(stralci dal corso di alta formazione "Fondamenti di tecnica psicoanalitica" tenutosi online il 14/01/23)
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"La verità ci è talmente indispensabile che ne scontiamo la perdita con gravi malattie." (A. Miller, 1996)
Perchè la terapia psicoanalitica
Il paziente chiede aiuto perchè il suo Io non è in grado di affrontare adeguatamente conflitti e problematiche interne nell'adattamento con la realtà esterna (l'ambiente). Anche una volta raggiunta l'età "adulta", il paziente conserva infatti modalità di funzionamento arcaiche che si sono rese necessarie per l'adattamento passato (padroneggiare le difficoltà in epoca infantile), ma che in seguito sono diventate nocive e disadattive nel suo adattamento presente. Esse si sono sviluppate per allontanare dalla coscienza episodi dolorosi reiterati (il "trauma cumulativo"; Khan, 1963), relegando rappresentazioni ed emozioni connesse (e quindi aspetti del Sè) nell'inconscio (quel mondo della mente "alter" e senza tempo, governato da leggi e principi propri fuori l'area logica del razionale). Ma questi elementi inconsci, perennemente attivi e dinamici nella vita psichica, continuano a presentificarsi nella vita adulta come dei clichés, dei copioni comportamentali (la "coazione a ripetere") costantemente messi in atto (al di là della consapevolezza della persona) nonostante il loro carattere disfunzionale e patologico (occupando cioè nel presente uno spazio inappropriato), al fine di completare ciò che è rimasto "in sospeso", per soddisfare ciò che è venuto a "mancare" nel passato.
"...possiamo dire che l'analizzato non ricorda assolutamente nulla degli elementi che ha dimenticato e rimosso, e che egli piuttosto li mette in atto. Egli riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto." Freud, 1914
Dunque lavorare con l'inconscio significa conoscere il bambino che è nell'adulto, affinchè quest'ultimo possa recuperare la crescita interrotta (nei limiti del possibile), e spendere proficuamente il proprio inconscio anzichè subirlo (sotto l'espressione del sintomo o della rigidità della psicopatologia). La terapia psicoanalitica rappresenta quindi una modalità (forse la migliore conosciuta nel mondo occidentale: per approfondimenti...) che permette alla persona di comprendere e strutturare di nuovo se stessa, modificando gradualmente alcuni aspetti di sè. In un certo senso, l'analisi non fa che espandere una funzione che esisteva già nella persona (Etchegoyen, 1986): l'analista che aiuta il paziente a conoscersi e significare il caos interno, sta svolgendo la medesima funzione del genitore quando aiuta il bambino a dare un senso al mondo ed a costruire lentamente il proprio Sè.
"Noi serviamo al paziente in diverse funzioni, come autorità e sostituto dei genitori, come maestro e come educatore. (…) Gli rendiamo il servizio migliore quando, in qualità di analisti, eleviamo i processi psichici del suo Io a un livello normale, trasformiamo ciò che è stato reso inconscio e rimosso in preconscio, in tal modo restituendolo all’Io." (Freud, 1938, p. 57)
Se si dovesse riassumere in un'espressione quale sia il fine ultimo della terapia psicoanalitica, si potrebbe asserire che essa mira a rafforzare l'Io della persona, affinchè questa possa tollerare la mancanza, l'assenza e l'impossibilità di realizzare l'anelito inconscio insito nella natura umana (per approfondimenti...). In altri termini, la persona deve ritornare ad essere capace di giocare (Winnicott, 1971), ossia poter (ri)attingere a quella forza generativa e creativa che alberga dentro di sè (per approfondimenti...), e riuscire a (ri)trovare gratificazioni nel momento in cui la realtà le rende possibili (elaborando il lutto per ciò che non è stato).
Il paziente sta scappando da qualcosa, di solito da un conflitto; ma è altrettanto vero che sta correndo verso qualcosa, cioè verso una condizione in cui si sente relativamente sicuro e in cui può fare qualcosa per il problema che lo preoccupa o lo tormenta. Il “qualcosa” che alla fine produrrà, e che poi ci presenterà, è una specie di “creazione”, non necessariamente onesta, sincera, profonda o artistica, ma comunque un prodotto della sua creatività. (Balint, 1968, p. 147)
Come "cura" la psicoterapia psicoanalitica
"L'analisi non si propone di correggere i fatti del passato, il che peraltro è impossibile, ma di riconcepirli." (Etchegoyen, 1986)
Al pari di ciò che succede nella sua vita privata, in terapia il paziente vive continuamente una dicotomia (Fromm, 1964): da una parte egli vuole collaborare col terapeuta per comprendere, cambiare e maturare attraverso l'alleanza terapeutica (Greenson, 1967), dall'altra egli desidera gratificare desideri arcaici e impulsi facenti parte del suo passato che esulano dal rapporto terapeutico, seguendo cioè la cieca e diabolica "coazione a ripetere". Laplanche e Pontalis (1967) hanno descritto la coazione a ripetere in tali termini: "A livello di psicopatologia concreta, quel processo incoercibile e di origine inconscia con cui il soggetto si pone attivamente in situazioni penose, ripetendo così vecchie esperienze senza ricordarsi il prototipo e con invece l’impressione di qualcosa che è pienamente motivato dalla situazione attuale." (p. 87)
Eppure, al pari del fenomeno del gioco del rocchetto descritto da Freud (1920), la persona ripete continuamente la situazione traumatica, non solo per la rigidità delle sue modalità relazionali acquisite (i "MOI" di Bowlby, 1973; i "RIG" di Stern, 1985, i "RTI" di Mitchell, 1988) ma anche allo scopo inconscio di condurla ad una buona risoluzione (vd. "nevrosi traumatica": Freud, 1925).
