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2/2) Sull'enigma della donna: maternità, neuroscienze, mitologia, folclòre, aspetti socioculturali.

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enigma donna 2.2
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Donna che bacia la luna, antico pittogramma anonimo

Indice



La maternità


Non esiste altra circostanza capace di esaltare allo stesso modo il narcisismo della donna. La nascita del figlio le dimostra che è stata in grado di compiere l'atto supremo: la creazione della vita. (Bleichmar, 1994, p. 91)

G. Klimt (1905), Madre e figlio

Probabilmente nessun altro evento nella vita di una donna assume pari importanza esistenziale e psicologica come il momento in cui diviene madre. Infatti, da un punto di vista psichico, attraverso la maternità la donna ha la possibilità di rivivere la situazione arcaica con la madre: la fusione con l’Io del bambino che porta in grembo cancella i confini tra i due, permettendole di identificarsi con lui.

Infatti, proprio perchè il figlio rimane sempre una parte costituente del sè della madre, e il più grande amore verso il figlio non è che "il più altruistico amore di sè" (Deutsch, 1945, p. 307), non è difficile comprendere come mai sarà particolarmente difficile per lei tagliare il "cordone ombelicale psichico" anche in età adulta e separarsi gradualmente da lui: “i due massimi compiti della donna, in quanto madre, consistono nel raggiungere armonicamente la sua unità col figlio prima, e nello sciogliere altrettanto armonicamente quest'unità più tardi.” (ibid., p. 283)


"Così l'eterna nostalgia che ha l'umanità di identificare l'io e il non io - quel desiderio primitivo profondamente radicato di ritornare a uno stato un tempo conosciuto, di rivivere il sogno umano che un tempo nel seno materno s'è realizzato - è pienamente appagata." (Deutsch, 1945. p. 137)


Tuttavia, nonostante il corpo di ogni donna disponga del potenziale biologico della maternità, essa è ben lontana dal rappresentare un istinto naturale onnipresente che segue il proprio corso in maniera lineare e diretta (se non subito dopo le trasformazioni ormonali che produce il parto), come si evince anche dalle ricostruzioni storiche attorno al materno condotte da Badinter (1980). D’altronde, alla psicoanalisi è ben noto come la maternità sia innanzitutto un aspetto psicologico (il maternage) che richiede un lungo sviluppo psicosessuale (vedi parte 1/2) prima di realizzarsi e di conciliarsi con la realtà biologica della donna e con il contesto socioculturale d’appartenenza (Chodorow, 1978).

Infatti è proprio il mondo psicologico della maternità a donare maggiore complessità, ricchezza e conflittualità alla donna sotto diversi punti di vista, primo fra tutti la sua relazione con la sessualità (in cui c'è la necessità di coniugare le tendenze opposte di attività-passività, aggressività-masochismo, femminilità-virilità...), che nei casi più fortunati raggiunge una certa armonia, mentre il più delle volte rimane in conflitto, se non completamente scissa (come accade nell'Anna Karenina di Tolstoj).


La gravidanza è in grado di risvegliare nella donna tutti i conflitti sopiti inerenti alla relazione con la propria madre, a partire da come è stata vissuta la qualità della funzione materna (introiettata per identificazione), e dalla delusione nel constatare ancora la profonda dipendenza dall’assistenza della madre nei momenti di difficoltà o durante i malesseri della gravidanza (e più tardi con la crescita del figlio). Tutto ciò non fa che acutizzare antichi conflitti, che possono palesarsi durante lo stato di gravidanza attraverso l’oscillazione di tendenze espulsive o ritentive verso il feto (riflesso di un’ambivalenza irriducibile). Le tendenze all'espulsione (l’ostilità inconscia verso il bambino) si possono manifestare attraverso vari disturbi psicosomatici (come nausea e vomito incoercibili, una diarrea persistente, fino ad arrivare ad aborti spontanei o parti prematuri - il ché ovviamente non significa che tutti questi fenomeni siano spiegabili per tali ragioni), controbilanciate da impulsi coatti a mangiare, che appaiono in netto contrasto col vomito e la nausea. Le stesse "voglie" di cibi strani, che secondo la tradizione folclorica sono simboli di fecondazione (cetrioli, pesce, alcune spezie e frutta particolare...), bilanciano le tendenze opposte di distruzione del bambino (al pari di altri sintomi gastrointestinali come periodi di immotivata stitichezza). Viceversa, gravidanze che si prolungano oltre il termine prefissato possono derivare da un'eccessiva volontà di trattenere il bambino (perchè la madre non vuole rinunciare all'unità che si è instaurata), o da eccessivi timori dei pericoli del parto che creano resistenze nel portare a termine la gestazione. In generali tali influenze psichiche si dimostrano come reazioni esagerate delle normali manifestazioni fisiologiche che accompagnano tutto il corso della gravidanza.


In ogni donna incinta sorge periodicamente il pensiero, reminiscenza di antiche paure e di antiche superstizioni, che questa sua nuova sorgente di felicità provocherà l'invidia delle forze soprannaturali, degli spiriti e degli dèi. Nelle favole e nei miti, la strega malvagia vuole, con i suoi incantesimi, rapire il bambino; nella mente della contadina ingenua dei vari paesi, il "malocchio" del maligno vicino raggiungerà lo stesso scopo; nella donna evoluta della nostra civiltà, il sentimento si traduce in una "sensazione irrazionale", che corrisponde forse a un senso di colpa covante nell'inconscio. L'influenza minacciosa è rappresentata dalla stessa madre della donna, che assume la parte della strega. Visioni di mostri e di parti anormali turbano la gioia dell'attesa e angosciano la donna incinta. Sono queste le fantasie caratteristiche che incontriamo in tutto il mondo. Donne che non erano mai state superstiziose, lo diventano, hanno il terrore di forze magiche, ecc. Questi esempi fanno pensare all'esistenza di un'identità di reazioni psichiche, anche in condizioni ambientali completamente diverse. (H. Deutsch, 1945, p. 123)


Anche il parto si presta particolarmente a stimolare fantasie, desideri, paure (gran parte di essi ancora appartenenti al bagaglio infantile dell'inconscio), benchè fino a non molto tempo fa, le angosce narcisistiche inerenti all'integrità dell'Io ritrovavano parte della loro fondatezza nella possibilità di morte delle partorienti. Di fatto, la vita psichica delle donne moderne nel momento in cui si avvicina il parto, condivide ancora lo stesso inconscio fatto di "demoni e spiriti" delle loro sorelle primitive: "oggi la scienza moderna le salva dalla morte e allevia le loro sofferenze; eppure nel fondo della vita psichica delle gestanti covano tracce della paura della morte, una paura irragionevole, e sulla quale le conquiste della civiltà non hanno avuto influenza." (ibid., p. 157)

Ad esempio, durante il travaglio del parto, proprio perchè la lucidità della coscienza è ridotta dal dolore e dalla spossatezza, sotto le spinte incessanti degli ormoni le forze inconsce possono agire più intensamente, per cui "generalmente si deve ad esse se un travaglio bene iniziato s'arresta, se le contrazioni diventano troppo forti o troppo deboli, se non hanno un rimo normale, o se prendono un andamento paradossale." (ibid., p. 222)


"Non di rado, nel corso di una terapia analitica, ci capita di capire come l'angoscia del parto sia tutt'altro che una paura legata al dolore fisico o alla morte. Quest'angoscia sembra molto più collegata al terrore di separarsi dalla propria creatura, con la quale solo la gravidanza consente un'unione intima, rassicurante, perfetta. Ma è soprattutto nei casi in cui una donna desidera, non tanto la maternità, quanto di essere incinta, che il parto può essere vissuto in fantasia e paventato nella realtà come una crudele mutilazione e come una minaccia alla propria integrità. Comunque più ci si avvicina al parto e più si acutizzano le ansie di separazione che saranno diverse a seconda del mondo in cui ogni donna ha risolto i propri processi di separazione e la propria identità." (J. Amati Mehler, 1985, p. 165)


Che la maternità possa rientrare in pieno tra i conflitti riguardo il registro del femminile, è ben documentato anche in antropologia, dove si rileva la presenza di tecniche rituali e sociali ben regolamentate, atte ad affrontare l'ostilità e la resistenza della donna nel "sottomettersi al suo destino" (Heritier, 1996, p. 84), soprattutto quando la filiazione si inscrive in un contesto in cui non dipende dal desiderio personale della madre, ma dalla "necessità di compiere un dovere verso di sè e verso la collettività (...) [laddove] non trasmettere la vita significa rompere una catena che non ha fine ed è anche vietarsi l'accesso allo statuto di antenato.” (ibid., p. 168)

