare e sublimare (con i dovuti aiuti), ossia di fortificarsi. In altri termini frustrazioni (oltretutto fornite da spiegazioni quando il bambino diviene capace di comprendere) che servano a rendere l’Io capace di fronteggiare diverse situazioni, piuttosto che fondate su imperativi, comandi arbitrari, imposizioni, moralizzazioni di vario genere.


Si potrebbe dire che l’educazione sia l’arte dell’equilibrio tra gratificazione e frustrazione: un’educazione non dovrebbe chiedere al bambino più di quanto la sua età gli consenta di agire, né astenersi dal procurargli qualsiasi frustrazione. Entrambi gli eccessi sono da rintracciare in residui nevrotici dell’educatore


“Il bambino nasce filosofo, pone domande, ascolta, elabora risposte; poi arriva l’adulto con i suoi: ‘non puoi capire’, ‘è così e basta’, ‘quando crescerai capirai’, ‘ascolta quello che dico perché sono più grande’, ‘zitto quando parlano i grandi’, ‘è così, è sempre stato così’, ‘il tuo lavoro è andare bene a scuola’. Piano piano spegne la fiamma e il bambino vivo diventa un adulto morto.” Egon Schiele


“Molto si puo’ ottenere con la severità, molto con l’amore, il più però si ottiene con la comprensione”. W. Goethe

Tra progressione (crescita) e regressione


“Mentre i genitori possono vedere i loro progetti alla luce della logica, della ragione e della necessità pratica, il bambino li vive nei termini della propria realtà psichica, e cioè in relazione ai complessi, agli affetti, alle angosce, ed alle fantasie adeguati alla sua fase evolutiva da essi suscitati.“ (A. Freud, 1969, p.50)


Secondo Winnicott (1993) si potrebbe ridurre l’intera infanzia in 3 fasi che in parte si sovrappongono.


Nella prima fase genitore e bambino sono un tutt’uno in cui l’infante, costantemente dipendente, vive della sicurezza e della fiducia che il genitore nutre per se stesso: le emozioni del genitore permeano quelle dell’infante e la presenza dell’angoscia nella madre riflette la presenza dell’angoscia nell’infante. In questo periodo il bambino ha solo bisogno di essere completamente protetto, accudito e appagato in ogni suo desiderio: la mancanza di una presenza affettiva fissa in questo periodo puo’ recare gravissimi, spesso irreversibili danni nella sfera fisica e psichica (vd. i lavori di J. Bowlby, R. Spitz, A.Freud).


La seconda fase è d’importanza cruciale per lo sviluppo delle abilità e delle esperienze del bambino, in quanto il suo mondo si espanderà in base alla quantità e alla qualità di cose a cui il genitore dirà “sì”: per dirla con Sullivan (1940)[6] il bambino intuisce quali tra i suoi stessi comportamenti hanno l‘effetto di aumentare l‘angoscia del genitore, modellando di conseguenza le proprie esperienze in modo restrittivo. Infatti sarà per essere protetto dai pericoli del mondo esterno che per la prima volta il bambino dovrà scoprire il significato della parola “no” e, da lì in avanti, scontrarsi con una realtà esterna da sé. Ma se è vero che genitori iperprotettivi facilitano l’insorgere di angoscia nel bambino, è altrettanto vero che genitori inaffidabili rendono il figlio smarrito e spaventato: il bambino ha bisogno perciò di una sicurezza verso l’imprevedibile e sconosciuto mondo esterno, ma anche verso i suoi stessi impulsi e gli effetti che questi potrebbero produrre. Si tratta cioè di riprodurre attorno a lui “una stabilità che non è rigida, ma viva e umana” (p.83), un “ambiente [che] dovrebbe essere prevedibile e, soprattutto, capace di grande adattabilità ai bisogni del piccolo” (p.97).