Essendo lo scopo umano l'adattamento al proprio ambiente (Hartmann, 1939), le persone possiedono un "piano inconscio", secondo il quale esse vanno alla ricerca di situazioni e di persone simili alle condizioni originarie, al fine di risolverle diversamente da come sono andate in passato. E' questa infatti anche una delle funzioni essenziali del sogno (per approfondimenti...).
Il paziente necessita pertanto di una reale e concreta esperienza (riparativa) grazie alla quale poter stabilire una differenziazione rispetto alle proprie fantasie (e agli oggetti introiettati): a livello inconscio egli cerca infatti nuove esperienze e persone capaci di superare delle prove, dei "test", allo scopo di disconfermare le credenze patogene sviluppate dalle proprie esperienze infantili.
Il terapeuta, nei suoi sforzi persistenti di capire, confrontare e interpretare, si comporta in un modo realisticamente diverso dagli oggetti significativi del passato del paziente (sottolineando quindi la differenza della risposta del terapeuta rispetto alle aspettative inconsce del paziente). In altri termini, se nella relazione terapeutica l'analista non si è comportato similmente a come il paziente inconsciamente si aspettava nelle sue fantasie (ossia colludendo controtransferalmente o reagendo alle pressioni inconsce del paziente come accade nell'identificazione proiettiva), allora egli è in grado di offrire al paziente la possibilità di un'esperienza inedita, una nuova modalità di essere, consentendogli gradualmente l'espressione e l'integrazione di tutta la ricchezza degli aspetti amputati dal proprio Sè (rimossi o dissociati).
Che non significa, come scrivevano Alexander (1946) parlando di "esperienza emozionale correttiva" o Ferenczi (1932) nei suoi esperimenti tecnici spinti "ad absurdum", offrire artificiosamente al paziente un'esperienza opposta a quella che egli ha avuto in passato (aumentando la scissione tra il passato traumatico e un presente illusoriamente salvifico), o creare in modo manipolatorio e intenzionale certi risultati secondo la formula "il fine giustifica i mezzi" (manipolazione del transfert). Si tratta piuttosto di non offrire una base oggettiva (reale e non quindi solo fantasticata) a cui il paziente può "attaccarsi" per giustificare la "realtà" dei propri conflitti (e quindi delle cosiddette resistenze alla terapia); il paziente alla fine incorporerà l'analista come un oggetto differente dagli oggetti originari ("il Super-Io ausiliario", Strachey, 1934) e la stessa relazione terapeutica come "base sicura" (Bowlby, 1973) che fungerà da "stampo" per quelle future. Se invece il terapeuta collude con la parte patologica del paziente, non fa che rinforzare le modalità inadeguate che quest'ultimo usa per far fronte ai propri conflitti intrapsichici (dunque è principalmente ciò che il terapeuta fa e non solo quello che dice a determinarne l'esito); oppure, se, per motivi controtransferali, il terapeuta compie ripetuti errori tecnici mai corretti, arriva a comportarsi ricalcando i modelli affettivi appartenenti al passato del paziente, ossia rivitalizza l'antica esperienza traumatica (terapia iatrogena), portando a regressioni maligne e ad un peggioramento generale della vita mentale del paziente (perchè come può "guarire", la terapia può anche nuocere).