La letteratura antropologica (Magli, 1974) sembra inoltre confermare le angosce orali (paure cannibalesche) proprie della maternità (e ben note agli psichiatri), attraverso lo studio delle cosiddette "psicosi puerperali" con deliri a carattere orale-persecutorio, le quali palesano il terrore da parte della donna di venire divorata dal figlio e che quindi il proprio Io possa venire distrutto (in alcune etnie le puerpere arrivano a credere che durante l’allattamento vi siano formiche a divorare internamente il loro seno). Non a caso, in molti popoli cosiddetti primitivi, la gravidanza è un periodo ritenuto particolarmente propizio per l'esposizione a qualsiasi tipo di azioni malefiche da parte di spiriti e demoni: Deutsch (1945) riporta l'esempio della cultura delle isole polinesiane, dove si crede all'esistenza di un demone che durante la gravidanza distrugge il feto nel grembo delle madri, o che uccide madri e neonati durante il parto (realizzando cioè quel desiderio inconscio della psiche della madre che trasforma il passivo destino di essere divorata dal figlio nell'atto di ucciderlo).

Lo stesso mito celtico del changeling (fate maligne che rapiscono i neonati o le madre in allattamento e ne assumono le sembianze), altro non rispecchia che il fantasma rimosso che ogni madre si trova ad affrontare, sotto il peso dell'idealità culturale sulla maternità: ovvero la propria ostilità verso il nuovo nascituro (fino ad arrivare al fenomeno delle psicosi puerperali in cui le madri stesse, sotto delirio, arrivano ad uccidere il proprio figlio a distanza di pochi giorni dal parto). Tale conflitto si può manifestare in una forma di compromesso molto comune durante l'allattamento, in cui il rifiuto inconscio di nutrire il lattante col proprio seno, (influenzando così il processo ormonale della secrezione lattea fino ad interromperlo), viene controbilanciato dalla possibilità riparatrice di alimentarlo artificialmente.


Il periodo del puerperio va considerato un periodo intermedio tra la gravidanza e la vita normale, nella quale il trauma della separazione è vinto dall'incipiente relazione materna col bambino. Sembra tuttavia che il desiderio di riunirsi sia fin dall'inizio in conflitto col bisogno di liberarsi. La paura che si manifesta nella madre ha per oggetto ora la separazione ora la perdita dell'Io; ora è la vita che minaccia il figlio, ora è il figlio che minaccia la madre. (Ibid. p. 269)


L’amore materno, il cui tratto distintivo è la tenerezza e la cui componente pulsionale è quella orale, non ha riscontro altrove a livello relazionale, in quanto può spingere la donna a sopportare intense sofferenze e ad accettare anche immensi sacrifici per l'amore del proprio figlio, pur continuando a sentirsi appagata e nutrita quanto il bambino il stesso: "se non vi è una sufficiente tendenza psicologica positiva alla dedizione e al sacrificio masochistico, e se un'affettuosa identificazione materna non cancella questo suo aspetto parassitario, esso rimane psicologicamente, e talvolta anche fisicamente, un elemento perturbatore." (ibid., p. 130). D’altronde, come scriveva Winnicott (1965), essendo "una condizione fuori dall'ordinario quasi simile alla malattia, che tuttavia è un segno di salute", tali tendenze masochistiche potrebbero divenire pericolose per la persona della madre (la mater dolorosa), se queste forze prima o poi non venissero bilanciate anche da desideri e da necessità soggettive (le tendenze narcisistiche). Dunque maternità e narcisismo, al pari della sessualità, necessitano di trovare ancora una volta un equilibrio, tutt'altro che di facile ottenimento.

Infatti, vi sono donne che con l'ingresso della maternità sentono la propria vita estremamente arricchita, come se non avessero aspettato altro per tutta la vita, e la loro eterosessualità avesse sempre nascosto la ricerca del figlio-fallo (in grado di portare la completezza agognata): "quanto minore è lo spettro delle attività che sostengono il suo narcisismo, tanto maggiore sarà il piacere che riceverà dalla maternità, poichè questa funzione è l'unica capace di ingrandirla." (Bleichmar, 1994, p. 91). Altre invece, che con l’ingresso nella maternità, sentono la loro vita impoverita e ristretta, e la libertà personale fortemente minacciata. Con la nascita del figlio, tale conflitto viene corroborato anche dai timori narcisistici di perdere la propria bellezza fisica, e, in senso generale, anche parte della propria personalità e dei traguardi faticosamente conquistati nella vita: vi sono donne infatti che vedono nella futura maternità uno scoglio importante allo sviluppo personale, provando pertanto amarezza e ostilità (e quindi anche un forte senso di colpa latente), sia verso l'uomo che le ha ingravidate, che verso il figlio ancora non nato.


Le donne che si gettano nella maternità per un senso di solitudine interiore vanno incontro alla stessa delusione: aspettano dal figlio l'amore che altrove non hanno ottenuto, oppure vogliono che egli appaghi un desiderio rimosso per un oggetto al quale sono inconsciamente ancora attaccate [la propria madre]. E' inutile dire che il bambino non esaudisce questa speranza, perchè egli esige dalla madre proprio ciò che essa vuol ricevere: un amore immenso, dato con abnegazione. (ibid., p. 260)



Spunti evoluzionistici e neuroscientifici


Le neuroscienze sostengono che esista fin dalla nascita una sostanziale differenza strutturale, chimica, funzionale, ormonale tra il cervello nell'uomo e quello della donna, a partire da come vengono utilizzati aree e circuiti cerebrali diversi per affrontare medesimi problemi ed esperienze. Siccome tali differenze sarebbero il risultato genetico di antichi circuiti neurali che hanno saputo rispondere con successo a millenni d'evoluzione, il cervello di oggi avrebbe ancora molte caratteristiche in comune con quello dei nostri antenati. In generale, sembra che ciò che differenzi quello delle donne riguardi soprattutto tutti quegli atteggiamenti inerenti alla sfera del materno: "se si riesce a interpretare volti e voci, si può capire di che cosa ha bisogno un neonato, si può prevedere che cosa farà un maschio più grosso e più aggressivo e intuire quando è necessario unirsi ad altre femmine per respingere gli attacchi di qualche cavernicolo infuriato" (Brizendine, 2006, p. 38)

In particolare:


  • Nella donna: i centri cerebrali deputati al linguaggio, l'ascolto e la comprensione delle emozioni dell'altro possiedono l'11% in più di neuroni rispetto all'uomo; i centri emozionali sono molto più attivi ed estesi (l'amigdala è più attiva e sensibile, l'ippocampo è più grande); si ipotizza che vi sia un maggior numero di neuroni specchio, correlati quindi a maggiori abilità verbali, sociali, relazionali, intuitive, che le consentono potenzialmente di riuscire ad entrare meglio in sintonia emotiva con l'altro, e di saper decifrare quasi immediatamente emozioni e stati d'animo dai segnali non verbali (quali ad esempio le espressioni facciali, dal tono della voce). Tali capacità sono dovute in parte anche alla presenza massiccia di estrogeni che sollecitano la crescita dei circuiti cerebrali deputati all'osservazione, alla comunicazione, all'istinto di cura, all'ipersensibilità rispetto alle sensazioni più corporee e "viscerali". "Molti psicologi evoluzionisti hanno ipotizzato che questa capacità di sentire il dolore altrui e interpretare rapidamente le sfumature emotive consentisse alle donne dell'età della pietra di poter captare in anticipo comportamenti pericolosi o aggressivi, evitandone così le conseguenze e proteggendo i piccoli" (ibid., p. 163), oltre che la possibilità di sapere cogliere i minimi indizi provenienti dai loro bambini, per poterne così prevedere e soddisfare le necessità.


