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Psicopatologia maschile del femminile rinnegato: la natura perturbante del femminile nell'uomo.

Relazione tenuta per il VIII Convegno Internazionale congiunto Opifer e AAPDP: "Violenza di genere e trauma: prospettive psicoanalitiche". 22-23-24 ottobre 2021

Psicopatologia maschile del femminile rinnegato
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F. Khalo (1935), "Unos Cuantos Piquetitos": la pittrice lo dipinse dopo aver letto sul giornale dell'omicidio di un marito che aveva accoltellato la moglie per gelosia. Una volta in tribunale, l'uomo in sua difesa disse al giudice che aveva dato alla moglie solo "qualche piccola coltellata e nulla più" (frase divenuta il titolo del quadro, la cui cornice è anch'essa stata dipinta di rosso sangue, sottolineando quindi una sorta di continuità tra il "dentro" dell'immaginario e il "fuori" del reale).


Fin dagli albori dei tempi l’uomo ha sempre dovuto difendersi dal femminile: basti pensare alla mitologia greca (il mito di Pandora), a quella cristiana (la figura di Eva nella Genesi), a quella induista dei Veda (donne e paria sono “fuori casta”), in cui la donna è considerata l’origine di tutti i difetti e di tutti i mali del mondo. La serie degli esempi in cui l’uomo ha cercato di razionalizzare la natura funesta e pericolosa della donna, oltre che essere infinita, ha raggiunto nel corso del tempo le forme più astruse e stravaganti, come nel caso dell’ingegnoso Malleus maleficarum, il manuale per arrivare ben preparati alla caccia alle streghe (di cui la maggior parte condannate al rogo erano, caso strano, giovani belle e anticonformiste o donne in menopausa [Alizade, 2006]).

Come sottolineato da C. Thompson (1942), la stessa cultura patriarcale si è conservata grazie a giustificazioni biologiche che potessero sempre ribadire la natura inferiore della donna, utilizzando poi questo pretesto per negarle il diritto alla sessualità, all’aggressività e all’indipendenza, al fine di sfruttarla al meglio per i propri comodi (situazione questa in cui ovviamente l’oppresso ha anch’egli una parte dinamica complementare e partecipe). Infatti, come osservava S. de Beauvoir (1949), l’esistenza della donna nella cultura patriarcale è sempre stata subordinata al suo essere per l’uomo esclusivamente come proiezione di desideri e aspettative, ossia, come scriveva Freud (1912) parlando di “scissione della vita amorosa”, nella rappresentazione della Grande Madre (la donna idealizzata nella peculiare funzione oblativa) o sottoforma di oggetto sessuale (sempre a disposizione per soddisfarne ogni desiderio).


Gettando uno sguardo all’antropologia sull’argomento (Mead, 1949; Heritier, 1996) si osserva come in ogni società sia pressoché universale la dominanza di un mondo maschile costantemente intento a escogitare contromisure contenitive e coercitive per arginare la natura pericolosa della donna, come si evince da molteplici credenze: ad esempio la donna è in grado di comunicare con gli spiriti ed è dotata di poteri magici misteriosi che possono danneggiare o debilitare l’uomo; durante il periodo mestruale la donna è soggetta a numerosi tabù e spesso viene isolata dal resto della comunità per il suo effetto impuro, dannoso e contaminante; generalmente la donna sterile perde lo status sociale di donna all’interno della comunità di appartenenza (e ogni caso di infecondità nella coppia è da imputarsi sempre a lei)… Tuttavia il leitmotiv che ricorre più spesso è che, tra tutte le caratteristiche più oscure della donna, sia sempre la sessualità ad essere la più minacciosa, in quanto contrassegnata da un aspetto irrimediabilmente diabolico e fatale (non a caso in un celebre saggio M. Praz [1930] le accosta storicamente la triade “la carne, la morte e il diavolo”). M. J. Sherfey (1966) ha infatti ipotizzato che la civiltà sia potuta nascere solo nel momento in cui si è iniziato a reprimere la pulsione sessuale della donna, in origine troppo forte, sfrenata e suscettibile per poter garantire un adeguato ordine e un equilibrio sociale alla comunità.