Sperimentare dentro di sé una cosa che era rimossa, e che a un tratto affiora a livello della coscienza, è completamente diverso dal fare delle ricostruzioni storiche sul modo in cui essa è accaduta. (…) Se uno sta per affogare, conoscere la legge di gravità non gli impedirà comunque di andare a fondo. L’esperienza infantile ha importanza solo nella misura in cui viene rivissuta e recuperata. (E. Fromm, 1991, p .47)
Ogni volta che l'analista interpreta è come se ponesse il paziente dinanzi all'erroneità delle sue percezioni (il "falso nesso"): il terapeuta permette cioè al paziente di rivedere la propria realtà interna (la "verità storica") e le teorie precostituite che egli ha su di sè e gli oggetti, in base alle quali spiega e affronta la realtà. Attraverso la relazione analitica, l'analista mostra infatti al paziente come ha costruito le proprie esperienze, instaurando una contrapposizione tra aspettative (fantasia) e realtà, passato e presente. In tal senso, si potrebbe definire l'intero processo analitico come la continua verifica delle teorie che il paziente ha su se stesso e sulla realtà (e più grave è la psicopatologia e maggiori sono le distorsioni riguardo alla percezione e al giudizio di realtà).
Dunque se da una parte il paziente conserva e reitera i propri stili patologici, dall'altra spera di poterli cambiare e di trovare nel terapeuta qualcuno che non coincida con ciò che egli si aspetta inconsciamente: la persona ripete perchè è assoggettato alla sua storia e al suo passato, ma la forza cieca del desiderio (ora "trasferito" sul terapeuta), unito alla speranza ostinata di arrivare in qualche modo a risolverlo, sono proprio ciò che permette alla terapia di compiersi.
In altri termini, è solo attraverso il transfert (in cui passato e presente si sovrappongono) che il paziente può comprendere (l'insight emotivo) come ha assimilato le esperienze significative del passato che hanno plasmato la propria personalità, e interrompere così la ripetizione coatta nel presente. E nella sua partecipazione, il terapeuta non ha bisogno di uscire dal proprio "ruolo analitico" (basato sempre e comunque sulla verità, l'onestà e la sincerità), nè di produrre appositamente certi processi, in quanto l'analisi funge semplicemente al paziente da lente d'ingrandimento che permette di osservare meglio un determinato fenomeno (il transfert per l'appunto) già esistente in sè in modo autonomo.
D'altronde, come ha fatto notare bene Friedman (1988), lo stesso Freud non ha mai contrapposto la relazione e l’attaccamento all’insight (come fecero invece i posteri "freudiani" che spesso trasformarono l'analisi in una fredda e masturbatoria indagine intellettuale), bensì egli li vide sempre estremamente collegati come in un’integrazione reciproca sintetizzata nella concettualizzazione, nella dinamica e nel lavoro inerente al transfert (il nemico non potrà mai essere vinto "in absentia o in effigie"). E affinchè la terapia funzioni, il paziente deve vivere la terapia sperimentando emotivamente i propri conflitti e i propri vissuti, e al tempo stesso "osservali da una certa prospettiva" per poterli integrare coscientemente (Sterba, 1934), al pari dell'artista intento con la propria opera, tra immersione e distacco, processo primario e processo secondario (per approfondimenti...).
"E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l'ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell'inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l'ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame" (Freud, 1910, p. 329)
Ma sarà solo il cosiddetto periodo di elaborazione a permettere al paziente di sviluppare gradualmente prospettive inedite, integrare le parti inconsce di sè e corroborare nuovi scenari relazionali. Esso corrisponde infatti a quel tempo necessario al paziente per reiterare la validità (emotiva ed intellettiva) delle scoperte fatte attorno ai suoi conflitti (sottraendo cioè sempre più materiale inconscio attorno al conflitto centrale per renderlo conscio), e imparare quindi a padroneggiare sempre meglio i propri "automatismi" comportamentali (ossia a far corrispondere le conoscenze acquisite ai fatti). In altri termini, il periodo di elaborazione si configura come un lento processo di sintesi fondamentale per produrre un cambiamento duraturo nel paziente affinchè egli possa sperimentare, assimilare e consolidare i nuovi adattamenti esperiti in terapia (e "trasferirli" quindi al resto della propria vita privata). Tale processo fornisce l'idea di come ci voglia tempo (a volte molto) affinchè il paziente riesca a prendere contatto con le profondità del proprio inconscio, integrarlo e sviluppare nuovi strumenti per far fronte ai propri conflitti. Ciò è primariamente dovuto al fatto che scoprire i propri traumi originari e non poterli cambiare nel presente corrisponde ad una vera e propria situazione di lutto, di perdita, di solitudine inevitabile, in cui l'oggetto arcaico non c'è più ed è crollata l'onnipotenza riparativa. Questa fase depressiva avrà termine solo nel momento in cui, a partire dal rapporto con il terapeuta nel processo analitico, lentamente si apriranno nuove prospettive, cosicché per la persona sarà possibile tracciare nuove vie esistenziali, a volte nemmeno immaginate prima della terapia.
"Il senso della terapia non sta nel correggere il destino del paziente, bensì nel consentirgli l'incontro col proprio destino e di vivere il lutto a esso relativo." (Miller, 1996, p.107)
Riferimenti bibliografici:
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