  • Lo spazio cerebrale della donna preposto all'impulso sessuale è circa 2 volte e mezzo più ridotto rispetto all'uomo; la presenza degli androgeni (gli ormoni associati generalmente all'aggressività e all'impulso sessuale) sono da 10 a 100 volte inferiori rispetto agli uomini. La ridotta presenza di testosterone sollecita a ridurre al minimo ogni tensione o conflitto, competizione, manifestazione di supremazia: nella donna i dissidi e la possibilità che un rapporto intimo possa essere minacciato o perduto provoca un maggiore innalzamento di cortisolo (l'ormone dello stress), e una più intensa attivazione delle aree cerebrali deputate alla paura. I percorsi nervosi che innescano l'aggressività sono meno diretti rispetto all'uomo, che in media è 20 volte più aggressivo (l'amigdala, il centro delle paura e della rabbia, hanno più recettori al testosterone). Gli evoluzionisti spiegano tali dati dal fatto che le donne sarebbero "meno adatte al combattimento dei maschi, poichè durante l'evoluzione, avrebbero avuto meno probabilità di sconfiggerli fisicamente essendo essi più robusti; e anche se fossero state forti quanto gli avversari, ricorrere alla lotta avrebbe potuto implicare di lasciare solo e vulnerabile un bimbo indifeso." (ibid., p. 64)


  • Motivo per cui fare affidamento sulla creazione e il mantenimento di una solida rete sociale sarebbe significativamente più efficace della tattica "attacco o fuga" contro pericoli e predatori: "l'uomo si è evoluto allevando i figli in cooperazione, cioè in situazioni le cui madri hanno sempre potuto contare sull'aiuto degli altri appartenenti alla comunità." (ibid., p. 153). Quindi anche trovare un partner sessuale che garantisca protezione e sicurezza potrebbe avere un significato analogo: "mentre un maschio può fecondare una donna tramite un unico rapporto sessuale e poi andarsene, una donna deve affrontare nove mesi di gravidanza, i rischi del parto, l'allattamento e il compito oneroso di cercare di assicurare la sopravvivenza del bambino. Le antenate costrette ad affrontare queste sfide da sole è probabile che abbiano avuto meno successo nel tramandare i propri geni. (...) Di conseguenza, per le femmine la scommessa dall'esito più sicuro coincide con la scelta di un compagno che presumibilmente resterà loro accanto per lungo tempo, proteggendo loro stesse e i bambini, e migliorando le condizioni di vita" (ibid., p. 90).


  • L'attivazione all'ansia e alla paura è 4 volte più diffusa rispetto all'uomo: "La maggiore rapidità con cui una donna si allarma rispetto a un uomo, benchè possa non sembrare una caratteristica adattiva, in realtà permette al suo cervello di concentrarsi sul pericolo e rispondere con tempestività a ciò che minaccia la prole. Sfortunatamente per le donne però, questa esasperata sensibilità moltiplica per due la probabilità di soffrire di depressione e ansia, in particolare durante l'età riproduttiva." (ibid., p. 175). Inoltre le oscillazioni umorali a cui sono soggette possono derivare in parte dalle variazioni ormonali dettate dal ciclo mestruale (tanto da innescare una sindrome premestruale, in caso di certe intensità): gli estrogeni fanno aumentare la dopamina (che stimola i centri della motivazione e del piacere) e l'ossitocina (che scatena ed è stimolata dall'intimità), mentre il progesterone nelle due ultime settimane del ciclo intorpidisce il cervello e lo rende più lento, irritabile, meno concentrato.


"Qualcuno vorrebbe che non ci fossero differenze tra uomini e donne. Negli anni Settanta la parola d'ordine tra le giovani era "rigidamente unisex", il che significava che era politicamente scorretto perfino menzionare la differenza di genere. C'è ancora chi crede che per ottenere la parità femminile si debba ignorare la specificità sessuale; tuttavia, la realtà biologica è che non esiste un cervello neutro. (...) La sfida attuale è aiutare la società a fornire un sostegno maggiore alle naturali capacità ed esigenze femminili." (ibid., p. 208)


P. Gaugin (1896), Tre donne di Tahiti

Accenni antropologici


In quasi la totalità delle costruzioni culturali sorte all'origine dei tempi, la donna è stata collocata culturalmente in base alla propria "natura" biologica e corporea: "il rapporto della donna con la procreazione, l'apertura della donna all'aldilà, al trascendente, al mondo dei morti, la ritmicità che ne scandisce la vita e segna il suo legame con il cosmo, con la natura, con i cicli temporali, tutto questo che, senza dubbio, è stato l'oggetto della riflessione e della conoscenza dell'uomo delle origini, è presente oggi nella documentazione antropologica e testimonia il nesso inscindibile fra la 'natura' della donna e la sua significatività culturale." (Magli, 1974, p. 23)

Infatti, nella maggior parte delle culture studiate "ciò che dà alla ragazza lo statuto di donna non è nè la perdita di verginità, nè il matrimonio e neppure la maternità, ma il concepimento" (Heritier, 1996, p. 52). Infatti la sterilità (sempre imputata alla donna) è considerata il peggiore dei mali, al pari di una maledizione (non a caso la donna sterile o in menopausa è quella che rischia di più di essere accusata di stregoneria). La donna sterile "è spesso disprezzata come essere incompiuto, incompleto, totalmente incapace" (ibid., p. 65), fino ad essere ritenuta colpevole del proprio destino o addirittura "come se non fosse realmente vissuta in questo mondo" (ibid. p. 53).


"La raffigurazione della strega che uccide gli esseri viventi, che soffoca i bambini, che fa perdere i vitellini alle mucche soltanto con uno sguardo e con la sua presenza fa inacidire il latte, è l'espressione della paura umana; paura del male che possono fare all'umanità le donne che non vogliono o non possono generare figli o curarsi di essi. La strega può sottrarsi al desiderio maschile, spezzando così il legame con la vita stessa. " (Mead, 1949, p. 206)


Nonostante l'ipotesi della presenza in tempi antichissimi di un'organizzazione ginocratica "naturale" basata sul potere femminile (Bachofen, 1861; Briffault, 1927 [13]), l'antropologia resta scettica rispetto alla reale esistenza storica di tale società matriarcale primigenia (Harris, 1968 [17]), sostenendo il fatto che in ogni società (matrilineare o patrilineare) finora studiata, il potere sociale generale sia sempre stato in mano all'uomo, che lo ha esercitato attraverso la regolamentazione del rapporto tra i sessi e dei rispettivi ruoli (dove la donna viene collocata in rapporto a se stesso, ossia nell'ambito del sessuale e del materno).

Infatti, è stato ipotizzato che il passaggio da uno stato "naturale" ("selvaggio") alla nascita della cultura, sia avvenuto molto probabilmente proprio a partire dal controllo della donna nella sua funzione sessuale e generatrice (Lèvi-Strauss, 1956 [13]): il divieto dell'incesto (con lo sviluppo dei clan totemici) e di conseguenza la regola di scambiarsi le proprie donne come dono (Mauss, 1924 [15]), in quanto bene naturale per eccellenza (per la funzione riproduttiva della specie), costituirebbero uno dei primi mattoni essenziali dell'alleanza e dell'ordine sociale tra i gruppi (imponendo quindi regole e i primi divieti da rispettare). Il matrimonio (come rito di un ciclo di scambi), sancirebbe dunque la prima costruzione simbolica (il legame esogamico) di una parentela fondata originariamente sull'incesto (il legame tra consanguinei), al fine di contrapporre in modo netto natura (il biologico) e cultura (il simbolo). D'altronde, come aveva già suggerito Freud (1929) attingendo dall'opera di Frazer (1890 [14]), che la proibizione dell'incesto sia un fatto pressochè universale in ogni cultura finora studiata (Lèvi-Strauss, 1955), rivela già di per sè quanto possa essere forte la tendenza "naturale" a compierlo.