Da un’altra prospettiva K. Horney (1967), coniando argutamente l’espressione “invidia dell’utero” per designare l’invidia da parte dell’uomo per i genitali femminili (e quindi verso la capacità femminile di generare) in contrapposizione all’invidia del pene nella donna, ha osservato come lo stesso intenso impulso sublimatorio nell’uomo (a cui solitamente si dà il merito della nascita della cultura), tradisca la necessità latente di una sovracompensazione per la mancanza di questa qualità esclusivamente femminile. E se, come pensava Freud, lo sviluppo ontogenetico dell’infante non è altro che il prodotto sedimentato dello sviluppo filogenetico dell’uomo, allora, come osservato da G. Zilboorg (1944), tale invidia (e quindi l’intensa ostilità annessa) potrebbe davvero suggerire l’esistenza di un tempo primordiale in cui il potere (e il controllo della parentela) erano interamente gestiti dalle donne in una vera e propria “ginecocrazia demetrica” (Bachofen, 1861); motivo per cui, secondo l’autore, fu solo con l’istituzione della famiglia (fallocentrica) che l’uomo riuscì a rovesciare le società femminili primigenie e dare così avvio al proprio potere narcisistico. Tesi che assomiglia a quella di alcuni antropologi (Mead, 1949; Heritier, 1996) secondo i quali è possibile che in risposta alla propria inferiorità biologica (la capacità di generare), il maschio abbia iniziato a controllare la prole (togliendo ad esempio i figli maschi alle madri per educarli a proprio piacimento), esasperando tutte quelle caratteristiche (forza, prestanza, attività, razionalità, autonomia…) potenzialmente in grado di differenziarlo - e quindi di ricompensarlo – rispetto al genere femminile. Cosicché egli potesse severamente proibire alle donne di competere nello svolgimento di certe attività, regolamentando ambiti di accesso esclusivamente maschile: “In moltissime società umane, la sicurezza sul loro ruolo sessuale, dipende, per gli uomini, dal diritto o dalla capacità di praticare qualche attività vietata alle donne.” (Mead, 1949, p, 142). Anche secondo J. Mitchell (1974) il patriarcato è coinciso con la civiltà nel momento in cui la donna è diventata oggetto di scambio tra le società totemiche (per il principio dell’esogamia), esistendo solo per la strumentalizzazione delle sue funzioni riproduttrici.

Secondo Lévi-Strauss (1956) infatti, uno dei pilastri della formazione della famiglia e della società, oltre alla proibizione dell’incesto e all’instaurazione di forme di unioni sessuali riconosciute, è rappresentato dalla ripartizione sessuale dei compiti, tale per cui tutto ciò che comporta disordine, contaminazioni o cortocircuiti nella regolamentazione sociale dei generi viene reputato nocivo per l’individuo e per la collettività.


Ma cosa dunque ci può dire in merito la clinica psicoanalitica?

Innanzitutto Freud (1932) ricordava come sia un errore far equivalere la femminilità alla sola donna e la mascolinità solo all’uomo, in quanto femminilità e mascolinità sono due aspetti complementari di una vita psichica sempre bisessuale nell’uomo e nella donna che, a partire da fattori costituzionali, dai significati psicologici che assumono le differenze anatomiche dei sessi, dalle dinamiche relazionali con l’ambiente esterno, richiederà un lungo sviluppo prima di una piena integrazione. E come di consueto, attraverso la psicopatologia è possibile osservare cosa accade (e per quali ragioni accade) nel momento in cui tale integrazione non riesce.

Come evidenziato da R. Greenson (1968), se è vero che il maschietto, durante il proprio sviluppo psicosessuale, debba inizialmente sovrainvestire sul proprio pene (svalutando difensivamente chi è castrato) e spostare la propria identificazione sulla figura del padre (dall’atteggiamento orale-ricettivo precedente a quello fallico-attivo) per riuscire a “disidentificarsi” adeguatamente dal corpo della madre, ne consegue che ostacoli e gravi difficoltà durante questa fase infantile portino il giovane adulto a dover lottare alacremente per difendere la propria identità sessuale maschile dal riassorbimento del femminile (la madre). Fenomeno che si può osservare in tutta la sua intensità in quelle forme di odio erotizzato che rivelano il desiderio di umiliare, degradare e distruggere il femminile (G. Sassanelli [2016] parlava giustamente di “femminilicidio”), ossia nel caso delle cosiddette perversioni sessuali. Come evidenziato da R. Stoller (1975) il perverso, sentendo continuamente minacciata la propria identità di genere, agisce difensivamente un’aggressività del tutto particolare, la vendetta, per rovesciare l’impotenza del trauma subito nell'infanzia (il rischio d’incorporazione da parte della madre e quindi la possibilità psicotica di non esistere [Goldberg, 1994]), in una forma di successo trionfale maniacale che trasforma la donna in un feticcio da violare, dominare, denigrare. (per approfondimenti...)