Ma è durante la terza fase che il bambino, con la piena acquisizione del linguaggio (con cui puo’ comunicare i propri pensieri, desideri, sentimenti e intenzioni), e sviluppando un rudimentale senso critico, potrà cominciare a costruirsi idee proprie fino a trovarsi in disaccordo con le ragioni del genitore: ciò che alcuni mesi prima gli si poteva solo “inculcare”, ora al bambino è possibile offrirgli un importante strumento intellettivo, la spiegazione, con cui si puo’ ottenere la sua collaborazione.


Tuttavia è importante tenere sempre presente che ogni bambino mostrerà nel corso del proprio sviluppo momenti di regressione: non ci si puo’ aspettare che sia in grado di mantenersi sempre al suo livello più alto di rendimento e di comportamento. Infatti sul piano psichico nessuna tappa del percorso evolutivo viene mai totalmente superata (una parte dell’energia pulsionale del bambino rimarrà legata ai cosiddetti “punti di fissazione” a causa soprattutto di eccessive gratificazioni o frustrazioni). Ritorni occasionali a comportamenti più infantili sono pertanto la norma lungo un percorso di crescita composto da successi, difficoltà e ricadute, quest’ultime frequenti dinanzi a situazioni stressanti e problematiche per il bambino (come puo’ essere la nascita di un fratellino). Ciò che caratterizza tali regressioni è la loro temporalità: appena ha termine la causa ambientale della tensione o l’Io del bambino pian piano si struttura, la regressione scompare. Pertanto tali regressioni temporanee non vanno biasimate con severità dall’ambiente esterno perché non ostacolano il naturale sviluppo progressivo del bambino, dato che gli consentono di affrontare con più sicurezza certi disagi interni che si trova a sperimentare.


Essendo quindi il livello di prestazione del bambino sempre fluttuante, è bene insistere di non voler pretendere comportamenti al di sopra del suo livello potenziale o di forzare lo sviluppo di abilità che nella sua fase evolutiva non dispone. Il bambino infatti ha a disposizione una limitata quantità di strumenti per assolvere i vari compiti evoluivi corrispondenti alla propria età, per cui ogni intenzione o tentativo per accelerarne i processi di maturazione risulta vano se non dannoso: al bambino serve solo un ambiente fisico e relazionale adeguato che possa fornirgli la possibilità di testare e sperimentare le proprie abilità e capacità corrispondenti alla fase evolutiva in corso. In ogni bambino si osserverà dunque l’alternarsi tra la tendenza attiva di crescere accompagnato dal desidero d’indipendenza, e d’altro canto la riluttanza a rinunciare alle esperienze piacevoli più primitive (regressive) dell’infanzia passata.



Conclusioni


E’ risaputo oramai da tempo che uno sviluppo relativamente sano del bambino puo’ avvenire solo in presenza di un educatore che per primo ha fatto un po’ d’ordine in se stesso e nella propria vita: sovente succede che gli educatori ripetano inconsciamente i propri “traumi” infantili sui propri figli proprio per non dover affrontare la sofferenza che ne deriverebbe nel diventare consapevoli dei propri conflitti ancorati al proprio passato.


Vero è che l’intensa idealizzazione che avvolge la genitorialità nel nostro contesto socioculturale (permeata da massicci processi di scissione), spinge a negare l’imperfezione, le difficoltà e soprattutto gli inevitabili moti ostili e negativi che si trova a dover fronteggiare il neo genitore: per ogni educatore sarebbe utile sapere che puo’ capitare di non amare immediatamente il proprio figlio, che puo’ succedere di provare odio nei suoi confronti, che il fatto stesso di amare non è un semplice istinto ma un processo complesso e spesso faticoso. “Ai bambini piccoli, compresi i neonati, un’atmosfera di perfezione stereotipata certamente non giova. Essi hanno, invece, bisogno di avere intorno esseri umani, pur con le loro inevitabili inadeguatezze.” (Winnicott, 1993, p.114)