E dunque, in tale prospettiva, la donna diverrebbe l'elemento su cui matrimonio e famiglia costituiscono le istituzioni fondamentali della società: "non si è ancora trovata una popolazione primitiva in cui il matrimonio e la famiglia non fossero presenti in qualche forma" (Pritchard, 1965. p.47)


Nella concezione popolare, date le sue caratteristiche biologiche basate sulla procreazione e sulla periodicità mensile, generalmente la donna viene intesa come parte integrante di quella natura enigmatica ed estranea (natura naturans) che si contrappone alla cultura (la conoscenza "artificiale"), e che quindi, in quanto foriera di un'essenza sempre imprevedibile, deve necessariamente venire controllata, amministrata, "educata" (Lèvi-Strauss, 1968). Perciò non è difficile comprendere come "la dipendenza della donna dal potere maschile sia data appunto dal timore che suscita nell'uomo la sua 'potenza', intendendo questo timore che suscita nell'uomo non [solo] in forma 'archetipale', o esclusivamente psicologica, ma come un 'fatto' [...] che si esprime in strutture culturali e sociali, e di cui la condizione storica della donna è testimonianza inoppugnabile." (Magli, 1974, p. 74)

Ad esempio, a sostegno di tale fenomeno, il sangue mestruale rappresenta uno dei più forti tabù in ogni tempo e cultura: esso è un sangue "cattivo", velenoso, dannoso e malefico, portatore di morte e sfacelo a qualunque persona o oggetto con cui entra in contatto. Perciò durante le mestruazioni la donna viene allontanata dal resto del gruppo, spesso in un luogo apposito, lontano, e solo nel momento della vecchiaia, avendo perso i misteriosi poteri che le rendono temibili e pericolose (le mestruazioni), le viene consentito di partecipare ai luoghi e ai funzioni esclusive degli uomini.

Un altro esempio riguarda la forte connessione della donna col sacro, nel suo ruolo di "porta" e di "ponte" con l'aldilà. Nei riti e nelle cerimonie solenni in cui la tribù si mette in contatto col divino, è quasi sempre la donna ad incarnare il ruolo di mediatrice che, posseduta dallo spirito o dal dio, spesso acconciata con i paramenti del caso e sotto effetto di droghe, balla al ritmo incessante della musica contorcendosi stralunata in uno stato di trance e di febbrile sovraeccitazione, fino a crollare a terra spossata e in uno stato di semi incoscienza (ed è in questo momento che la divinità incarnata parla, suggerisce, ammonisce, per poi andarsene di colpo). Dalla stessa mitologia greca viene riportato come le Menadi (o Baccanti per il latini) entrassero in uno stato di furore sacrale durante il culto orgiastico delle feste dionisiache: correndo scalze sulle montagne al ritmo incessante del suono dei cembali, si narra che trascinassero ciascuna un cerbiatto (l'incarnazione del dio), che, al colmo dell'eccitazione, veniva poi divorato affinchè venisse incorporata la vita della divinità.



Alcuni aspetti mitologici e folclorici


La Grande Madre (Natura)

La Grande Dea appartiene a quelle tradizioni e a quei miti matriarcali in cui la cultura patriarcale doveva ancora intervenire a disciplinare la complessità della natura, come indica il fatto che, col trascorrere dei secoli, essa venga frammentata in una moltitudine di dee inferiori, con attributi propri e specifici. La Grande Madre era denominata in diversi modi e la luna, il serpente, l'albero e la colomba molto spesso rappresentavano i suoi simboli sacri: Amana (area caraibica) creatrice dell'universo, sempre eterna e senza ombelico (non generata); Bachuc (America precolombiana), uscita dalle acque, che sposando il proprio figlio, dà origine a tutta la stirpe; Cibele (Asia minore), Ishtar di Babilonia, Ashtar in Arabia; la dea madre celtica Anu; e ancora Ashtoreth, Inanna, Astarte, Hator, Nammu, Nigal... fino ad arrivare alla mitologia greca con Rea e Gea prima dell'ingresso del potere di Zeus.

In quanto coincidente con la forza primordiale della Natura, e dunque al di là di qualunque valenza morale, essa è simbolo di Vita (la fecondità) ma anche di Morte (la tomba), da cui tutto comincia e tutto finisce: "nelle fiabe africane è la donna a portare la morte nel mondo" (Horney, 1967, p. 134) e in varie mitologie le dee madri sono rappresentate con un fuso, che solitamente simboleggia il destino degli uomini (Ishtar, Syiria, le Moire della Grecia, le Parche dell'antica Roma, le Norne nella cultura norrena... erano tutte filatrici). Ad esempio, la dea babilonese Ishtar (una delle più antiche), è il prototipo della madre onnipotente e immortale, signora del cielo e della terra, il cui grembo costituisce la fonte della fertilità, dell'amore, della crescita delle piante e degli animali, ma anche il luogo degli inferi in cui giacciono gli spiriti o i morti delle guerre in suo nome.

Nella Grande Dea il maschile è parte integrante di sè (la donna fallica), in un'unità ancora indifferenziata (Neumann, 1956): nelle forme egiziane più antiche Iside-Net era androgino, Artemide, la dea lunare greca, aveva spiccate caratteristiche maschili, e la dea latina Cibele veniva ritratta a volte come intersessuale (con pene e vagina insieme). Inoltre, nella storia delle religioni antiche, spesso è presente un figlio da lei generato che ne diventa anche amante, per poi fecondarla e resuscitare di nuovo in lei: il dio solare che succede alla luna non è altro che suo figlio, come Osiride (il dio lunare egiziano), Sinn (il dio lunare babilonese), Attis (figlio di Cibele).



La Luna (il Ritmo, l'inconscio, la funzione generativa)

J. Pollock (1942), La donna luna

I mutamenti corporei della donna durante la propria crescita, a partire dalla periodicità del ciclo mestruale, da sempre sono state identificati in modo equivalente con la luna stessa e i suoi cicli lunari mensili ("mestruazione" significa per l'appunto "mutamento della luna"): la luna reca con sè il carattere di continua trasformazione e rinnovamento, al pari dell'esperienza polimorfa della donna dal punto di vista biologico e psichico.


"Possiamo osservare il ritmo stesso dello sviluppo fisiologico e notare i contrasti tra la vita di una donna con le sue brusche transizioni tra prima mestruazione, deflorazione, gravidanza, parto, allattamento, menopausa, e la vita dell'uomo che sfuma impercettibilmente dall'infanzia alla giovinezza, dalla giovinezza alla maturità, senza che sull'organismo restino tracce del primo sogno in cui eiacula o del primo atto sessuale, eccetto il significato ch'egli stesso dà a questi avvenimenti. (...) La vita femminile è così divisa in periodi diversi, nettamente limitati, in cui è sottolineato quasi inevitabilmente il fatto di essere: una vergine, una ragazza non più vergine, una donna sterile, una donna che ha generato figli o una donna che, dopo la menopausa, non ne può più avere." (Mead, 1949, p. 151, 164)


Nell'immaginario collettivo luna e donna sono accumunate da una saggezza legata alla terra e alle sue stagioni: "questa sapienza non era il risultato di una grande conoscenza, di un'ampia erudizione, o dell'esperienza mondana, ma piuttosto dalla sapienza della natura. E' il sapere che sa senza sapere come sa." (Harding, 1971, p. 228). Secondo la tradizione gnostica infatti, Sophia (la luce della Madre Celeste) era l'immagine femminile della saggezza: non quella derivante dal pensiero logico-astratto (tipicamente connotato dal maschile), ma da quella immediata, intuitiva, connaturata all'essere che non aveva bisogno di passare per la conoscenza della cultura per far parte del sapere umano.


"Operazioni elementari come la conservazione del fuoco, la preparazione dei cibi e delle bevande inebrianti, la confezione degli abiti, la filatura, la tessitura, la fabbricazione dei vasi, ecc., appartengono al dominio originario del femminile. All'origine queste non sono prestazioni 'tecniche' nel senso della coscienza patriarcale, ma piuttosto rituali carichi di significati simbolici." (E. Neumann, 1953, p. 75)


Donna e luna fanno parte entrambe della stessa natura creatrice, a partire dall'umido da cui nasce la vita (non a caso in alcune tribù africane l'importante rito della pioggia è spesso affidato alle donne, così come nell'antica Roma le Vergini Vestali eseguivano una cerimonia durante le Idi di Marzo, per regolare l'approvvigionamento dell'acqua). Esse serbano in grembo lo stesso potere generativo, nutriente e benefico sugli elementi della natura: nei misteri femminili primitivi del cuocere, infornare, lievitare e bruciare, la maturazione, la lievitazione e la trasformazione sono sempre legati a un periodo di attesa." (ibid., p.89).