In forme meno gravi ma pur sempre marginali, dove continuano ad esistere vistose lacune nel Sé come nelle personalità narcisistiche, il femminile minaccia l’uomo soprattutto ricordandogli la propria inferiorità e il bisogno inaccettabile di dipendenza. Come sottolineato da J. Chasseguet-Smirgel (1986), la minaccia alla propria virilità è massima durante l’atto sessuale, nel momento in cui l’uomo ha il timore di non riuscire a soddisfare la donna così come il bambino durante la fase edipica fa esperienza della propria inferiorità nel potere soddisfare la madre desiderata (in assenza di una netta interdizione paterna nella sua funzione normativa ed identificatoria). Secondo E. Fromm (1949) infatti la donna è sempre in grado di mettere in ridicolo l’uomo insicuro della propria virilità, in quanto durante l’atto sessuale gli viene chiesto di dimostrarla a cominciare dal mantenimento dell’erezione. La stessa figura del Don Giovanni, ben nota alla letteratura psicoanalitica, descrive il libertino che, essendo stato sedotto eppoi deluso dalla propria madre, rovescia attivamente tale esperienza subita facendo altrettanto con le donne che conquista e che poi abbandona; coazione a ripetere che smaschera l’antico rancore verso la madre giunonica e irraggiungibile da cui derivano le vulnerabilità narcisistiche relative al terrore di sentirsi incapace e deriso. Inoltre, in tali strutture personologiche, il profondo desiderio latente di dipendenza (e l’impossibilità di accettare l’altro separato da sé che non si può controllare in modo onnipotente), è in grado di compromettere e mettere a repentaglio l’autonomia e la definizione del proprio Sé (Bergeret, 1996), che viene così protetto difensivamente attraverso l’asimmetria, la dominanza, l’illusoria autosufficienza (controdipendente). (per approfondimenti...)


Infine, considerando il caso delle nevrosi, com’è risaputo si possono rinvenire tracce edipiche irrisolte nella vita adulta attraverso la ricerca di un oggetto ideale “identico” (invece che simile) all’oggetto materno, alterazioni nella vita amorosa a causa di vissuti di colpevolezza e di timore del rifiuto, rappresentazioni polarizzate (e quindi scisse) di genere (il padre normativo e razionale in opposizione alla madre iperaccudente e irrazionale)… tutti aspetti che possono portare a conservare lo stato originario di svalutazione e di disprezzo della donna a scopo difensivo. Già Freud (1937) descriveva come il nevrotico sia solito instaurare una continua lotta contro la propria femminilità, in quanto, venendo fatta coincidere direttamente con la passività (e quindi con l’omosessualità), essa sia sempre in grado di risvegliare angosce d’evirazione, ossia la perdita della propria mascolinità. Inoltre, come aveva osservato M. Klein (1945), che il femminile possa costituire una minaccia per il bambino dipende anche dalla presenza di un padre con cui identificarsi che non incarni solo la Legge castrante e distanziante, ma anche un oggetto buono a cui rivolgere i propri moti d’amore e di tenerezza senza vergogna o timore (e chiaramente ciò può accadere solo se lo stesso padre abbia integrato serenamente la propria femminilità nel proprio Sè).


A questo punto non sarebbe forse troppo errato sostenere che la donna possa costituire una potenziale presenza perturbante per l’uomo dal punto di vista ontologico. Infatti B. Grunberger (1971) ha evidenziato come il femminile, in quanto rappresentante dell’originario stato elazionale infantile mai più completamente rispristinabile in età adulta, richiami inevitabilmente lo stato di “paradiso perduto” e quindi la mancanza e il vuoto connaturati all’umano. L’antica nostalgia del grembo materno (così fonte di attrazione e rigetto), ossia “l’antica patria dell’uomo” (Freud, 1919) rimane infatti il luogo inconscio (Ferenczi, 1924) in cui ogni desiderio viene gratificato, vige l’onnipotenza, sono assenti qualsiasi conflitto e tensione, e dove ci si aspetta “pace, redenzione e salvezza” (Reik, 1961). (per approfondimenti...)

