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LA GRANDE ABBUFFATA (Ferreri, 1973): geniale rappresentazione della società contemporanea.



Sono passati oramai quasi cinquant’anni da quando M. Ferreri sconcertò l’Italia con La grande abbuffata (1973), e forse pochissimi cult del passato oggi saprebbero essere altrettanto efficaci nel rispecchiare così fedelmente la situazione sociale contemporanea come questo film, ancora attualissimo per significato e valore espressivo.

Il regista scelse la crème degli attori del tempo (un malinconico P. Noiret, un giullaresco U. Tognazzi, un erotomane M. Mastroianni e un ridicolo M. Piccoli) riunendoli in una casa fuori Parigi per darsi alla crapula e al sesso sfrenato verso un unico scopo comune: togliersi la vita. I quattro decidono infatti di abbandonarsi alle proprie esigenze meramente corporali e materiali in modo maniacale (la cucina e il sesso vengono eletti a strumenti perversi di piacere assoluto), dimostrandosi insensibili, indifferenti, rassegnati al loro destino ineluttabile (solo il pilota Marcello tenterà di scappare, rimanendo però intrappolato nella sua cara Bugatti poco prima trasformata in alcova d’amore).


E così, tra rutti, peti e amplessi, uno ad uno muoiono miseramente, aiutati nel proprio sforzo da una bravissima A. Ferrèol, materno e pingue angelo della morte. Pellicola tragicomica che rappresenta la nostra società dell’opulenza che spinge continuamente ad un consumo sfrenato, vorace e coatto verso l’alienazione e l’autodistruzione. Anche qui Ferreri, regista dell’angoscia esistenziale, dà prova del suo pessimismo assoluto che non vede vie di salvezza: i protagonisti mangiano per colmare quel vuoto esistenziale che sì i piaceri della carne possono alleviare, ma che solo la morte alla fine potrà saziare. Una critica radicale simile a quella di L. Bunuel ne Il fascino discreto della borghesia (1972), una violentissima manifestazione provocatoria pari a Salò o le 120 giornate di Sodoma (P.P. Pasolini, 1976), un esempio di autodistruzione culinaria alla Creosoto de Il senso della vita (M. Python, 1983), un ricordo simile a L’ultimo tango a Parigi (B.Bertolucci, 1972) riguardo all'uso del sesso come anestetico esistenziale.


L’intero film è l’espressione stessa di un degrado estremo (un decadentismo quasi baudelairiano): spesso si precipita nel grottesco (la scena in cui il wc esplode e deborda), le atmosfere opache sono intrise di mestizia e disperazione, la fotografia nasconde sempre tonalità plumbee e luci livide, la musica nostalgica e malinconica sembra uscita da una marcia funebre di Gustav Mahler... tutto non fa che enfatizzare una tensione macabra che aleggia fatale in ogni scena. Tuttavia, se un film classicamente esistenzialista potrebbe annoiare, di certo non corre questo rischio La grande bouffe, costantemente pervaso da quell’humour nero corrosivo tipico del regista, che è stato capace di rendere grottescamente divertente ogni scena, anche quelle del trapasso di ogni protagonista (la morte per aerofagia di Michelle, Ugo che tenta di andarsene con le “gentilezze” di Andrea...).


Il film è stato definito da molti di cattivo gusto e fin troppo sgradevole nei suoi volgari dettagli, segno quindi che anche stavolta la settima arte ha centrato l'intento nel (re)suscitare sotterranee emozioni per svelare le scomode e perturbanti verità sulla società contemporanea nella sua spietata essenza (Pasolini docet). Infatti, come ha denunciato altrettanto chiaramente la Scuola di Francoforte (e in particolar modo Erich Fromm), questo film non è altro che la rappresentazione della disperazione suicida dell'uomo contemporaneo e di una società che costringe i suoi membri a “ingerire” ininterrottamente (come il cibo che continua ad arrivare dai camion anche dopo la morte dei protagonisti), celebrando in questo modo il proprio inevitabile annientamento (“se non mangi, non puoi morire”).



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