Similmente, da un punto di vista filogenetico il femminile è sempre stato associato all'inconscio e al suo spirito inventivo, intuitivo: "il processo creativo si svolge non sotto i raggi cocenti del sole, ma nella fredda luce riflessa della luna, quando grande è l'oscurità dell'inconscio: la notte e non il giorno è il tempo della procreazione. Ad essa appartengono l'oscurità e il silenzio, il segreto, il tacere e l'essere velati." (ibid., p. 93)

Inoltre le caratteristiche femminili sono state poste in analogia con la luna per il suo tipo di luce (spesso rappresentata da un uccello, generalmente la colomba), contrariamente a quella del sole (apollinea), che rivela ogni dettaglio in modo inequivocabile (come il Logos maschile che analizza, distingue e separa): essa "è più tenue e diffusa di quella del sole, ma proprio per questo non lascia niente fuori del suo raggio. Abbraccia e fonde insieme le cose, piuttosto che distinguerle e separarle, e attenuando i colori, ammorbidendo i colori, rivela l'unità insospettata dell'universo." (Di Lorenzo, 1989, p. 117)


"La coscienza femminile è meno nitida e chiara di quella maschile ma capace di rilevare in un campo più vasto le cose che sono ancora umbratili. Le doti di veggenza e le capacità di intuizione della donna sono sempre state riconosciute. La sua vista, non concentrata su un punto focale, le dà la consapevolezza di ciò che è oscuro e il potere di vedere ciò che è nascosto con occhio più acuto." (Jung, 1969, p. 25-26)


Tuttavia, la luna descrive anche una natura mutevole e capricciosa (l'umore lunatico), indipendente dalle regole della società. Secondo le credenze dei popoli primitivi, la luna, quando è crescente non solo è considerata indispensabile per la crescita di ogni forma vivente, ma in alcune tribù africane diventa un vero e proprio agente fertilizzante delle donne; quando invece è calante o non è presente (la luna nera), la sostanza vivente è ridotta al mimino e le forze distruttive prendono il sopravvento (e la dea lunare diventa crudele e maligna). Essa rispecchia cioè la duplice natura della Grande Madre (la dea lunare bifasica), cosicché la luna è in grado di donare l'ispirazione, la fertilità e la creatività, ma è anche responsabile della pazzia, ovvero quell'"inconscio ingoiante" (Neumann, 1956, p.105) della matrice simbiotica originaria da cui non è più possibile separarsi. Anche nella mitologia greca la luna era polivalente, essendo rappresentata da una trinità divina: Selene (in cielo), Artemide (in terra), ed Ecate (il mondo sotterraneo dell'arcano, del mistero).

Dunque la luna così come è in grado di donare l'ispirazione, l'estasi (attraverso la bevanda del soma proveniente dall'albero celeste, o per mezzo dell'ambrosia, il nutrimento degli dei greci), essa è madre anche della pazzia e dell'oscurità, dato il suo intimo legame con l'inconscio e le tenebre: "la luna è il Luogo della Generazione, difatti essa è la dispensatrice della fertilità; è il Luogo dei Morti, difatti è sulla luna che essi vanno quando lasciano la terra; è ed è anche il Luogo della Rigenerazione, poichè essa dà la rinascita e l'immortalità." (Harding, 1971, p 224).


W. Crane (1903), Maschera delle quattro stagioni
Le declinazioni greche del femminile: l''amante, la moglie, la madre, la figlia, la vergine.

Nella rappresentazione greca e latina è la dea Afrodite (Venere) ad incarnare amore (il figlio Eros), desiderio (Imeros), sensualità, bellezza e creatività.

Era (Giunione) è invece la dea del matrimonio: ella esiste sempre e soltanto in rapporto allo sposo, e solo divenendo tutt'uno col maschile (come moglie) è in grado di sentirsi completa: "l'intera sua essenza si esaurisce in una forma dell'essere, che per lei significa, anche come pienezza, soltanto un essere 'la metà'". (Kerényi, 1944, p. 110). E l'impossibilità di raggiungere tale fine (diventare una cosa sola con Zeus), la porta inevitabilmente a quel modo di relazionarsi al maschile sempre ostile e rancoroso, dando sfoggio a tutta la distruttività del femminile (l'invidia del pene idealizzato).

E se Demetra (Cerere) è rappresentata nel suo ruolo di madre dispensatrice di cure, sostegno e nutrimento (dea delle messi), la sua presenza rimane legata inestricabilmente a Persefone (o Kore o Proserpina), la fanciulla bambina eternamente giovane (come Biancaneve o la Bella Addormentata), simboleggiata dalla primavera che ritorna una volta che è riuscita a risalire dagli Inferi.


Nella letteratura mitologica la Vergine occupa uno spazio particolare, essendo foriera di molteplici significati. Innanzitutto la sua qualità virginea non è necessariamente correlata ad uno stato fisiologico (essa può permanere nonostante l'esperienza sessuale e la maternità), bensì ad uno stato soggettivo (psicologico): infatti, nell'antichità lo stesso termine designava la donna che non era sposata, nubile (ossia colei che era padrona di se stessa, in quanto non appartenente a nessun uomo). In senso lato la Vergine rappresenta quel lato del femminile che esiste e possiede valore di per sè, "incontaminato e intatto" dal bisogno del maschile da un punto di vista psichico. Nella mitologia greca e romana le personificazioni sono miste, ma indicano sempre qualità comuni come l'indipendenza, l'integrità e l'autosufficienza: Artemide, la Signora degli Animali, dea della natura selvaggia (e della luna); Atena (Minerva), la dea della saggezza e delle arti; Estia (Vesta), la dea del focolare domestico e del mondo interiore (il cerchio, come il mandala, è il suo simbolo).

A tal proposito occorre ricordare che anche le sacerdotesse-prostitute dei tempi (come le Vergini Vestali nel tempio della dea Vesta a Roma) venivano chiamate anche "sacre vergini": esse erano infatti "prostitute sacre, che si davano agli stranieri e agli adoratori della dea" (Harding, 1971), col divieto di sposarsi o di amare un uomo a loro piacimento, poichè la loro vita era destinata a creare un legame tra la Dea e le vite degli esseri umani. Si trattava cioè di una forma di ierogamia (hieros gamos), il matrimonio sacro con il rappresentante del potere fallico del dio (Pale, Pallas, Priapo) che poteva essere incarnato da un sacerdote o da un qualsiasi straniero che passava dal tempio (l'atto doveva avere un carattere assolutamente impersonale e temporaneo). Lo scopo ultimo era quello di garantire la fertilità e la generatività della razza umana attraverso questi riti ieratici, al pari della conservazione perenne del fuoco sacro (che di nuovo riprende il potere della luce della luna, scintilla della fertilità).


Al polo estremo di tale concetto si trovano le leggende sul popolo mitico delle Amazzoni che, com'è noto, hanno sacrificato una parte del loro femminile (la mutilazione del seno destro sin dall'infanzia: a-mazòs significa "priva di mammella"), in favore di una componente maschile (l'agevolazione nell'uso dell'arco). Secondo una versione del mito, le Amazzoni avevano totalmente eliminato l'uomo dalla loro vita sociale (se non per lo scopo riproduttivo), dopo che un gruppo di donne avevano ucciso i loro mariti perchè le maltrattavano. E così, ogni attività, anche quelle più maschili, erano riservate alle sole donne, e gli uomini, esclusi, tenuti schiavi e storpiati agli arti per impedire loro l'uso delle armi (castrazione simbolica), venivano incontrati solo una volta all'anno per concepire, nell'oscurità della notte (in modo che il padre restasse anonimo). L'Amazzone rappresenta l'immagine androgina della donna che vuole bastare totalmente a se stessa, fino ad arrivare a quei miti che raccontano della partenogenesi di molti eroi nati da dee vergini. ossia alla possibilità di generare un figlio senza più nemmeno l'uomo.


E. Munch (1895), "Amore e dolore", soprannominato “La Donna Vampiro” (II ver.)

Il femminile mostruoso, la strega

Che il mito sia quasi sempre accompagnato da un femminile mostruoso sembra quasi un leimotiv: dalle sirene, le Gorgoni o le Erinni greche, le donne-fate celtiche (leanan sìdhe) che con la loro bellezza attraggono, ingannano e incatenano gli uomini, donando loro in cambio l'ispirazione poetica... fino ad arrivare alla figura più diffusa in tutte le fiabe di ogni cultura: la strega, ossia l'incarnazione della donna lussuriosa, o di quella che si oppone alla maternità e al ruolo che le è stato conferito dall'uomo.