Tuttavia, se si fa collimare la gravità della psicopatologia con l’intensità della nostalgia al materno (fino a diventare dunque persecutoria), è facile osservare come la ricerca della soddisfazione (seppur imperfetta) attraverso i mille volti di Eros possa trasformarsi in un odio talmente intenso da sfociare nel desiderio di disfarsi del femminile una volta per tutte, ed estirpare così ogni tensione, ossia operando in nome della pulsione di morte (Freud, 1920). Non a caso, in varie culture (Roheim, 1953), il materno viene spesso paragonato alla morte (il grembo della pace eterna per antonomasia), e il ritorno all’unione indifferenziata con la madre è un pericolo evocato da qualsiasi esperienza di profonda intimità relazionale (come l’amore erotico)[1]. Pericolo che, come descritto da A. Green (1983), nelle forme psicopatologiche viene scampato attraverso la distruttività (e la violenza ne è l’immediata espressione), al fine di ristabilire la sicurezza e l’onnipotenza narcisistica perduta che nega ogni dipendenza dalla madre. Insomma, come sintetizza efficacemente J. Benjamin (1988), in generale il rifiuto della femminilità confessa sempre una forte nostalgia alla fusione con la madre e una fuga dalle identificazioni con lei.


Solo quando l’uomo sarà riuscito ad accogliere e integrare pienamente la femminilità nella propria vita psichica, accettando quindi l’esistenza inevitabile della mancanza, del limite e dell’imperfezione (che apre la strada al desiderio e alla creatività [H. Segal, 1955]), allora sarà in grado di relazionarsi alla donna come soggetto senza la necessità difensiva di dominarla o di svalutarla, affinchè entrambi i sessi possano collaborare su un piano di parità, e vivere il desiderio reciproco in modo interdipendente e intersoggettivo, invece che concorrere in una futile lotta tra forze dicotomiche e complementari che si sussegue implacabilmente da generazioni.


"Gli uomini non si sono mai stancati di descrivere la forte attrattiva che esercita su di loro la donna, e di esprimere da una parte il loro desiderio, e dall'altra la paura di morire e scomparire per colpa loro. Ricorderò in particolare come tale paura viene espressa nella poesia di Heine sulla leggenda di Lorelei, che siede in cima alla sponda del Reno ed irretisce il barcaiolo con la sua bellezza. Qui è, ancora una volta, l'acqua (che rappresenta come gli altri 'elementi', l'elemento primitivo 'donna') ad inghiottire l'uomo che cede all'incantesimo d'una donna. Ulisse dovette ordinare ai marinai di legarlo all'albero per sfuggire ai pericolosi allettamenti delle sirene. Solo pochi riescono a risolvere l'enigma della Sfinge, e la maggior parte di quelli che ci provano perdono la via. Nelle fiabe il palazzo reale è ornato con le teste dei pretendenti che hanno avuto l'ardire di provare a risolvere gli indovinelli della bella figlia del re. La dea Kali danza sui cadaveri degli uomini uccisi. Sansone, che nessun uomo può vincere, è provato della sua forza da Dalila. Giuditta decapita Oloferne dopo essersi concessa a lui. Salomè porta la testa di Giovanni Battista su un vassoio. Si bruciano le streghe perchè i sacerdoti vi vedono l'opera del demonio. Lo 'Spirito della Terra' di Wedekind distrugge tutti gli uomini che cedono al suo fascino, non perchè sia particolarmente perversa, ma soltanto per la sua stessa natura. La serie di questi esempi è infinita; sempre, ovunque, l'uomo si sforza di liberarsi della paura delle donna oggettivandola. Egli dice: << Non è che io abbia paura di lei; è lei ad essere malvagia, capace di qualsiasi delitto, un animale da preda, un vampiro, una strega dai desideri insaziabili. Impersona tutto ciò che vi è di funesto.>>" (Horney, 1967, p. 154-155)


[1] Concetto riportato recentemente sul grande schermo da D. Villeneuve con Enemy (2013), tratto dal romanzo di Saramago L’uomo duplicato, in cui la donna viene rappresentata nella forma di enorme tarantola (e, com’è risaputo, tra le imago archetipiche essa simboleggia la Grande Madre onnipotente e divoratrice che si adopera affinché le prede – impotenti e rassegnate come rivela l'espressione sul volto del protagonista alla fine del film - vengano condotte al centro della sua ragnatela letale).



Riferimenti bibliografici:


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