Infine è importante sottolineare che nemmeno le indicazioni esposte possono costituire una sicura profilassi contro disturbi del carattere e l’insorgenza futura di nevrosi: Freud (1929) ricordava bene infatti come la nascita stessa della Kultur civile abbia richiesto necessariamente come pegno da pagare da parte dell’uomo la repressione di una parte della propria pulsionalità (soprattutto le sue tendenze aggressive). Secondo Freud l’uomo primitivo stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale, anche se la sicurezza di poter godere di tale felicità era assai precaria: “l’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.” (p. 250)


Perciò secondo Freud anche nella più “perfetta” educazione infantile possibile, conflitti interni e aspetti nevrotici, per quanto minimi, diventano inevitabili dato l’intrinseco disagio dell’uomo dinanzi alla coercizione delle regole imposte dalla società. Dunque, di riflesso, anche la famiglia (rappresentante e surrogato di una determinata cultura), per quanto lassista, si ritroverà sempre e comunque nella condizione di dover “addomesticare” il bambino (attraverso le restrizioni pulsionali), affinchè possa diventare un membro integrato nella società “civilizzata”.


Secondo la psicoanalisi quindi non essendoci una totale “prevenzione” alla malattia, è normale constatare qualche lieve tratto nevrotico in ogni bambino (laddove le caratteristiche ereditarie si intrecciano con le circostanze ambientali con cui interagisce): sarà solo la quantità, l’intensità e il decorso futuro di questi tratti a determinare o meno la presenza di un evidente quadro patologico.


Non c’è dubbio che ogni educazione, anche la più comprensiva, poiché presuppone un certo grado di fermezza, provoca sempre in varia misura resistenza e soggezione. Perciò è inevitabile, anzi costituisce una delle necessità dell’educazione e della civiltà, che vi sia in ognuno un certo grado di rimozione. Un’educazione fondata sulle conoscenze psicoanalitiche ha però modo di limitarne al minimo la misura, eliminando così le inibenti e dannose conseguenza che essere esercitano sulla mente.” (M. Klein, 1919)[2].


Note a piè di pagina:


[1] Prefazione a “Il metodo psicoanalitico” di O. Pfister, 1913

[2] Conferenza della Società Psicoanalitica di Budapest (luglio 1919) – in Cremerius J. (1975), Educazione e Psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino.

[3]Freud S. (1914), Introduzione al narcisismo, Bollati Boringhieri, Torino, p.19

[4] Conferenza tenuta al XII Congresso di psicoanalisi a Wiesbaden nel 1932 in Cremerius J. (1975), Educazione e Psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino.

[5] M. Balint (1939), Forza dell’Io, pedagogia dell’Io e “apprendimento”in in Cremerius J. (1975), Educazione e Psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino.

[6] Sullivan H. S. (1940), La moderna concezione della psichiatria. Feltrinelli, Milano 1961



Bibliografia:


Bettelheim B. (1959), L’amore non basta. Mondadori Ed., Cles (TN), 1990.

Cremerius J. (1975), Educazione e psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino, 1975

Ferenczi S. (1927-1933), Opere Volume Quarto, Milano, Raffaello Cortina, 2002a.

Freud A. (1943 – 1966), Psicoanalisi ed educazione. Bollati Boringhieri, Torino, 2012

Freud A. (1965), Normalità e patologia nel bambino. Bollati Boringhieri, Torino, 1969

Freud S., Psicoanalisi infantile, Bollati Boringhieri, Torino, 1968

Freud S. (1929), Il disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino, 1971

Miller A. (1996), Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé, Bollati Boringhieri, Torino, 2008

Spitz R. (1957), Il no e il sì, Armando Ed., Roma, 1970.

Winnicott D., Colloqui con i genitori, Raffaello Cortina Ed., Milano, 1993

Winnicott D., (1965). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Ed., Roma, 1970.

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