La strega è il personaggio femminile che meglio è connesso con l'aldilà (Propp (1949 [16]), avendo caratteristiche proprie di chi proviene dal mondo dei morti (è fredda, decrepita, emaciata, quasi cieca), e non a caso la sua natura ambigua, ineffabile, oscura si manifesta sempre a Mezzanotte (l'ora di sospensione in cui non è più oggi ma non è ancora domani). Essa è infatti spesso una donna che vive ai margini della società, vecchia, brutta e asessuata (ossia non più in età fertile), oppure al contrario una donna di straordinaria bellezza, sensualità e potere (come la maga Circe), ma comunque sempre depositaria di conoscenze proibite e abilità pericolose.


Le prime associazioni sulla sua natura sono sicuramente con l'eccesso, la sua essenza animalesca indomabile e la forza travolgente del desiderio e della pulsione insaziabile, che ricordano sempre all'uomo il pericolo di abbandonarsi ad una regressione senza limiti, le cui conseguenze non sono prevedibili, come nel momento in cui giunge la follia. Nello stesso apocalisse biblico la fine dei tempi è profetizzata attraverso la comparsa di una regina lussuriosa con in mano un calice d'oro "colmo delle abominazioni e delle impurità della sua prostituzione" (Ap. 17-18), in contrapposizione alla Santa, la Madre virginale che, incarnando l'immagine idealizzata e sublimata della donna, si inscrive nel puro spirito incontaminato dal corpo, scevro da qualsiasi sensualità. In tal senso quindi la strega è "metafora delle passioni che ribollono nell'inconscio, in ciò che viene a patti col demonio, che non rispetta alcuna legge e che si burla di ogni ordine costituito. In lei è sottesa l'immagine della maga nell'aspetto della seduzione irresistibile, la cui bellezza si incarna mediante l'erotismo distruttivo." (Alizade, 2006, p. 147)

L'altra valenza della strega riguarda invece l'antitesi rispetto alla figura della madre (e infatti secondo il folcòre la strega è notoriamente una divoratrice di bambini): non a caso la strega che cavalca la scopa o la fattucchiera con in mano una lunga bacchette intenta a raccogliere erbe per intrugli misteriosi, rivelano chiaramente l'immagine della donna fallica, la "madre cattiva" dal cui seno stilla veleno invece che latte nutriente.


"La raffigurazione della strega che uccide gli esseri viventi, che soffoca i bambini, che fa perdere i vitellini alle mucche soltanto con uno sguardo e con la sua presenza fa inacidire il latte, è l'espressione della paura umana; paura del male che possono fare all'umanità le donne che non vogliono o non possono generare figli o curarsi di essi. La strega può sottrarsi al desiderio maschile, spezzando così il legame con la vita stessa." (Mead, 1949, p. 206)


Dunque, essendo legata alla natura e ai suoi cicli, è sempre il corpo che, definendo la donna, è fonte di un terrore che gli uomini hanno dovuto continuamente esternalizzare attraverso la creazione di tutto quel patrimonio di credenze popolari e leggende basate sulla figura della donna-mostro nociva e pericolosa (Horney, 1967): carne, sangue, umori, trasformazioni di qualcosa che non ubbidisce ad altre regole se non a quelle del corpo stesso, dove la possibilità di riproduzione che lo contraddistingue è in grado di stabilire la vita e la morte dell'essere umano.




Questioni socioculturali, femminismo e isteria

Manifesto di J. Howard Miler (1943)

Buona parte della letteratura femminista sostiene, anche implicitamente, che la diversità e le condizioni sfavorevoli e ingiuste della donna derivino quasi unicamente da un’impostazione culturale patriarcale consolidata nel tempo, senza poi chiedersi perchè tale cultura si sia affermata nel corso del tempo tra le tante possibili (Heritier, 1993), e soprattutto perchè poi, in un momento storico così liberale e libertario come quello attuale, tale situazione sia ancora ben lontana dal mutare pienamente in accordo con l’ideologia femminista. E’ ovvio che nella determinazione di tale fenomeno debbano intervenire anche motivazioni biologiche e psicologiche ben più profonde e complesse, che affondano radici in una storia filogenetica della donna non così facile da sradicare nel breve periodo, come dimostrato dalla sua ripetizione ciclica attraverso l’ontogenesi di ogni bambina (vedi parte 1/2). Come esempio si può fare riferimento al fatto che i vari disturbi sessuali nella donna, nonostante i tempi di oggi siano alquanti diversi da quelli puritani e vittoriani in cui viveva Freud, siano tutt'altro che scomparsi. Infatti gran parte della letteratura femminista che vede nelle teorie psicoanalitiche la continuazione di una prospettiva maschilista e discriminatoria della donna (De Beauvoir, 1949 [1]; Friedan, 1963 [2]; Figes, 1969 [3]; Millet, 1969 [4]; Firestone, 1970 [5]; Greer, 1970 [6]; Irigaray, 1974 [7]), rivela molto spesso, quasi teneramente (Mitchell, 1974), la generale ignoranza o l’incomprensione di fondo rispetto a cosa realmente sia e quale influenza eserciti il sistema dell'inconscio nel plasmare l’identità, i processi e la struttura psichica del bambino (e quindi del successivo adulto).

Tuttavia è indiscusso come sia stato in particolare modo merito del femminismo se le condizioni socioculturali della donna hanno seguito un costante processo di miglioramento (decisamente recente nel corso della storia), nel tentativo di ridonarle valore e piena identità, se solo si pensa al fatto che fino a non molto tempo fa la donna era considerata solo come colei che non era nata come maschio, o come una mera appendice complementare all’uomo.


Infatti, generalmente è ancora diffusa la tendenza culturale a soffocare nella bambina gran parte del suo aspetto pulsionale (sessuale e aggressivo), attraverso un'educazione repressiva e restrittiva che esaspera un insano masochismo e inficia una sana valorizzazione narcisistica di sè, creando il terreno fertile per colpa, vergogna, passività, docilità, scarsa autostima e inibizione alla curiosità e all'autonomia: "la bambina si affaccerà al mondo degli adulti come essere marchiato dalla legge che proibisce il libero esercizio del suo desiderio, sotto lo sguardo attento di una morale sessuale che la definirà di fronte a se stessa" (Bleichmar, 1994, p. 130).

Il paradosso però è che nonostante la cultura continui a confinare la donna in una posizione sottomessa e dipendente, enfatizzando in modo idealizzato (Badinter, 1980) gli aspetti del materno (contenimento, fedeltà, attesa, sacrificio, sopportazione della sofferenza, pazienza, sostegno, uno spazio ricettivo sempre presente...), da lei ci si aspetta allo stesso tempo una certa sensualità e libertà d'azione: "per essere donna deve accedere alla sessualità, ma per essere una donna rispettabile deve reprimere il suo desiderio." (ibid., p. 131)


"Nella nostra società occidentale alla donna sono assegnate tradizionalmente caratteristiche di soggettività, passività, ricettività e sensibilità, mentre l'uomo deve essere attivo, oggettivo, aggressivo, coraggioso. Così determinati tratti diventano costitutivi di un sesso e sono rigidamente negati all'altro, pena un giudizio molto negativo, di disprezzo o addirittura di anormalità." (Di Lorenzo, 1989, p. 86)


Tale situazione è inoltre esacerbata da quelle culture in cui è presente una frattura nei modi di essere e di azione dei due generi, ossia quando vengono assegnati in modo dicotomico i rispettivi ruoli da interpretare (come ad esempio nel momento in cui si affida all'uomo, simbolo di autonomia e razionalità, la vita pubblica, e alla donna, simbolo di cura e irrazionalità, la vita privata). Quando infatti la contrapposizione di genere diviene troppo marcata nei rispettivi aspetti femminili e maschili, allora si esclude dall'identità di genere le identificazioni con il genitore del sesso opposto, cosìcchè, nel caso della donna, "il tipo ideale di femminilità (che si costituisce comunque in contrapposizione alla mascolinità) assorbe tutto ciò che viene scartato dal maschio nel suo fuggire dalla madre" (Benjamin, 1988, p. 166).

Già Freud (1929) affermava come sia di fatto la società ad esigere dalla bisessualità psichica di entrambi i sessi, che uno raggiunga un livello maggiore di mascolinità e l'altro di femminilità: ogni cultura d'appartenenza istituisce cioè cosa siano idealmente la femminilità e la mascolinità, e quindi cosa aspettarsi dai rispettivi ruoli di genere, secondo "canoni e stereotipi plurisecolari, convergenti in una fantasmatica organizzata e ritualizzata che la letteratura, il cinema, la propaganda pubblicitaria, la pornografia, perpetuano e confermano." (Bleichmar, 1994, p. 97).

Perciò nella donna questa amputazione psichica non farà che intensificare la propria incompletezza psichica e quindi la necessità di dipendere dall'uomo, rendendo incompatibile la femminilità con l'indipendenza, il desiderio, la soggettività: "la cultura fallocentrica ostacola, ad un certo livello, lo sviluppo ottimale del percorso erogeno nella donna, intensificando l'invidia naturale della bambina per il genitale dell'uomo e promuovendo la sua alienazione in un ideale di sessualità che l'allontana dalla femminilità" (Alizade, 2006, p. 80).


"Mi pare quindi che l'invidia del pene sia giustificata soltanto dai vantaggi reali di cui l'uomo gode da sempre nella cultura patriarcale: il pene rappresenta l'insieme dei valori tradizionalmente assegnati all'uomo, il lavoro creativo, la capacità direttiva, l'iniziativa individuale, il diritto di scelta e la capacità di autoaffermazione in ogni campo, la forza, la potenza, la libertà. Come avrebbe potuto la donna non soffrire d'invidia?" (Di Lorenzo, 1989, p. 67)


R. Bergh, Una seduta di ipnosi (1887)

In tal senso quindi si può contestualizzare il male femminile per antonomasia, l’isteria, come il riflesso sintomatico dei conflitti riguardo il femminile in una struttura culturale di riferimento, e nella fattispecie, come forma di ribellione contro la repressione socioculturale di una condizione femminile che cerca di rivendicare il proprio narcisismo ferito e il proprio desiderio di riconoscimento e di valorizzazione: "un tentativo maldestro (perchè destinato a fallire, si sa) per reclamare il diritto all'attenzione" (von Franz, 1959, p. 52).

L'isteria inoltre potrebbe ascriversi in quelle forme di "ostruzionismo, ritorsione e ritenzione", che gli antropologi hanno descritto come tipici del femminile nelle varie culture, ossia la capacità da parte delle donne di boicottare, negare od ostacolare alcune importanti attività sociali (ad esempio uno sciopero "della fornitura dell'intendenza necessaria alle provviste alimentari, abiti e altri materiali utili a condurre una guerra di lunga durata", Heritier, 1996, p. 197). D'altronde si sa che l'isterica "ricava il suo piacere narcisistico dal desiderare che il desiderio dell'altro [l'uomo] non si realizzi" (Bleichmar, 1994, p. 94), palesando cioè una forma di aggressività indiretta che le "consente appunto di sottrarsi alle situazioni sgradite e nello stesso tempo di esternare l'esasperazione e il rancore." (Chodorow, 1994) E se nella nevrosi si raggiunge una forma di compromesso, invece non di rado "nel femminismo, insieme alla presa di coscienza dei diritti della donna, si verifica spesso l'esplosione di tutta l'aggressività repressa, attraverso tanti secoli di oppressione e di condizionamento culturale." (ibid., p. 72)


"Col declino dell'ideologia religiosa e con lo sviluppo del pensiero illuministico, il nuovo destino di condanna delle donne, dopo la stregoneria, sarà l'isteria. Era inevitabile infatti, data la connessione della 'mente' con la struttura biologica, che alla donna fosse riservata una particolare malattia mentale, anzi ovviamente una malattia legata ai suoi organi genitali. Come si sa Freud non riuscì che a far ridere il suo uditorio quando parlò per la prima volta di un'isteria maschile: come poteva il maschio essere isterico se non possedeva l'utero?" (Magli, 1974. p. 12)


Nel corso del tempo tali difficoltà sono state ampliate dall'affermazione su scala globale del sistema capitalistico occidentale, che ha sempre più isolato la sola donna al compito della maternità, e, attraverso una demarcazione sempre più netta tra sfera domestica e sfera lavorativa (Chodorow, 1978), le ha reso alquanto difficile il compito di integrare la maternità con l'indipendenza economica e la soddisfazione professionale. Tuttavia le intense aspettative su di lei permangono: "la donna deve essere una madre capace di immedesimarsi nei complessi problemi psicologici dei figli, deve essere una brava padrona di casa e allo stesso tempo la compagna indipendente e alla pari del marito e deve sapersi affermare anche nella professione" (Mitscherlich, 1985, p. 116)


"La donna che prima e durante la mezza età vede avanzare pretese eccessive che generano in lei sensi di colpa, la donna che ha poche possibilità di realizzarsi nel lavoro, che può contare su una scarsa comprensione riguardo alle sue lotte per un più solido senso di sè, trova difficoltà a diventare padrona di se stessa, ovvero a costruirsi una sufficiente sicurezza e autonomia. Non deve dunque stupirci che le donne soffrano più degli uomini di crisi depressive." (Mitscherlich, 1985, p. 123)


D'altronde non è un caso se la pillola anticoncezionale prima e le leggi sull'aborto poi, siano state per anni i punti fondamentali del manifesto femminista, nel tentativo cioè di liberare la donna dalla sua inflazione corporea: "il bisogno di liberarsi da una maternità imposta come destino a cui è vietato sottrarsi: la battaglia per l'aborto libero è l'espressione più evidente di questo bisogno di esistere come persona, portatrice di significati e di valori, che non sono riducibili alla sua fisiologia naturale." (Di Lorenzo, 1989, p. 13)

Tuttavia la donna, nell'estremizzazione dell'orientamento femminista, rischia di perdere di vista ciò che la contraddistingue nella sua unicità di genere, illudendosi di creare un genere "nuovo" o "neutro" che non ha bisogno del mondo maschile (in quanto vissuto solo come minaccioso e ostile), e assumere una forma di scimmiottamento del modo di essere e di pensare dell'uomo: "la fantasia femminista più tipica è quella di cacciare l'uomo dall'interno della madre, per prenderne il posto. Ciò implica il cacciare l'uomo dall'interno di se stessa." (Fornari, 1976, p. 181)



Considerazioni conclusive

P. Picasso (1937), Ritratto di Dora Maar

Ma perchè dunque, nonostante il riconoscimento delle differenze tra i sessi e una presa di coscienza sempre più lucida, all'interno della società la donna continua ancora a trovarsi in una posizione ben lontana da una parità intersoggettiva rispetto all'uomo? Nonostante le varie possibili risposte sul tema (per approfondimenti...), sviluppate comunque all’interno di un sistema sociale che molto probabilmente persevera la propria esistenza grazie (o perlomeno soprattutto) al confinamento della donna nella sua dimensione materna (Chodorow, 1978), sorge spontaneo pensare come il femminile possa rappresentare una qualità perturbante di per sè, per l’uomo quanto per la donna stessa.

Già Freud (1937) aveva osservato il rifiuto del femminile parlando di scontro con le “rocce basilari” inconsce (la castrazione e quindi la perdita della propria mascolinità nell’uomo, e l’invidia del pene nella donna); Lacan (1991) similmente sosteneva che sono entrambi i sessi a continuare a desiderare il Fallo ideale per proteggersi dal mancante (l’uomo rigetta il femminile per guadagnare i privilegi del padre, la donna per avere accesso al maschile); infine in termini non molto diversi, Jung (1928 [18]) parlava di ricerca dell’Anima nell’uomo (l’integrazione del femminile rigettato) e dell’Animus nella donna (l’integrazione del maschile invidiato). In tal senso quindi "la 'castrazione' è intesa rappresentare per entrambi i sessi il riconoscimento dell'incompletezza, dei limiti umani, dell'abbandono della fede nella propria onnipotenza e nel possesso di tutti gli attributi, compreso il possesso esclusivo dell'amore per la madre." (Breen, 1993, p. 53).


La causa prima di tale fenomeno è da rintracciarsi in quel primo momento dell'infanzia in cui il bambino vive un completo stato di passività e impotenza (per approfondimenti...), accompagnato allo stesso tempo da intensissime sensazioni di godimento (estatiche) attraverso l'essere nutrito, curato, amato: ciò che Freud (1927) chiamava "sentimento oceanico" e che Grunberger (1971) ha definito come "stato elazionale" o edenico. Questa memoria impressa nell’inconscio (di cui il femminile ne è rappresentante attraverso la madre), lascerà per sempre una nostalgia onnipresente, inestinguibile e perturbante, la cui tensione produrrà nel futuro adulto un atteggiamento fortemente ambivalente: da una parte la tolleranza alla sua presenza irriducibile (o meglio, l’accettazione della soddisfazione parziale di essa - l’esame di realtà -, e la sua continua trasformazione attraverso il gioco, l’arte, la sublimazione - la pulsione di vita), dall’altra i tentativi per estinguerla definitivamente verso il nirvana (la pulsione di morte). Dunque la svalutazione del femminile si riferisce immancabilmente al rifiuto dell'impotenza originaria e della dipendenza arcaica rispetto alla madre, di cui resterà sempre memoria.


"La castrazione originaria, allora, riguarda l'essere umano, sia maschio che femmina, è alla radice, prima della differenza tra i sessi. Questa stessa 'differenza' la include, la rappresenta: la parola sesso, nella sua etimologia - secare, separare, tagliare - rimanda a una rottura, un taglio, una mancanza. Ma mancanza di che? Non certo del pene o comunque non solo di quello che l'altro sesso ha e il proprio non possiede. E' mancanza di unità irreversibilmente perduta, che ciascuno dei due sessi esprime in una sua modalità peculiare" (Algini, 1990, p.1 5 in Cosnier, 1987)


Diventa dunque scontato che tale terrore inconscio per il femminile venga riflesso nell’impostazione socioculturale di riferimento, nel momento in cui esso ne svaluta l'appartenenza di genere o ne fornisce una visione ambigua, contraddittoria, discriminata, generando inevitabilmente un conflitto profondo nella donna riguardo alla sua possibilità di essere, esprimersi e vivere in accordo con il proprio femminile. Infatti, il più grande rischio che oggi la donna possa correre è la possibilità di smarrire proprio ciò che la caratterizza e la differenzia rispetto all'uomo: il fatto che la donna voglia liberarsi da tutte le classificazioni attribuite dal patriarcato, può farla rifuggire da ogni declinazione del femminile, finendo per diventare inconsapevolmente un goffo simulacro dell'uomo.


"Se, come abbiamo visto, sulla sua 'periodicità', e dunque sulla sua natura, gli uomini hanno fondato i modelli culturali, questa periodicità è essenziale ed indispensabile come tale, e la donna è così incastrata in un conflitto insolubile: conflitto con la sua natura, a causa dei significati culturali che gli uomini le assegnano, e conflitto con la società che la riconduce alla sua 'natura', ogni qual volta cerca di gestire in proprio i significati culturali della sua natura stessa." (Magli, 1974, p. 81)


Infatti per la donna la difficoltà di accogliere interamente il femminile deriva dal desiderio di svincolarsi dalla madre e diventare un soggetto autonomo, purtuttavia continuando ad appartenere al suo stesso genere, e affrontando i possibili scontri con l'identificazione con lei e il modo con cui ne ha interiorizzato il femminile. Per cui quanto più la donna è arrivata a vivere narcisisticamente e con sicurezza la propria femminilità, tanto più ella sarà in grado di esprimere e integrare il proprio maschile (senza negarlo o rimuoverlo), proprio come nel mito di Amore e Psiche (Neumann, 1956) in cui Psiche, che è moglie (Era), madre (Demetra) e amante (Afrodite), deve superare una serie di compiti evolutivi durante il proprio viaggio verso l'individuazione. Dunque per la donna sfida consiste nel realizzare il maschile interiore (completezza psichica), senza tuttavia perdere o rifiutare l'antico principio femminile della Madre Luna legato all'Eros, alla creazione, all'inconscio.


"Uomini o donne, siamo nati da una donna: siamo innanzitutto bambini di nostra madre. Sembra che i nostri desideri siano concordi nell'annullare questo fatto, tanto esso è denso di conflitti e ci ricorda la nostra originaria dipendenza. Il mito della Genesi sembra tradurre questo desiderio di liberarci dalla nostra madre: l'uomo origina qui da Dio, figura paterna idealizzata, proiezione dell'onnipotenza perduta. La donna è nata dal corpo dell'uomo. Se in apparenza questo mito esprime la vittoria dell'uomo sulla madre e sulla donna, che in tal modo diviene una sua creatura, esso rappresenta anche una relativa soluzione per la donna, in quanto anch'essa è figlia di sua madre. La donna sembra invece scegliere di appartenere all'uomo, di essere creata per lui - e non come fine a se stessa - di essere una sua parte, la costola di Adamo, anzichè perpetuare il suo 'attaccamento' alla madre." (Chasseguet-Smirgel, 1964, p. 213)


In fondo, l’ambivalenza della società verso la femminilità non rispecchia altro che quel conflitto irriducibile che aveva delineato Freud (1929) tra civiltà e natura, tra la tecnica razionale e burocratica del Logos e la complessità inafferrabile, imprevedibile e incoercibile dell'inconscio e le passioni che lo abitano. E dunque, riassegnare il pieno valore che spetta al femminile, significa anche valorizzare quel vuoto e quell'assenza che vengono scambiati col nulla e col mancante, a causa del primo femminile sperimentato da entrambi i sessi (la madre), la cui antica e intensa nostalgia continua a rappresentare il "fattore determinante e imprescindibile - non razionale e non maschile - in ogni aspetto della vita umana, psicologica, culturale e sociale: in questo senso il femminile e l'inconscio sono portatori di una nuova cultura." (Di Lorenzo, 1989, p. 126).


"Seguire il ritmo della vita femminile significa seguire il ritmo della vita stessa, accettando gli imperativi fisiologici piuttosto che quelli di una civiltà artificiosa, anche se perfetta. Valorizzare il ritmo di lavoro maschile significa accentuarne le infinite possibilità; considerare i 'periodi' femminili significa tener conto di esigenze determinate che comportano delle limitazioni. (...) Non sorprende che nell'epoca in cui si sono scoperti dei continenti, e in cui sono state scavate miniere, ed i cieli sono diventati vie ordinarie di comunicazione, i periodi femminili siano considerati una noia o un impedimento che deve essere taciuto, sorvolato, ignorato. (...) Quando l'umanità è stata affascinata, all'udire il battito del proprio cuore, la donna, con la sua complicata biologia, è diventata modello per l'artista, per il mistico e per il santo. Quando invece il genere umano si volge a quello che può essere fatto, alterato, costruito, inventato nel mondo esterno, tutte le proprietà naturali dell'uomo, degli animali, dei minerali diventano ostacoli da superare e modificare piuttosto che indirizzi da seguire. " (Mead, 1949, p. 165-166)



Note:

[1] De Beauvoir S. (1949). Il secondo sesso. Il saggiatore, Milano, 1961.

[2] Friedan B. (1963). La mistica della femminilità. Comunità, Milano, 1970.

[3] Figes E. (1969). Il posto della donna nella società degli uomini. Feltrinelli, Milano, 1970.

[4] Millet K. (1969). La politica del sesso. Rizzoli, Milano, 1971.

[5] Firestone S. (1970). La dialettica dei sessi. Guaraldi, Firenze, 1976.

[6] Greer G. (1970). Eunuco femmina. Bompiani, Milano, 1972.

[7] Irigaray L. (1974). Speculum. L'altra donna. Feltrinelli, Milano, 1975.

[8] Stoller R. (1972). The bedrock of masculinity and femininity. Archives of General Psychiatry, 26: 206-12.

[9] Atwood G.E., Stolorow R. D. (1993). Volti nelle nuvole. Borla, Roma, 2001.

[10] Erikson E. (1964). "Womanhood and inner space", in Identity, Youth and Crisis, New York: Norton (1968), p. 261 94.

[11] Von Franz M.L. (1988). Il mondo dei sogni. Red! Ed., Milano, 2019.

[12] Harris M. (1968). L'evoluzione del pensiero antropologico. Il Mulino, Bologna, 1994.

[13] Briffault R. (1927). The Mothers: A Study of the Origins of Sentiments and Institutions. Brahmani Books, 2020.

[14] Frazer J. (1890). Il ramo d'oro. Boringhieri, Torino, 2012.

[15] Mauss M. (1924). Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche. Einaudi, Torino, 1965.

[16] Propp V. (1949). Le radici storiche dei racconti di fate. Boringhieri, Torino, 1992.

[17] Harris M. (1968). L'evoluzione del pensiero antropologico. Il Mulino, Bologna, 1971.

[18] C. G. Jung (1928). L'Io e l'inconscio. Boringhieri, Torino, 1980.



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